venerdì 22 marzo 2013

La madre [Recensione]

Nel 2008, Guillermo del Toro nota in un festival horror Mama, un cortometraggio girato in un unico piano sequenza e diretto dal regista di clip pubblicitari Andres Muschietti. Neanche cinque anni dopo, è proprio del Toro a dare fiducia a Muschietti e a produrre il suo esordio cinematografico: il frutto della collaborazione è La madre, un lungometraggio nato proprio come sviluppo di Mama
E, manco a dirlo, del Toro stravince la scommessa.
La storia di due bambine  ritrovate in un casa nel bosco, le domande che sorgono attorno alla loro misteriosa sopravvivenza, la difficile condizione in cui gli zii adottivi si ritrovano, sono solo i pretesti narrativi architettati da Muschietti per affrontare un discorso antico quanto la civiltà stessa: l'amore materno morboso, folle, incompreso e incomprensibile. Lo fa portando a casa un film horror eccellente in pressochè tutto, dalla recitazione "difficile" delle bambine alla bravura di Jessica Chastain (che di film in film, si rivela come una delle interpreti più versatili in circolazione), da una fotografia sobria a degli effetti speciali molto visionari ma mai abusati (il finale "naturalista" è l'unico momento dove la fantasia vola alta, svelando appunto il lato più deltoriano del film). La madre non è tuttavia un Labirinto del fauno diretto da un altro regista, nè un cinefumetto da lettori Vertigo: è un horror genuino, sincero, fatto da qualcuno che dimostra di avere davvero qualcosa di valido da raccontare e di crederci fino in fondo. E se dunque, da un lato, il film ha portato alla ribalta un talento registico da non sottovalutare, dall'altro ribadisce che del Toro sa essere un ottimo talent-scout e un bravo produttore: scrivo "bravo", perchè non saprei definire altrimenti un autore che finanzia un esordiente senza pretendere che questi adotti per forza il suo stile, la sua impronta. Muschietti non esige la spettacolarità, non viene dal fantasy, nè sembra essere interessato all'horror più "fumettistico" (penso al recente Non avere paura del buio, altra produzione di del Toro diretta proprio dal fumettista Troy Nixey); piuttosto, si dimostra essere più devoto ad un cinema horror oscuro, introverso e fiabesco. I quindici milioni di budget, la presenza di una computer-grafica scarna e poco invasiva, sono solo l'ennesima riprova che non contano i soldi, ma il mestiere, la sensibilità e tutti gli altri aspetti che possono fare di un regista pubblicitario un autore. 
Se lo studino bene quei mestieranti di Hollywood intenti a puntare miliardi su assurdi remake, reboot e resticazzi: le idee ci sono, e persone in grado di saper lavorare bene anche. Basta avere un po' di fiducia.   

