venerdì 28 dicembre 2012

Sui passi di Sergio Corbucci [Ombre elettriche]

Per colmare l'attesa dell'uscita italiana di Django Unchained, ho rivisto ieri sera Django di Sergio Corbucci, lo spaghetti-western del 1966 che ha ispirato (nel titolo e pare in poco più) Tarantino. E visto che era un bel pezzo che non mettevo mano alla rubrica "Ombre elettriche", ho colto l'occasione per stilare una classifica dei migliori western di questo autore.
Proprio Tarantino, in un'intervista di qualche anno fa, ha fatto un confronto fra i grandi westerners di Hollywood e gli spaghettari nostrani, facendo coincidere (in termini di qualità e non di quantità) l'opera di Sergio Leone con quella dei massimi maestri americani John Ford e Howard Hawks. Aggiunge, tuttavia, che grandi registi di "secondo livello" come Raoul Walsh o Robert Aldrich stanno ad autori italiani come Sergio Sollima e lo stesso Corbucci. Il paragone calza abbastanza bene, e soprattutto Corbucci ha dimostrato essere uno dei più prolifici e bravi registi di western all'italiana di sempre. Forse il migliore, dopo Leone.

I MAGNIFICI TRE

NAVAJO JOE (1966)
Il quinto western diretto da Corbucci è forse il suo capolavoro. Mentre in America il cinema di genere era ancora fermo a "l'unico indiano buono è quello morto" (se si esclude L'amante indiana), il regista romano sforna un crudo ritratto di un nativo sanguinario che si fa giustizia da solo, in un mondo folle e sanguinario. Debutto di Burt Reynolds (che lo ha definito la peggiore esperienza della sua vita) come protagonista, supportato da una straordinaria colonna sonora di Morricone, ha anticipato non solo la corrente revisionista del cinema western americano, ma anche i vari revenge movies spuntati come funghi dagli anni Settanta in poi.
DJANGO (1966)
Franco Nero si muove nel fango, portandosi dietro una bara. Scorrono su questo lungo e macabro campo lunghissimo i titoli di testa, sanguinolenti e quasi horror. Lontano dal western dark di Lenzi e dalla ultraviolenza facile e autocompiaciuta di Castellari, Django oscilla fra la "trilogia del dollaro" leoniana (specie per quanto riguarda il protagonista), il film di denuncia sociale (Nord e Sud, il reduce che ha vinto la guerra pubblica ma persa quella privata, il razzismo degli incappucciati del KKK, i messicani che si avviano verso un'ingorda e arrangiata rivoluzione, le prostitute) e la violenza nuda e cruda. Le sequenze memorabili non mancano (il taglio dell'orecchio, la strage a colpi di mitragliatrice, la corsa dei messicani nella prateria) e il film è uno dei più famosi spaghetti-western di sempre. Storico.
IL GRANDE SILENZIO (1968)
Con questo raffinato spaghetto italofrancesce, Corbucci sembra voler abbandonare l'eroismo e la crudeltà di Django e aprirsi ad un film dal taglio più autoriale e drammatico. I protagonisti sono due: il pistolero muto Silenzio (un Trintignant in forma smagliante) e il cattivo bounty-killer Tigrero (Klaus Kinski). Insieme, devono farsi spazio in un nevoso far-west di fine secolo. Su uno sfondo costellato da personaggi indimenticabili (il nero diventato cacciatore di taglie, su tutti), Corbucci mette in scena  lo scontro fra vecchio e nuovo (le vecchie Colti di Tigrero si scontrano con la Mauser di Silenzio), mostrando ad un pubblico forse impreparato la fine affatto gloriosa o epica di un mondo. Finale da incubo. Girato sulle Dolomiti.
DA RECUPERARE

I CRUDELI (1967)
Ingiustamente dimenticato da chiunque, I crudeli vanta un cast eccellente, una colonna sonora bellissima e la migliore sceneggiatura mai scritta da Corbucci. Punto.
IL MERCENARIO (1968)
Spettacolare film nato sulla scia de Il buono, il brutto e il cattivo, scritto e diretto benissimo e montato divinamente. Indimenticabile commento sonoro di Morricone.
VAMOS A MATAR, COMPANEROS! (1970)
Franco Nero è il damerino svedese Yolaf, mercante d'armi che si arricchisce grazie alla rivoluzione messicana, di cui El Vasco (Tomas Milian) è un sanguinario eroe. Dopo Giù la testa è il migliore spaghetto rivoluzionario d'annata, bisfrattato da tutti quelli che continuano a preferirgli pellicole meno cruente e più idealiste.







DA DIMENTICARE

JOHNNY ORO (1966)
Giustamente bollato come uno dei peggiori western di Corbucci, soffre di una lentezza eccessiva e di uno scarso carisma recitativo da parte del protagonista Mark Damon. Tuttavia, ebbe un buon successo di pubblico quando uscì. 

GLI SPECIALISTI (1969)
Un inefficace Gastone Moschin è co-protagonista di questo western ultraviolento senza arte nè parte. Trama inesistente e regia sciatta sono solo due dei suoi immani difetti.

IL BIANCO, IL GIALLO E IL NERO (1974)
L'ultimo western diretto da Corbucci è un brutto Monnezza versione cowboy. A metà fra una parodia maldestra de Il buono, il brutto e il cattivo e una volgare commedia romanesca di serie Z, c'è chi ci legge un trattato di storia sociale italiana. Mah...








giovedì 27 dicembre 2012

Inverno bonelliano [Pt. 1]

LE STORIE #3
"LA RIVOLTA DEI SEPOY"
testi: De Nardo/ disegni: Brindisi
114 pag., BN, 3,50 €

★★★

Dopo i fasti "rivoluzionari" de La redenzione del samurai di Recchioni&Accardi, la Bonelli dà alle stampe una Storia dal sapore romanzesco (gli omaggi a Kipling e Conrad abbondano) ed estremamente "storico". De Nardo ha dedicato grande attenzione al documentarsi su quella che in India fu veramente la rivolta dei Sepoy, e lo si capisce soprattutto nella magnifica sequenza di pagina 24, dove viene presentato ai soldati l'Enfield, fucile innovativo e scintilla del focolaio che scoppiò nel 1857. A momenti, la troppa attinenza alla realtà storica prende piede e la lettura si fa più faticosa, ma le ultime venticinque pagine sono pura epica. Per gli occhi di chi come me coltiva dall'infanzia la passione per le avventure a sfondo coloniale, i disegni di Brindisi saranno zucchero filato. Pur risultando inferiore, specie dopo una seconda lettura, ai suoi due predecessori, è comunque un buon albo.

DYLAN DOG #316
"BLACKY"
testi: Gualdoni/ disegni: Bigliardo
98 pag., BN, 2,90 €
★★★

Dylan Dog e Blacky. Un purosangue fantasma torna per vendicarsi e l'animalista Dylan deve indagare. Viene a galla una storia torbida, commovente e molto poco animalista, scritta da un Gualdoni in forma e disegnata da un Bigliardo che si dimostra meglio di sempre, viste le difficoltà che hanno anche i maestri nel raffigurare i cavalli. Un'ottima entrata per Dylan in questo 2013 sopravvissuto ai Maya.



Il 2012 in 20 film (i 10 più brutti e i 10 più belli)

Il 2012 volge al termine. E'stato un anno cinematograficamente abbastanza misero, con nessun vero capolavoro uscito nelle sale e autori di spicco lievemente sottotono (vedi Scorsese e Eastwood, firmatari di ottime opere, ma non di capolavori). 
Ad ogni modo, gradita sorpresa il Sollima di ACAB, regista di quello che per me è stato il miglior film italiano dell'anno. 
Immancabili alcuni blockbuster di autore come Il Cavaliere Oscuro-Il ritorno di Nolan o lo stupefacente 007 di Mendes. 
So che molti potranno odiarmi, ma per me Ted è la commedia dell'anno. 
So che molti invece mi odieranno perchè non troveranno il nome di Wes Anderson fra i dieci migliori film del 2012. 
So che coloro che di cinema proprio non se ne intendono si faranno lunghe domande sull'assenza di Breaking Down Pt. 2 o di To Rome With Love dalla top ten dei migliori. 
Mi fa piacere che il cinema scandinavo abbia dimostrato di essere anche quest'anno il migliore al mondo.
Mi fa piacere avere visto tanta buona roba francese, anche più degli anni passati.
Mi dispiace molto aver lasciato fuori dal "best of" Argo, Shame e Hunger Games.
Mi dispiace che Ridley Scott abbia toppato in pieno col suo ambizioso Prometheus.
Mi dispiace che Tim Burton sia da quasi dieci anni un regista che sforna merda per un pubblico di bimbiminkia cresciuti.
E infine, mi duole molto doverlo ammettere, ma il film che mi ha fatto più schifo è italiano. 

I 10 film più brutti del (mio) 2012

1- Acciaio di S. Mordini
2- Total Recall di L. Wiseman
3- Benvenuti al nord di L. Miniero
4- Dark Shadows di T. Burton
5- On the road di W. Salles
6- Biancaneve e il cacciatore di R. Sanders
7- Le Belve di O. Stone
8- Piranha 3D di A. Aja
9- Battleship di P. Berg
10- Prometheus di R. Scott

I 10 film più belli del (mio) 2012

1- Il sospetto di T. Vinterberg
2- J. Edgar di C. Eastwood
3- Cosmopolis di D. Cronenberg
4- ACAB di S. Sollima
5- Hugo Cabret di M. Scorsese
6- Il Cavaliere Oscuro- Il ritorno di C. Nolan
7- Skyfall di S. Mendes
8- Lo Hobbit-Un viaggio inaspettato di P. Jackson
9- Ted di S. MacFarlane
10- Amour di M. Haneke

mercoledì 19 dicembre 2012

"Sacro terrore" di Frank Miller [Bang!]

Lo dico subito: questa sarà una recensione poco obiettiva. 
Sacro Terrore (Bao Publishing, 2012), ovviamente, è ambientato in una città oscura. Potrebbe essere la Gotham City de Il ritorno del Cavaliere Oscuro, la New York corrotta e insanguinata di Devil-Amore e Guerra o la barocca Basin City di Sin City. E invece no, ci troviamo ad Empire City, dove Natalie Stack, ladra di gioielli, incrocia sul suo cammino Fixer, uno "stronzo buon samaritano", un giustiziere molto poco super-eroico. Lei ha appena rubato un bracciale di diamanti, lui la bracca, la raggiunge, la afferra. Si baciano e si promettono amoreodio eterno (per inciso, IO ho i lucciconi già a pagina 10). 
Poi l'esplosione. Non si capisce bene chi, come, perchè. Una pioggia di chiodi e lamette investe Empire City. Natalie è ferita, Fixer la trae in salvo. Nulla di grave, dice. Potrebbe essere un attacco terroristico. <<E' guerra, piccola!>> esclama Fixer. 
Intanto vediamo gli islamici prepararsi. I chiodi e l'esplosione erano solo l'inizio. Dan Donegal è il capo della polizia, ed è anche il capo di Fixer. Non c'è tempo per innamorarsi, nè per discutere. I due sono insieme, non si sa se si amano o si odiano: devono solo uccidere gente. Natalie mette il burqa e riesce a infiltarsi in una bizzarra moschea sotterranea. Uccide quanti più terroristi le è possibile, e Fixer accorre in suo aiuto. Ed è allora che i martiri rimasti vivi decidono di raggiungere le promesse settantadue vergini in Paradiso. E...

L'opera è stata stroncata praticamente da chiunque, sia negli States che nel resto del mondo. Tutti a dare del fascista a Miller, tutti a dire che ha sfruttato la condizione post-11 settembre per fare una storia che si interessa solamente di violenza, crudeltà e machismo. Sinceramente, mi trovo in totale disaccordo con tutte queste pesanti critiche. In Italia tutti a parlare male dei protagonisti, "brutte copie di Batman e Catwoman". Una somiglianza con il Cavaliere Oscuro e la Gatta c'è, è voluta ed è utile a capire quanto Fixer e Natalie siano lontani dagli universi DC o Marvel. Fixer è un poliziotto ex-mercenario che ha un costume addosso: niente di più e niente di meno. Non è un macho, lo sa bene; la sua è una semplice maschera, e lo dichiara apertamente: "Per tutta la vita ho percepito qualcosa di sbagliato. Sentivo che tutto ciò che vedevo intorno a me non era del tutto vero. Che questo mondo apparentemente governato da leggi e logica e ragione non era che un sudario. Una chimera. Una maschera. Ma di tanto in tanto la maschera cade. In quei rari attimi, tutto il mondo ha perfettamente senso. Il mondo mi si rivela. Sono in pace. E in guerra". E dunque la guerra, la violenza animale sono la realtà, la civiltà è la menzogna, nello schema di Fixer. Natalie invece è una ladra che indossa un travestimento per motivi di lavoro. Dov'è il problema? Niente è più lontano dai super-eroi milleriani di Sacro Terrore, un fumetto che non è stato capito e che, soprattutto per i suoi personaggi, è nettamente superiore anche a 300. I disegni sono brutti, tirati via e pieni di inchiostro buttato a caso? Diciamolo: credo che alcuni fra i più apprezzati fumetti italiani siano fra le cose peggio disegnate di sempre, eppure vendono, hanno successo e "assurgono" al rango di graphic novel. Che immane stronzata. Che ipocrisia. Al contrario di certa spazzatura intellettualoide, Frank Miller è vero, è crudo. In questo volume senti i chiodi conficcarsi nella gamba della Gatta, l'odore delle macerie entrarti nei polmoni, il sangue, la paura, l'amore. E poi, gente, parliamoci chiaro: ogni tre pagine c'è un dialogo o una manciata di didascalie che valgono da sole i 19 euro del prezzo di copertina. Quasi all'inizio, i due si sono baciati, si stanno innamorando e se le danno di santa ragione, e assistiamo ad un monologo interiore "a due voci". "Non è che l'avessimo pianificato. Non sapevamo nemmeno di desiderarlo. Era soltanto una nottata noiosa. Tutto qui". Il destino, una notte noiosa, due anime si incontrano, si odiano, si amano, uccidono. L'amore secondo Frank Miller? Di nuovo? Credo di sì, o almeno è quanto avverto io leggendo e rileggendo Sacro Terrore. Bene o male, Miller ha sempre portato in scena questo amore del "sempre e mai", soprattutto ai tempi di Sin City. Fixer osserva Natalie volare sui nemici e pensa: "Vola. Spero di non essermi innamorato di lei. Non mi sono mai innamorato. Non voglio innamorarmi. Non devo innamorarmi. Mai". La reale domanda attorno a cui ruota la storia non è "vale la pena prendere parte ad una lotta senza quartiere contro una delle religioni più antiche del mondo?", bensì "vale la pena amare come Fixer ama Natalie e viceversa"?
Io credo di sì. Almeno provarci...