lunedì 18 marzo 2013

[Recensione] Buongiorno papà

I quotidiani non sono riviste di cinema. Leggere la pagina dei film consigliati presenti in sala non è come leggere una copia di Nocturno, e fin qui nulla di strano. Ma cosa ci consigliano i giornali? Tutto. Alla fine, leggere la pagina del cinema del Corriere o di Repubblica è come guardare, da ubriachi (perchè solo da ubriachi lo si può vedere), Il cinematografo di Marzullo, il programma di RAI 1 dove tre critici finiscono sempre con l'essere d'accordo su tutto e dove la merda diventa un piatto di alta cucina, prelibato quanto le linguine all'astice del Gambero Rosso.
Vuole il caso che in questo triste fine settimana il film più consigliato dopo l'Oz di Raimi (che avevo già visto) fosse Buongiorno papà, di tale Edoardo Leo: una "commedia brillante", "intelligente" e interpretata da grandi attori, tanto da guadagnare una media di quattro stelle su siti di settore come Coming Soon, Movieplayer e MyMovies. Come accade sempre, è il pubblico a votare e rilasciare anche qualche giudizio: leggo così di persone che, convinte di andare a vedere un cinepanettone tardivo, sono rimaste incantate da questa storia così bella e profonda, che abbraccia temi che vanno dal rapporto padre-figlia al precariato, dalla "sindrome di Peter Pan" al cinema stesso. Insomma, tirando le somme, mi ero quasi convinto che sarei andato a vedere qualcosa che poteva finire col convincermi.
E invece no.
Buongiorno papà è il trionfo di una mediocrità di successo tutta italiana. Parenti e i Vanzina girano film mediocri, talvolta pessimi, ma un minimo di "mano", un barlume di "mestiere" lo dimostrano sempre. Leo, invece, no. Alla sua seconda prova da regista, questo cialtrone 42enne, laureato in lettere (110 e lode), attore teatrale, cinematografico (già in To Rome With Love) e "regista" mette in scena quella che, magari nella sua testa, poteva essere una commedia amara dai risvolti sociali e pedagogici. Lo fa raccontando di come il quarantenne Andrea (Raul Bova), ricco manager di una società di product-placement attento solo ad apparire e non ad essere, scopra di avere una figlia, Layla (Rosabell Laurenti Sellers), una 17enne alternativa e problematica, orfana di madre e accudita dal nonno Enzo (Marco Giallini), un borgataro new-age. Nel tentativo di risultare un padre decente, lo aiuta l'amico Paolo (Edoardo Leo), 35enne precario e unico punto di incontro fra la mentalità egoistica di Andrea e quella più "fricchettona" di Enzo e Layla. 
La cosa che mi ha fatto più piacere andando a vedere questo film è che nessuno, in sala, ha riso, neanche i ragazzetti di undici anni, che magari si accontentano di un culo di fuori per abbandonarsi ad urla sguaiate: mi ha rincuorato percepire non tanto la noia o lo sdegno degli altri spettatori, quanto una certa "stanchezza", stanchezza nel vedere- appunto -un culo di fuori, stanchezza nell'udire battute sugli omosessuali (piaga cinematografica che, nonostante il progresso della civiltà, in Italia continua a imperversare in maniera volgare e gratuita), stanchezza nell'osservare Raul Bova girare a caso per Roma su un'auto di lusso, stanchezza nell'assistere alle solite scenette fra un padre che ha da farsi perdonare e una figlia adolescente incompresa. Se si pensa che Menandro creò la "commedia degli equivoci" proprio per meravigliare un pubblico avido di sorprese e di colpi di scena, quasi si prova imbarazzo di fronte agli equivoci prevedibilissimi di Buongiorno papà. Non ho mai detto che bisogna andare al cinema solo per piangere, riflettere o provare emozioni forti, e capisco che la persona media possa arrivare alla domenica e propendere più per la commedia leggera che per quella sofisticata (mi viene in mente, sempre in sala in questi giorni, Il lato positivo), ma non è questo il modo. I produttori (in questo caso i Lucisano, veri maestri dell'intrattenimento di bassa categoria) hanno le loro responsabilità dal momento in cui decidono di finanziare (con il sostegno del Monte dei Paschi) un film simile, ma la colpa più grande l'ha sempre e comunque il pubblico, un pubblico per cui "intrattenimento" non coincide con "intelligenza", bensì con "imbecillità", un pubblico che si accontenta e che si lascia prendere per il culo, un pubblico che vive il cinema come forma allargata della televisione, precludendo un cinema di intrattenimento di buon livello non solo ad una fetta di spettatori dai gusti un minimo più esigenti, ma anche ad una cerchia di autori che- al contrario di Edoardo Leo -sanno sicuramente molto bene come realizzare un film. 
Ci si lamenta tanto della crisi, di quanto è cara la vita, e di tante annose questioni. C'è un accanimento specifico nei confronti del prezzo del biglietto cinematografico (quando, se si volessero fare confronti, il cinema è l'unica forma d'arte a prezzi popolari). Allora, proprio in virtù di quei sudati sette euro e cinquanta, cerchiamo di dirigere meglio le nostre scelte e di non fare il solito discorso da pecore <<Ma, sai... cerchiamo qualcosa per svagarsi... qualcosa tanto per...>>: è proprio questa frase e la conseguente visione di un film come Buongiorno papà che danno l'impressione di aver speso male quei soldi. E se uno non se ne pente, ma al contrario è quasi felice di aver passato due ore di "allegria", non è solo cinematograficamente ignorante e mentalmente limitato: non deve proprio votare. Il retorico e ipocrita discorsetto sulla soggettività dei gusti è stato creato per giustificare l'imbecillità di chi non capisce nulla in certi campi, in particolare in quelli artistici; quindi, per cortesia, risparmiamocelo.
Un'ultima cosa. Ho mentito quando ho scritto che non ho riso vedendo questo film: infatti, sui titoli di coda sono scoppiato a ridere, davanti alla scritta "direttore della fotografia...". Per due ore ero stato convinto che fosse una figura del tutto assente.

sabato 16 marzo 2013

Cinefumetto sì, cinefumetto no [Ombre elettriche]

"Quando sento dire che Il cavaliere oscuro-Il ritorno è arte cinematografica di altissimo livello,  penso che la gente non abbia la minima idea di cosa parla. [...] Un film di super-eroi non potrà mai essere, per definizione, arte pura."
David Cronenberg, autunno 2012