PICCOLA GALLERIA

Il primo bacio


Aprite il volume, e vi troverete davanti questo

Griglia sperimentale

Fototessere

Lei: <<Fammi stare male. Ora>>. Lui: <<Contaci>>.
Del resto, si amano.



martedì 18 dicembre 2012

Django Unchained OST [Suggestioni uditive]

Per tutti coloro che aspettano con impazienza il 17 gennaio 2013 per vedere Django Unchained al cinema, è disponibile da oggi la colonna sonora del film. 
Inutile che stia a dire quanto siano belle le colonne sonore di tutti i film di Tarantino, dalla prima all'ultima, nessuna esclusa. Certo, è chiaro che ognuno potrà avere la sua preferita: il purista rocker più on the road prediligerà certe rarità di Death Proof OST, così come il fissato di funk e R&B anni '70 idolatrerà Jackie Brown OST. Se si volesse davvero essere obiettivi, le due Kill Bill OST sono quelle che mettono tutti d'accordo, ma anche con Django, fidatevi, c'è di che spaziare e di che nutrire gli ascoltatori dai gusti più disparati.
Cominciamo col dire che c'è molto materiale di buona e in alcuni casi ottima qualità proveniente dai vecchi cari spaghetti-western: in primis, Django (Main Theme) e La corsa (2nd version) di Bacalov sono entrambi estratti dalla colonna sonora del Django corbucciano; sempre Bacalov firma l'eccezionale His name is King, presa dai titoli di Il suo nome è King, film minore interpretato dal grande Klaus Kinski. Rimaniamo nel west e rimaniamo fra i grandi maestri: l'immancabile Ennio Morricone firma, per la prima volta, un brano originale confezionato su misura per l'amico Tarantino. Si tratta di Ancora qui, cantata da Elisa (quell'Elisa, sì) e pare già pre-candidata ai Golden Globe: ecco, forse è il pezzo più brutto della colonna sonora. La melodia è valida, ma nulla di speciale, in linea col Morricone degli ultimi quindici anni; le parole sono di una stupidità immane, eppure sembrano essere piaciute molto negli States. Ma il buon Quentin, per fortuna, si è ricordato di altre ottime cose scritte dal Maestro nei lontani anni '60: e dunque ecco venire fuori Sister Sara's Theme e The Braying Mule, nate per Gli avvoltoi hanno fame di Don Siegel, un divertente film con Clint Eastwood e Shilrey MacLaine molto avanti per quell'epoca e che consiglio a chiunque. Ben più da intenditori è l'origine della solenne Un monumento, composta da Morricone nel 1967 per una pellicola meno ricordata di Corbucci, e cioè I crudeli: questo film, spacciato da decenni come westen di serie Z, è in realtà molto ben fatto e interpretato, fra gli altri, da Joseph Cotten. Si prosegue con il caro Riz Ortolani, il cui mitologico tema principale de I giorni dell'Ira (usato per una manciata di secondi già in Kill Bill vol. 2) trova spazio anche in Django e che riesce sempre a coinvolgere. Infine, una chicca inaspettata: Trinity (titoli) di Franco Micalizzi, un bel regalo per tutti gli amanti di Bud Spencer e Terence Hill. 
Cambiamo genere e approdiamo ad un'altra importantissima componente della colonna sonora: l'hip-hop. Non sto scherzando. 2Pac firma Unchained, il remix di The Payback di James Brown (quello già udito nel trailer del film), che forse è il miglior pezzo di tutta la colonna sonora. Dentro di sè Unchained ha tutto, ha il rap di strada, le chitarre folk dei cowboys, i fiati di Morricone e trasmette un senso di avventura epico; il tutto in  due minuti e qualcosa. Veramente tamarro e divertente il brano 100 Black Coffins di Ricks Ross, artista southern-rap giovane, giunto alla ribalta negli ultimi anni grazie e praticamente sconosciuto in Italia. In compenso, il più noto John Legend è presente nella colonna sonora con il tiepido R&B Who Did That To You. Splendida rivelazione la voce di Elayna Boynton, che duetta con il rapper Anthony Hamilton in Freedom, ibrido di R&B classico e folk-song da profondo sud degli Stati Uniti. 
Perla inaspettata la Nicaragua di Jerry Goldsmith, facente parte del film Sotto tiro, una pellicola di discreta fama. Valida ma un po' troppo lunga Too old to die young di Brother Dege, un artista di strada americano fissato col dobro e vestito veramente come un cowboy. Capolavoro assoluto I Got a Name di Jim Croce, leggendario cantante country morto purtroppo molto giovane.
Se infine posso dare un consiglio, aggiungete alla vostra Django Unchained OST i brani eliminati ma presenti nel trailer: I'm a Man dei francesi Black Strobe (un bel blues elettronico, solido e cattivo), la superba Ain't No Grave di zio Johnny Cash, il remix di The Ecstasy Of Gold di Morricone (lo trovate anche su Soundcloud) e Theme Of "Rome" dei nostrani Danger Mouse. Quest'ultima, in realtà, non la trovate neanche nel trailer: era stata messa in un "fake" dei titoli di testa del film su YouTube e mi è piaciuta talmente tanto che, anche se so bene che si tratta di un falso, la posso associare solo al film.
Ascoltatevi bene questo disco. E aspettate...

domenica 16 dicembre 2012

[Recensione] Lo Hobbit-Un viaggio inaspettato

La compagnia dell'anello mostrava, nel 2001, ai miei occhi di undicenne già imbottito di letture tolkieniane, uno splendido modo di rappresentare un determinato universo fantasy. Lo Hobbit ha finito col confermare ciò che ho sempre sperato: e cioè che la solida "cattedrale" cinematografica eretta da Peter Jackson undici anni or sono fosse ancora in piedi e continuasse a irradiare bellezza. 

Certo, non mi sono fatto abbindolare tanto facilmente, specie all'inizio. Il film è innegabilmente bello, ma ci mette un po' a "carburare". Non ci vedo niente di male in un Frodo Baggins che compare dopo due minuti di film, d'altro canto sopporto poco i siparietti comici della cena a casa di Bilbo e ancora meno gli orribili stornelli che vengono intonati durante e dopo il convivio. Tolte queste due cose, non è cambiato niente. Tutto è esattamente dove doveva essere e come lo avevamo lasciato nel 2003 (anno in cui Jackson disse temporaneamente addio alla Terra di Mezzo): casa Baggins, la contea, il costume di Gandalf (qui di nuovo in grigio) e quello di Saruman (che, come Frodo, nel romanzo del 1937 non compare; ma si sa che Lo Hobbit di Jackson, articolandosi in ben tre film, conterrà anche personaggi e vicende estrapolati da altre opere di Tolkien), Elrond, Gran Burrone, gli orchi, le spade, le mappe e le magnifiche ambientazioni. Sembra che questi nove anni non siano passati nell'universo creato da Jackson, ed è questo uno dei fattori che più mi ha permesso di apprezzare il film. E' vero che allo spirito del romanzo si guarda poco, e che gli sceneggiatori hanno puntato parecchio sulle tinte più dark della storia: d'altronde, il libro si poneva come una fiaba per bambini un po' cresciuti e non come una colossale enciclopedia fanta-epica sulla lotta fra Bene e Male come sarebbe stato Il signore degli anelli. Infine, non capisco queste lamentele sulla slitta trainata dai conigli: è stupida, va bene, ma dio santo, si è visto di peggio e si sono buttate via risate per mooooooolto peggio negli ultimi anni. E poi date retta "a un bischero": dimenticate tutti gli aborti e gli pseudo-film girati in salsa fantasy negli ultimi dieci anni, buttate nel cesso i maghetti di Hogwarts, richiudete quei terrificanti armadi magici e accompagnate in clinica i vampiretti canadesi che neanche possono trombare (e magari approfittatene per lasciarci anche chi li ha tanto amati). 
Se è il fantasy al cinema che cercate, andate a vedere Lo Hobbit di Jackson; se avete voglia di leggere fantasy, leggete Lo Hobbit di Tolkien. Altrimenti, fate altro. Tutto il resto è imitazione scadente, è merda. 
Ah, se domani qualcuno andasse a vederlo, me lo faccia sapere. Ci torno volentieri.