Nella lista dei miei dieci film preferiti del 2012, il Cosmopolis di Cronenberg è alla terza posizione, Il cavaliere oscuro-Il ritorno alla sesta. Il motivo? Semplice: per me, Cosmopolis è nettamente migliore di qualsiasi film mai realizzato sui super-eroi. E non perchè non mi piacciano i super-eroi o i fumetti (chi legge periodicamente il blog sa che non c'è bisogno di questa specifica), ma perchè sono due arti che, nel fondersi, non tendono obbligatoriamente a dare buoni frutti. E' vero: nel 2012 Nolan ha chiuso con un gran buon film la sua trilogia su Batman, e la Marvel ha macinato i miliardi con The Avengers, un blockbuster buono come pochi.
Ma occhio a parlare di capolavori.
Occhio ad abbandonarsi a una sfrenata celebrazione di Nolan (chi parla di "nuovo Kubrick" andrebbe rinchiuso), simbolo di un "cinefumetto autoriale" nato dall'oggi al domani. Non esiste il "cinefumetto d'autore", esiste solo il "cinefumetto buono" e il "cinefumetto cattivo". Nolan ha dimostrato di essere un grande regista non tanto con Batman Begins, quanto con Memento, che potrebbe valere da solo l'intera trilogia sull'Uomo-Pipistrello.
Occhio a scagliarsi contro Cronenberg e a piagnucolare <<Ma come si permette, questo stronzo?!>>, perchè lo "stronzo" ha girato capolavori assoluti senza aver mai avuto il bisogno di usare personaggi in calzamaglia, fottendosene di tutti quei nerd che sparlano di lui senza magari aver mai visto Videodrome. E non solo: anche il regista canadese ha diretto un suo cinefumetto (A History Of Violence), ma sempre i soliti stronzi nerd non se lo ricordano, o semplicemente non lo sanno.
Conosco decine di persone che leggono fumetti da tutta la vita e si intendono di Cinema, di quello vero, eppure nessuna di queste metterebbe in una lista di "10 migliori film" una pellicola sui super-eroi, e non perchè il fumetto per loro sia un semplice passatempo o una passione passeggera. Anzi: come me, considerano i comics una forma d'arte, alla stregua della letteratura e del cinema, e come me sono in grado di riconoscere che il cinefumetto si basa su dei meccanismi che portano alla produzione  di troppe zozzerie (zozzerie che arrivano talvolta a influire sul fumetto da cui il film è stato tratto), poche cose buone, e nessun capolavoro.
Dunque, mentre io butterò giù una lista dei cinecomics che hanno segnato in meglio e in peggio la mia vita di spettatore, invito una bella fetta di pubblico ad imparare il valore del "separazionismo", e magari ad andarsi a vedere qualche autentico capolavoro della storia del cinema. Questa mia "hit parade" è dettata esclusivamente da un gusto cinefilo, e non bada alla coerenza nei confronti di certi personaggi e di certe opere, e questo per far capire che puoi essere coerente al fumetto quanto vuoi, ma se giri un film di merda era meglio optare per l'incoerenza.

5 CINEFUMETTI DA AMARE...

1.
HELLBOY II-THE GOLDEN ARMY di G. Del Toro (2008)

Totalmente lontano da luoghi comuni triti e ritriti del genere, il sequel dedicato a Hellboy è il miglior cinefumetto mai fatto: non solo si limita ad essere l'anti-cinecomics per eccellenza (Del Toro spreme, modifica, quasi "maltratta" la creatura di Mignola), ma è proprio un piccolo capolavoro di arte cinematografica che incontra il mondo dei fumetti. Gli amanti del fumetto lo odiano, dimostrando, da una parte, di essere molto attaccati al personaggio originale, ma, dall'altra, di non capire niente di cinema.

2.
SIN CITY di R. Rodriguez e F. Miller (2005)

Le folli griglie milleriane si staccano dalla carta e approdano, quasi come fotocopie in movimento, sul grande schermo. La perla noir di Rodriguez si stampa nelle menti di coloro che ne sanno cogliere le sfumature più "pulp", ma non in quelle di chi si aspetta più azione e meno dialoghi. Film chiacchierato, unico e scopiazzato (dallo stesso Miller con il mediocre The Spirit e da Snyder con 300). Sullo schermo trionfano solo amore e morte: tutto il resto è realtà. Se visto all'età sbagliata, può ossessionare.