sabato 15 dicembre 2012

[Recensione] Tutto Tutto Niente Niente

Nel 2011, le gesta di Cetto La Qualunque hanno divertito molti italiani, me compreso. Mi aspettavo una comicità barzellettistica, ricolma di satira politica di bassa lega, e invece no. Il film risultava una commedia brillante, ben riuscita, con ottimi interpreti e una storia alquanto efficace. Tutto sommato, Qualunquemente stava insieme.
Oggi, Cetto e la sua "squadra" vengono arrestati e sbattuti in galera, ma nel giro di poco tempo - complice l'intervento del potente e corrotto Sottosegretario (un Fabrizio Bentivoglio un po' "sciupato")- il sindaco di Marina di Sopra viene rilasciato e spedito in Parlamento. Assieme a lui, arrivano anche il pugliese Frengo Stoppato e il veneto Rodolfo Favaretto: il primo, è un guru catto-fricchettone all'estero, dedito all'erba e ai rave-parties, finito dentro a causa dell'intervento di una madre devota e asfissiante; il secondo è un leghista che gestisce un selvaggio traffico di schiavi e il cui unico obbiettivo è far annettere lo sputo di paese in cui vive all'Austra (con tanto di superstrada Brachetto di Sotto-Udine-Vienna). I tre personaggi (tutti interpretati da Albanese) si ritrovano a Roma e ne combinano di cotte e di crude, tutti totalmente incapaci di rinunciare alle loro vecchie abitudini. 
Il film, per quanto mi riguarda, se la prende con le categorie giuste: mafiosi, leghisti (o razzisti, tanto è uguale), politici corrotti, Vaticano, ecc. 
Il film può contare su tre personaggi principali molto ben interpretati, ma non ha alcuna figura secondaria a cui appoggiarsi, nonostante la presenza di Bentivoglio e di Paolo Villaggio (un Presidente del Consiglio che non dice una parola per tutto il film e pensa solo al cibo).
Un paio di battute sono memorabili, il resto è risentito, vecchio, da buttare.
L'aspetto politico (qui sbattuto in faccia allo spettatore e non lievemente celato come in Qualunquemente) ha il sopravvento su tutto, ma finisce col risultare noioso. 
La comicità è meno becera e genuina del precedente, vorrebbe in certi casi assumere aspetti più "raffinati", ma ottiene l'esito contrario: barzellette da caserma e, in certi passaggi (penso all'esperienza di Cetto col trans) humor pecoreccio troppo spinto per un attore del calibro di Albanese.
Una cosa sola mi ha fatto veramente stare bene: l'intervento di Frengo in Vaticano, durante la presentazione di un libro sulla famiglia tradizionale. Un pensiero mitologico.


venerdì 14 dicembre 2012

Il manipolatore dell'anima [Trame]

PREMESSA

Visto che mi sono promesso di pubblicare almeno un racconto al mese, ho pensato a qualcosa di carattere natalizio, ma mi sono accorto di non avere mai scritto nulla a riguardo. Così, ho rovistato fra le cartelle più "polverose" del Mac, ripescando Il manipolatore dell'anima, presentato in occasione del concorso letterario Don Muzzi, indetto dalla Banca di Monteriggioni (ora Banca del Chianti o qualcosa del genere) nel 2008. Il tema del concorso di quell'anno era Io e gli altri. Lo scrissi in un paio d'ore in classe, in una mattina fredda come questa e con molta più rabbia in corpo. E vinsi.
Buona lettura.

IL MANIPOLATORE DELL'ANIMA


All’ultimo piano dell’ultimo palazzo dell’ultimo quartiere, nell’ultimo, estremo lembo del mondo conosciuto, la luce settembrina si rifletteva sulle finestre, chiuse a tutto ciò che potesse, in qualche modo, rassomigliare alla vita. Lucidai quattro bicchieri e li posai sul tavolo di noce al centro del salotto, sicuro che, di lì a poco, avrei ricevuto visite. La visita era per me un concetto piuttosto sbiadito, giacché i pochi amici di cui avevo deciso di circondarmi si erano trasferiti da tempo, alla ricerca della fortuna e della vita, nelle grandi città, lontano dalla costa sulla quale io risiedevo. I contatti con loro erano andati quasi totalmente persi, ma, ogni tanto, qualcuno si rifaceva vivo, fintamente desideroso di aggiornamenti sul mio stato emotivo e sul mio lavoro. Quasi sempre li sentivo ansiosi, preoccupati per me, che, in tutta franchezza, non avevo problemi di alcun tipo, né provavo invidia nei confronti di nessuno, essendo quasi privo di termini di paragone e di modelli migliori in cui potermi specchiare: semplicemente, ero voluto tornare nella casa che mi aveva visto nascere, alla ricerca dei suoni dell’infanzia, intimamente nascosti tra i flutti del Mediterraneo. Altrove non ero mai stato felice: lo dimostrava quell’atroce sensazione di smarrimento sociale in cui mi ero imbattuto sin dagli anni della scuola superiore e che, all’università, era andata accrescendosi in maniera preoccupante.

Allora frequentavo una facoltà di elettronica, scelta a causa dei miei istinti di manipolatore di suoni, e vivevo quotidianamente in bilico fra euforia e insofferenza, rifiutando ogni rapporto con i miei compagni. Quando mi accorsi che non potevo convivere neanche con me stesso, decisi di andarmene. Non mi ero neanche sforzato di legare con altri esseri umani, anche perché relazionarmi con cose o persone nuove significava alimentare sospetti troppo dannosi alla psiche. Scettico lo ero sempre stato, sin da bambino. Per il mio decimo compleanno ricevetti in regalo un pianoforte a coda, poiché i miei avevano già notato la mia predilezione per la musica; e non dimenticherò mai le loro facce mentre mi osservavano battere non sui tasti, ma direttamente sulle corde, apprezzando notevolmente il suono emesso: ora potevo fidarmi di lui. Un evento simile si verificò per i miei sedici anni, quando comperai il primo sintetizzatore, che non volli nemmeno provare, preferendo afferrare un cacciavite in garage per smontarlo e manomettere la sua logica interna. Come avevo fatto con questi strumenti, così mi piaceva comportarmi con la gente: la aprivo, tentando di adattarla perfettamente ai miei gusti, di manomettere la sua anima e il suo cervello. Quando capii di aver fallito in questi miei propositi, allora decisi che avevo chiuso con la socialità e che potevo ritirarmi, solo e senza alcun titolo di studio, a registrare suoni. Coloro che erano definibili miei amici risultavano essere, in realtà, delle splendide radio o televisioni, che mi tenevano aggiornato su quanto stava accadendo nel mondo intorno a me. Catalogavo in un archivio i loro nomi, i loro dati, una breve nota biografica e alcune foto; poi, quando ne avevo voglia, aprivo queste cartelle e davo dei voti da 1 a 5, congetturando su quale sarebbe stata la loro residenza ultramondana: Inferno, Purgatorio o Paradiso?
Scrissi su un’agenda i nomi dei miei ospiti di quella sera: persone di modesta levatura umana, ma ben piazzate nella società dalla quale ero fuggito. Provai una strana sensazione, come se stessi aspettando da anni questo momento. Mi sedetti, rigirandomi fra le mani l’Anabasi di Senofonte, sfogliai quel volume che avevo letto più volte in gioventù e mi accorsi, in quel preciso istante, che era da moltissimo tempo che non sentivo la mia voce. Socchiusi le labbra e iniziai a leggere: l’attenzione si posò interamente sul mio tono, sulla mia stessa voce, ignara di ciò che stavo dicendo. Il suono che emettevo mi stava entusiasmando, poiché avevo capito che, pur stando da solo, riuscivo a fare qualcosa che, solitamente, avevo sempre eseguito in compagnia. Ero felice e mi dimenticai quasi dell’impegno preso con gli amici. Misi da parte i nastri registrati che andavano accumulandosi nello studio, spolverai il piccolo busto in marmo di Bach, raddrizzai il ritratto di Peter Bruegel appeso alla parete del salotto e ordinai simmetricamente le sedie intorno al tavolo, dopodiché riposi sulle mensole i molti volumi sparsi per tutta la casa: mi passarono di fronte agli occhi Pascoli, Pasolini, Wittgenstein, Pennac, Musil, Sartre, Joyce, Ariosto e Petrarca, e li amai tutti, considerandoli i miei soli e veri amici. Per tre volte udii sonori battiti sulla porta e capii che gli ospiti erano arrivati. Per un attimo tornai alla realtà ma subito ripresi a immaginare: immaginai queste tre persone che mi tenevano compagnia per un tè, che mi pregavano di far loro visitare l’appartamento, che mi interrogavano sul perché di certi miei indumenti, che mi criticavano come un artista disturbato e disturbante, che mi definivano un eremita, che mi tempestavano di domande sul mio attuale lavoro, che mi raccontavano dei loro affari cittadini, che mi riferivano con pervertito divertimento dei loro esperimenti sessuali, che mi chiedevano come mai non trovassi una moglie, che mi consigliavano l’ultimo libro o l’ultima canzone. Allora mi accorsi che non avrei mai sopportato tutto questo. Preferii così fare finta di non esistere e non aprii.
Non avevo nulla contro di loro e non mi ero mai ritenuto un misantropo, ma semplicemente un individuo scontento di se stesso. Essi, invece, mi avrebbero parlato di una vita felice, calata per me in una società malsana, sbagliata, da rifare. Bevvi un po’ di vino bianco, sicuro che i miei ospiti non si sarebbero offesi per non essere stati ricevuti e che a casa avrebbero mangiato meglio che da me, per poi raccontare alle mogli quanto secondo loro fossi folle, perso, scontento, infelice. Andai a letto, cercando di capire cosa gli altri potessero provare pensando a me. Affiorarono idee troppo profonde da analizzare per un uomo che stava sprofondando nel mondo dei sogni. Liquidai la giornata, la vita e le amicizie con un terribile pensiero, ossia che l’universo è solo una casualità moralmente vuota e di inimmaginabile violenza.






giovedì 13 dicembre 2012

Memorie di un uomo in pigiama [Bang!]

Il fumetto è l'arte nata sui quotidiani, e io vado pazzo per quelle vecchissime storie che vedevano la luce  sulle testate americane. Penso a Krazy Kat o a Popeye, a Bibì e Bibò o a Dick Tracy, ai fumetti di Alex Raymond e a quelli di Lee Falk, al Dick Tracy di Chester Gould fino al Dilbert di Scott Adam. Il giornale ha avuto un peso enorme nello sviluppo dei comics
Paco Roca, 43enne nato a Valencia, deve essersene ricordato nel dare alle stampe la sua prima tavola domenicale, comparsa sul quotidiano spagnolo Las Provincias, alla quale sono andate ad aggiungersene molte altre. Le Memorie di un uomo in pigiama (Tunué, 79 pag., 14,90 €) altro non è che la raccolta completa di queste tavole domenicali, efficacemente tradotte in italiano da Stefano Travagli. Tendo a sottolineare l'importanza della traduzione perchè le Memorie sono un fumetto umoristico, con battute nate in lingua straniera ma che, anche trasposte nella nostra, risultano comunque divertenti. Paco, calato nel suo pigiama a righe, racconta le sue giornate, i suoi amici (che hanno i nomi dei segni zodiacali), la sua fidanzata (Lei), le sue avventure di vita quotidiana. E lo fa con un uso del linguaggio invidiabile e attraverso un disegno semplice e gradevole, contraddistinto da un tratto nitido e da colori morbidi e mai stucchevoli. La sua è un'indagine sulla propria esistenza e su quella degli altri; risulta, a modo suo, un atto di cronaca, di giornalismo disegnato. Alcune pagine sono più eloquenti di tantissimi articoli firmati da autorevoli psicosocioantropologi che da anni (e da quando c'è la crisi, sembra quasi che si divertano) appestano i quotidiani di tutta Europa. Datemi retta, spendete quindici euro e compratelo: sarà più utile delle rubriche sui "ggiovani" di Corriere.it (penso alla plurivergognosa Solferino28).
Un volume che si legge benissimo, e che si rilegge all'infinito. Sempre volentieri e sempre avvertendo quella "familiarità" un po' rara a trovarsi fra noi e i personaggi di un libro stampato.
E infatti...





mercoledì 12 dicembre 2012

Autunno Bonelliano [Pt. 6 e ultima]

ZAGOR #620
"PIRANHAS!"
testi: Burattini/disegni: Laurenti
Sergio Bonelli Editore
98 pag., BN, 2,90 €

★★★

L'impressione di aver già visto lo Spirito con la Scure alle prese con gli insidiosi killer fluviali c'è, ed è ben giustificata. Nel lontano numero 173, dall'eloquente titolo Piccoli assassini, Zagor faceva la conoscenza dei temibili piranhas per la prima volta. Oggi, dopo alcune decine di anni, li incontra nuovamente, in Amazzonia, dove si trova già dal numero 218 e dove ha finalmente raggiunto il suo scopo: scovare le Amazzoni. Anche se questo Zagor travestito da Tarzan con scure e pistola sta iniziando a stancare, l'albo è come sempre appassionante e ricco di rimandi a vecchie, splendide storie.



MARTIN MYSTERE #324
"LA FINE DEL MONDO"
testi: Mignacco/ disegni: Tuis (con la collaborazione di Romanini)
Sergio Bonelli Editore
162 pag., BN, 5,00 €
★★
Per tutti coloro che non conoscono bene la storia (in questo caso, anche editoriale) del BVZM, faccio una breve premessa: nel 1999, memore della fortunata saga dei Mysteri Italiani (nn. 133-162), la Bonelli mise in cantiere un'altra saga (anche se di dimensioni più ridotte) sull'imminente fine Millennio. Iniziata con il numero 203 (L'occhio di Odino) e conclusasi dieci mesi dopo con La fine?, vanta sicuramente delle belle storie, che pur essendo autoconclusive risultano intimamente connesse fra di loro (come era già successo nei Mysteri Italiani). Il nuovo La fine del mondo non convince molto. Ovviamente, si parla del 21/12/12, ma se ne parla "in piccolo". Manca l'epica legata ad albi come Il virus di fine millennio o Countdown: meno uno, manca il fattore apocalittico. L'apocalisse cui assiste Mystère è quella di un paesino del Nord-America che è sprofondato in una sorta di nuovo medio-evo. Sinceramente, mi aspettavo qualcosa di più epico per chiudere l'anno editoriale che ha visto, tra le altre cose, il BVZM spegnere trenta candeline.

P.S.: con questa recensione si conclude l'Autunno Bonelliano, e dunque, arrivederci all'inverno...

domenica 9 dicembre 2012

[Recensione] Moonrise Kingdom

Partiamo da questo presupposto: Wes Anderson è un bravo regista, non un genio.
Potrei dire lo stesso di Sofia Coppola.
Entrambi hanno in comune di essere divenuti alcuni dei pochi riferimenti culturali di una certa subcultura (qualcuno la definisce "hipster", ma io non ho ancora capito bene di cosa si tratti realmente) pericolosissima e figlia di questi anni Duemila. 
Tuttavia, ho avuto la fortuna di vedere I Tenenbaum molti anni prima che i Ray-Ban modello "Wayfarer" (che pure io posseggo, anche se nella versione da sole) spopolassero fra questi accattoni intellettuali, e quel film mi è piaciuto. Ho avuto la fortuna di recuperare anche Rushmore, il secondo lungometraggio di Anderson ingiustamente dimenticato. Le avventure acquatiche di Steve Zissou mi ha fatto letteralmente impazzire e l'ho visto e rivisto sempre con grande piacere. Il treno per Darjeeling l'ho trovato meno bello di Zissou, ma comunque profondo e commovente. E devo ammetterlo: anche Moonrise Kingdom è un buon film. 
Isola del New England, 1965. La storia di amore degli infelici dodicenni Sam (Jared Gilman), capo-scout orfano e manesco, e Suzy (Kara Hayward), figlia di avvocati e fissata con i romanzi di magia, è una cosa seria. L'amore innocente di questi due pre-adolescenti è sicuramente più forte di quello di molti adulti, eppure è contrastato. La famiglia reclama Suzy, i servizi sociali vogliono portare via Sam (orfano e abbandonato anche dai genitori adottivi a causa del suo comportamento anti-sociale). Quella che i due architettano è una "fuga d'amore", breve ma intensa, erotica ma mai sconcia. Attorno a loro, gli adulti si dimostrano poco comprensivi, troppo presi da altri problemi e dal mantenere intatte le apparenze. E sarà grazie ad una tempesta (durante la quale se ne vedono di cotte e di crude) che Sam riuscirà a sfuggire alle grinfie di chi lo vuole in orfanotrofio, e potrà rimanere accanto all'amata Suzy.
I due protagonisti sono bravissimi, e poi c'è un trio che annovera alcuni fra i miei attori preferiti: Bill Murray (che gira per casa seminudo, con bottiglia di vino in una mano e ascia nell'altra, e varrebbe da solo tutto il film), Edward Norton (un capo-scout molto poco "nortoniano") e un Bruce Willis in stato di grazia nei panni del poliziotto. La scelta delle colonne sonore è eccellente: Britten, Schubert e perfino un po' di Mozart. La storia è la storia di un film di Wes Anderson: poca cattiveria e finale mai eccessivamente allegro e spensierato.
Cosa non mi è piaciuto? Le montature degli occhiali, il trucco e i vestiti di Suzy, le scenografie (erano esattamente come ci si poteva aspettare), le copertine artistiche dei libri inventati (che forse sono costate più del film), tutti quei rimandi alla Francia, la stessa abusata fotografia "lomo" del cazzo, la macchina da presa che si muove "a tappe" nella casa dei Bishop, il prevedibile uso della stop-motion (qui sterile e non emozionante come in Zissou). Insomma, Wes Anderson può ringraziare il suo script e i suoi attori (e che attori!), perchè se non fosse per loro Moonrise Kingdom sarebbe solo un manierato filmetto alla Wes Anderson. E questa cosa, un po', rimane sulle palle.

venerdì 7 dicembre 2012

Settimanalmente... [Bang!]

Oggi ho comprato Brivido a Monza, il primo numero di Michel Vaillant, "nuovo" allegato settimanale di cui La Gazzetta dello Sport  sta curando l'uscita, ora che The Amazing Spider-Man volge alla fine e che la "lussuosa" raccolta di Superman si è conclusa da quasi un mese. 
L'idea di una raccolta a basso costo per i tipi de La Gazzetta è ottima. I primi numeri saranno infatti disponibili al prezzo di 1 euro, e va ricordato che finora gli allegati a fumetti del quotidiano sportivo più famoso d'Italia hanno spesso avuto un costo superiore ai consueti 7,90 euri del gruppo L'Espresso. Non credo che inizierò a comprare settimanalmente la ristampa delle migliori storie di Vaillant, per una questione di gusto personale e, solo in secondo luogo, di soldi, ma lodo comunque la nuova iniziativa della RCS: si conferma, attualmente, un gruppo di idee variegate (se non ami i super-eroi o non hai 10 euro la settimana per Spider-Man, ora c'è Michel Vaillant) e, nel caso di Mytico, uniche. 


Cambiando totalmente genere e approdando a qualcosa che mi tocca più da vicino, un paio di giorni fa Il Sole 24 Ore ha dato l'annuncio che la splendida Storia del West di D'Antonio proseguirà per altri venti numeri, arrivando dunque al 40. Quando penso ad altre venti settimane in cui sborserò 5,90 euro per leggere le gesta della famiglia MacDonald, non faccio salti di gioia. Ma poi, una volta letto un nuovo numero, capisco il perchè continui a elogiare il lavoro fatto dal quotidiano rosa e a devolvergli volentieri parte delle mie limitate finanze ogni sacrosanto mercoledì.
Ed è in momenti come quello che non capisco chi ormai disprezza comprare i fumetti in edicola. Mah...

mercoledì 5 dicembre 2012

[Recensione] C'era una volta in America-Director's Cut

Entro in sala alle 19:30. 
"Mani due spugne, salivazione azzerata, puzzo come un cane marcio dopo una giornata di pioggia" (citazione fantozziana), perchè ho fatto una marcetta in salita. 
Trovo posto in seconda fila, al centro. <<Le immagini qua davanti arrivano prima>> dicevano i Dreamers bertolucciani. E forse è anche vero.
Nello stomaco ho qualche tartina e un bicchiere di Gewurtztraminer, rimasugli di uno sbrigativo "apericena" (che termine detestabile). 
C'era una volta in America (versione restaurata e con quasi mezz'ora di inediti) di Sergio Leone inizia in perfetto orario, alle 19:45. 
<<Se il proiezionista esiste ancora ed è una persona seria>> penso durante i titoli di testa <<non fa intervallo>>.
Ebbene, il proiezionista (o chi per lui) è una persona seria: il film va avanti senza interruzioni per la bellezza di 256 minuti. 
La mia recensione è semplice: il restauro è eccellente, non toglie nulla alla versione DVD e ci sono un paio di sequenze notevolmente migliorate (il suggestivo e nebbioso recupero delle casse lungo l'Hudson e Noodles che fa visita al mausoleo dei suoi amici a Riverdale). Le scene inedite (a parte la chiacchierata con la direttrice del cimitero) non sono inserzioni forzate, come magari può capitare in altri film restaurati con l'aggiunta di materiale mai visto. Il restauro audio fa paura da quanto è efficace: la musica di Morricone inonda il cinema, un cinema che non è neanche all'avanguardia della tecnica, e fa venire i brividi. Sarà che visto sul grande schermo, tutto può fare un altro effetto, ma ci sono stati dei momenti in cui davvero era dura per me trattenere le lacrime.
In sostanza, anche nella sua nuova veste, C'era una volta in America si conferma per ciò che è sempre stato: un capolavoro. 

martedì 4 dicembre 2012

Cosa aspettarsi da "Django Unchained" [Scosse]



Ero molto combattuto se scrivere o meno la mia anteprima del nuovo film di Quentin Tarantino, visto che, da sei mesi ormai, chiunque segua anche un minimo il cinema ne parla e ne discute come se Django Unchained fosse già uscito. E invece non è così. Infatti, negli Stati Uniti arriverà il 25 dicembre (la prima proiezione per addetti ai lavori, stampa esclusa, si è tenuta due sere fa), mentre da noi dovremo aspettare il 17 gennaio 2013 (non il 4, come era stato annunciato e come molti siti continuano a sostenere). 
La trama non è più un segreto per nessuno (per chi non la conoscesse e la volesse leggere, la trova qui), non è (grazie a Dio) il remake del Django corbucciano (come a suo tempo Bastardi senza gloria non fu il remake di Quel maledetto treno blindato) e sarà, con i suoi 165 minuti, il film più lungo di Tarantino. Sono sempre molto fiducioso quando si parla di Tarantino, per il semplice fatto che è un grande uomo di cinema. Non mi interessano le sue t-shirt idiote, nè trovo nulla di bello in quella che la rivista Nocturno esalta da diversi anni come "la riscoperta di capolavori della settima arte da parte di Tarantino". Tarantino non riscopre, casomai ruba, cita e facendolo può solo migliorare. Il problema è che il 70% del pubblico va alla ricerca del riferimento a film improponibili e poco conosciuti, li recupera e ne realizza una recensione di venti pagine, manco si trattasse di un film di Welles. Me ne accorsi quando, nel 2007, uscì A prova di morte (il "filmetto" di Tarantino): tutti a perdersi in cazzate, a cercare una copia di Fuori in 60 secondi (quello del 1974, e non quell'orrore del 2000) o a farsi mandare da qualche zio australiano tonnellate di b-movie ricolmi di inseguimenti in auto; quando, alla fine, nessuno sembrava fare caso al fatto che la papera sulla macchina di Stuntman Mike è un chiaro riferimento a Convoy di Peckinpah o che la poesia recitata da Kurt Russell alla Ferlito è tratta da Telefon di Don Siegel. Tutte citazioni palesi di film molto più famosi, ma volutamente relegate in secondo piano da questa spazzatura intellettualoide. Purtroppo dovremo aspettarci gli stessi distorti meccanismi anche nel caso di Django, ma se il film sarà bello io me ne sbatterò altamente.
Sono felice che Jamie Foxx abbia preso il posto che sarebbe dovuto spettare a Will Smith. Will Smith doveva rimanere a Bel-Air, a fare il principino simpatico e artisticamente umile, ma non l'ha fatto: ben gli sta dunque di lavorare con i peggiori registi al mondo (Michael Bay su tutti, seguito da Muccino e altri) e di realizzare merda. Mi dispiacerà, invece, non vedere Kevin Costner (l'ultimo bel western uscito al cinema, Open Range, lo ha diretto lui) nei panni dell'allenatore di schiavi da combattimento, un ruolo che è stato poi vestito da Kurt Russell e infine da Walton Goggins (gli sfortunati spettatori di Predators lo hanno ben presente). Come il 90% della popolazione cinefila mondiale, sono in ansia per vedere Di Caprio all'opera, nei panni del "più grande cattivo che abbia mai creato, talmente cattivo che risulta sgradevole perfino a me" (parole di Tarantino). Ah, per ultima cosa mi chiedo anche che ruolo avrà Amerigo Vassepi, il personaggio interpretato da Franco Nero. 
Una cosa che i segaioli di cui parlavo prima non hanno minimamente considerato nei loro forum autoreferenziali  e che la dice lunga sulle doti registiche di Tarantino, è che il film è stato girato in 35 mm con la lente anamorfica, complice anche quel geniaccio di Robert Richardson (grande direttore della fotografia).
Concludo dicendo ai soliti segaioli che già si interrogano sul futuro progetto del regista di Pulp Fiction che dovrebbero rilassarsi. Basta parlare di Kill Bill vol. 3 (che poi, a logica, dovrebbe chiamarsi in un altro modo) o di progetti come The Vega Brothers (lo spin-off sia de Le iene che di Pulp Fiction). Se non lo avessero già saputo, Tarantino ha dichiarato proprio recentemente che vorrebbe fare altri due o tre film e ritirarsi. Lo farà davvero? Chissà, magari è un'altra delle sue meravigliose bugie.

P.S.: dopo il 18/12 la recensione di Django Unchained OST per la rubrica "Suggestioni Sonore".

Autunno bonelliano [Pt. 5]

DYLAN DOG # 315
"LA LEGIONE DEGLI SCHELETRI"
testi e disegni: Stano
Sergio Bonelli Editore
98 pag., BN, 2,90 €

★★★★
Angelo Stano, il primo disegnatore di Dylan Dog, copertinista ormai storico della serie e adesso, dopo ventisei anni da quella mitologica Alba dei morti viventi, autore completo di una storia dell'Indagatore dell'incubo. Il suo risultato "solista" è migliore di molti numeri realizzati da sceneggiatori e disegnatori in tempi recenti. L'idea di aprire la storia ad una mostra di arte fiamminga è ottima, così come è molto interessante far coincidere l'esperienza della fragile streghetta Moheena con la simbologia del quadro di Bruegel Il trionfo della morte. Brillante intuizione anche quella di usare gli scheletri, mostri assenti dalle avventure di Dylan da un bel po' di tempo e qui efficacemente proposti, sempre grazie alle analogie con la tela fiamminga. Infine, lode al finale di stampo "sclaviano", dove il Male fa capolino anche se il Bene ha vinto come sempre. Originale.

MARTIN MYSTERE
ALMANACCO DEL MISTERO 2013
testi: Castelli/ disegni: Orlandi
Sergio Bonelli Editore
176 pag., BN/Col., 6 €

★★
Difficile recensire un Almanacco dove, a sua volta, si possono trovare le recensioni di film, libri, videogiochi, fumetti e telefilm. Potrei però puntare il dito sul fatto che il genere Mistero abbracci, almeno per i redattori Bonelli, un po' troppa roba: ad esempio, non mi sarei mai aspettato di vedere qui recensiti alcuni nuovi libri vampireschi, nè di leggere una critica (pur giusta e spietata) al Prometheus di Scott (forse più adatto alle pagine dell'Almanacco della Fantascienza). La storia I cavalieri di Oz soffre di quell'ansia da prestazione che ha colpito il fumetto italiano dopo il grande successo di The Avengers: dunque, il Mago di Oz deve incrociarsi sia con il BVZM che con una sorta di JLH molto arrangiata. Io in questi casi mi limito a dire <<Ragazzi, a ognuno il suo>>. Ricchissimi i dossieri della seconda parte: quello su Baum e su Il mago di Oz, in particolare, è una vera perla. L'unica bella sorpresa dell'Almanacco del Mistero 2013.


lunedì 3 dicembre 2012

I 10 film che mi porterò nella famosa isola deserta

1. BARRY LYNDON di Stanley Kubrick (1975)


Il film della mia vita. Lo vidi per la prima volta a quattro anni e decisi che nessun film sarebbe mai stato meraviglioso quanto questo. In effetti, a distanza di tanto tempo e dopo tonnellate di film visti e rivisti, mi accorgo che è tutto inutile: ritorno sempre qui, a Barry Lyndon, coi suoi personaggi, i suoi colori, i suoi dialoghi, la sua storia. E' il primo della lista e credo che non esista nulla al mondo in grado di strapparlo al gradino più alto del podio.

2. MANHATTAN di Woody Allen (1980)

Quando ti accorgi che non sei più un ragazzino e che al mondo esiste qualcosa che va oltre la tua mentalità da cowboy solitario e ateo (ad esempio, le donne), senti il bisogno di una guida spirituale. Woody Allen venne in mio aiuto con il suo capolavoro e mi illuminò, cosa che del resto ha fatto con quasi tutti i suoi film (in particolare Match Point). Ho paura ad andare a New York, perchè so che non potrei mai fare un giro di calesse notturno a Central Park come facevano lui e Mariel Hemingway. D'altra parte, è anche questa la magia del cinema.

3. IL POSTO DELLE FRAGOLE di Ingmar Bergman (1957)


Un giorno potrei fare la top-ten solo dei film di Bergman (magari la farò davvero...), ma Il posto delle fragole sarà sempre al primo posto. Ho una sorta di orologio biologico presente nel mio organismo, un orologio che almeno una volta all'anno si ferma, per farmi capire che è il momento che io scatti in piedi e corra a prendere la mia copia del film per rivederlo. Perfetto in tutto, dalla storia alla sublime recitazione, dalla fotografia alla capacità di commuovermi sempre, come se fosse la prima volta che lo vedo.

4. KILL BILL vol. 1 & 2 di Quentin Tarantino (2003-2004)


Qualcuno potrebbe accusarmi di barare con il discorso <<Ehi, questa è una top-ten e tu citando un film doppio fai una top-eleven!>>, ma non la vedo così. Inizialmente, questo grandissimo film era stato pensato per essere distribuito (almeno in Europa) in una versione lunga oltre quattro ore, ma i produttori sono delle brutte bestie. Ad ogni modo, è un'opera unica, speciale, di una bellezza che non finisce mai di sconvolgermi. I nerd (che quando uscì il film si chiamavano semplicemente "sfigati" o "imbecilli" o "pezzenti") si sono uccisi cercando minuziose scopiazzature a film che non erano di moda negli anni '70 e che lo sarebbero divenuti solo dopo l'uscita dei due Kill Bill. Il che conferma più che mai la teoria che Tarantino non segue le mode, ma le crea. E questa ne è la prova, in tutto il suo splendore.

5. APOCALYPSE NOW-REDUX di Francis Ford Coppola (1979-2001)


Ciò che fa differire l'epica di Apocalypse Now (amo mettergli accanto Full Metal Jacket e La sottile linea rossa) dalla cronistoria de Il giorno più lungo è che la prima è alla base di film sulla guerra, la seconda si limita ad essere lo strumento narrativo dei film di guerra. Coppola realizza un kolossal allucinato dove mette insieme il Vietnam, il rock, Conrad, la guerra, lo scontro fra civiltà moderna e società tribale. E tutto quadra, nel suo immenso, straordinario affresco dove vengono annientate sia la legge degli uomini che quella di Dio. Esiste solo la legge della giungla, e il suo valore non perderà mai forza. Attuale, ieri come oggi.

6. SENTIERI SELVAGGI di John Ford (1956)


Cos'è il western? Il western è John Ford. Il western è la porta che si apre sulla prateria da cui arriva John Wayne e si chiude sulla porta davanti alla quale John Wayne se ne andrà. Un film mitico, intramontabile, nonchè il film western perfetto: crudo, concreto ma anche romantico (l'incontro con Natalie Wood fa parte di un'iconografia che nulla ha da invidiare a quella della Madonna con bambino). Una altissima lezione di cinema. Nel suo genere, la più alta.

7. C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA di Sergio Leone (1985)


Un'enorme struttura cinematografica con cui tutti quelli che hanno fatto gangster-movie dopo si sono dovuti confrontare. Appartiene a quei pochi film che ti catturano, ti emozionano, ti fanno vivere accanto ai protagonisti. Per Noodles, chissà, alla fine è stato davvero tutto un sogno, ma per lo spettatore è pura realtà. Anzi, meglio: per dirla con Kubrick, è la "fotografia della realtà".

8. CARO DIARIO di Nanni Moretti (1993)


3 episodi. 3 piccoli film. 3 grandi storie. Il punto di vista dell'odioso e antipatico Nanni Moretti finisce con l'essere lo stesso di persone che con lui non vorrebbero avere nulla in comune, neanche il successo. Un'analisi efficace e sottile della quotidianeità, delle persone, della vita del singolo che coincide, agli occhi di chi osserva il "Nanni nazionale" girare in Vespa o andare in farmacia, con la vita di molti. L'ultimo film italiano bello, in tutto e per tutto. Punto.

9. L'APPARTAMENTO di Billy Wilder (1960)


Senz'altro è meno divertente di A qualcuno piace caldo e meno comico di Non per soldi, ma per denaro. Eppure, per me, è la più grande commedia di Billy Wilder. Anticipa il mondo "cubico" degli impiegati delle strisce di Dilbert e di cialtronate più sbrigative come Camera Cafè, inchioda la classe dei "bravi" dirigenti aziendali di Manhattan ed entra nella vita privata del single gentile e leggermente imbranato, mostrandocene i sonniferi, la passione per il telecomando e la pizza precotta. L'inquadratura finale, con Jack Lemmon che scozza le carte e la MacLaine che si toglie il soprabito, vale più di vent'anni di commediole americane "indipendenti" (che negli USA vuol dire "dove è possibile mostrare almeno un capezzolo").

10. CLOSER di Mike Nichols (2004)


Il classico domandone da un milione di dollari è <<Che cos'è l'amore?>>. Io saprei rispondere e direi <<E' Closer>>. Teatrale in tutto, ma mai così vicino alla realtà, è il tipico film che fa paura: nessuno di noi vorrebbe essere uno dei quattro (grandi) protagonisti. Quando Dan (Jude Law) e Alice (Natalie Portman) si sono ritrovati e hanno fatto l'amore dopo tanto tempo parlano: i due si sono chiariti, si sono fatti mille promesse, il loro futuro è roseo. Lui ha una gran voglia di fumare, esce dalla camera di albergo per andare a prendere le sigarette ma trova una rosa in un vaso del corridoio, così torna indietro e la porta alla sua fidanzata. <<Io non ti amo più>> dice lei, <<Da quando?>> domanda lui. <<Da adesso>> è la lapidaria risposta di Alice. Il più bel film sull'amore di sempre, senz'altro il più vero.