3.
BATMAN- IL CAVALIERE OSCURO di C. Nolan (2008)
Bellissima trasposizione cinematografica dell'uomo pipistrello di Bob Kane, diretta con maestria da un Nolan in stato di grazia e interpretata da attori sublimi (su tutti l'ormai osannato Ledger/Joker). Divenuto paradigma di un cinecomics "d'autore", ha condannato Nolan e l'intera industria di film super-eroistici, e i primi frutti sono in arrivo. Pur trattandosi di uno dei migliori cinefumetti di sempre (se si considerasse solo l'aspetto tecnico, è il migliore), è stato fin troppo sfruttato da una critica più sprovveduta e sopravvalutato da un pubblico che finora ha visto solo film con personaggi in calzamaglia.


4.
THOR di K. Branagh (2009)

Se ad una prima occhiata, il Thor di Branagh è l'ennesimo costosissimo blockbuster marveliano fatto per stupire e divertire, ad una successiva analisi si rivela uno dei cinecomics migliori mai pensati nella "Casa delle Idee", ricco di spunti tecnici e contenutistici, con qualche star in meno nel cast e qualche idea di regia in più. Gli vengono spesso preferiti, ingiustamente, i peggiori Iron Man e Spiderman.


5.
THE AVENGERS di J. Whedon (2012)

Cresciuto fra serie televisive e sceneggiature per cartoni animati, il regista Whedon gira un clamoroso kolossal super-eroistico avente come protagonisti i Vendicatori. Il film non è solo uno dei più grandi successi commerciali della storia, ma cambia radicalmente le teorie sulla serialità cinematografica cui tutti eravamo abituati. Divertente, adatto a tutti, classico e manualistico ma, a modo suo, rivoluzionario.







... E 5 CINEFUMETTI DA DIMENTICARE

1.
I FANTASTICI QUATTRO E SILVER SURFER di T. Story (2007)

Se il suo predecessore (I Fantastici Quattro, 2005) era stato un mediocre cinecomics, questo secondo atto dedicato ad uno dei fumetti più popolari di sempre è un atto di violenza gratuito. Pessimo in ogni inquadratura, in ogni dialogo, in ogni personaggio. Da usare come secondo termine di paragone (negativo) in qualsiasi argomentazione.




2.
GHOST RIDER di M. S. Johnson (2007)

Pensato come film più "adulto" e vicino alle ambientazioni della stagione d'oro della bikexploitation, può contare su una regia inesistente e sull'apporto di uno dei peggiori attori mai nati (N. Cage). Non si salva niente e nessuno, neanche Peter Fonda che interpreta Mefistofele. 




3.
THE AMAZING SPIDERMAN di M. Webb (2012)

Se in molti stanno rivalutando le doti recitative di Bombolo, non c'è da stupirsi se l'ultimo (attualmente) film sull'Uomo Ragno viene spesso accostato, per i temi più cupi e adulti, ai Batman nolaniani. Peccato che Webb di Nolaniano non abbia neanche una cellula. Un brutto film, senza "se" e senza "ma".





4.
DAREDEVIL di M. S. Johnson (2004)
Johnson deve proprio divertirsi a rovinare bei personaggi, e il suo film su Devil ne è l'ennesima prova. Terrificante. L'unico sollievo è sapere di avere visto l'edizione cinematografica da 104 minuti, e non il temutissimo director's cut di oltre due ore.






5.
HULK di A. Lee (2003)

Lungo, colossale, palloso flop commerciale, diretto da un regista che dimostra ampiamente di non meritarsi neanche il cestino del pranzo. Cinque anni dopo tentarono di rilanciare il personaggio, con un nuovo regista e un nuovo attore: non venne fuori un capolavoro, ma neanche questo sudiciume. Imbarazzante.

lunedì 11 marzo 2013

[Recensione] Il grande e potente Oz


Due tizi si incontrano per la strada: <<Ehi, dove stai andando?>>, chiede uno. <<Vado a vedere Il grande e potente Oz...>> risponde l'altro. 
Il primo vorrebbe tanto proseguire la chiacchierata, anche solo per salvare l'amico, ignaro di ciò che si appresta a fare; ma il destino è beffardo, e dalla sua bocca esce solo un misero rantolo. Gli basta sentire il titolo- Il grande e potente Oz -o peggio ancora il nome di Sam Raimi, per soffrire come una bestia. Così si limita a fare un cenno di saluto e si avvia, correndo verso casa. 
Nel breve tragitto iniziano a passargli davanti agli occhi, velocizzate, le due ore e sette del film. 
Rischia di non farcela. 
Potrebbe esplodere lì, in mezzo alla strada. 
Così, cerca di pensare a un paio di aspetti salvabili. 
Mila Kunis? <<Bona, ma inutile!>>.
La trama? <<Ma dov'è la bellezza di questa trama? Baum ha scritto ventisei romanzi su Oz. Raimi non poteva pescare da uno di questi? No! Doveva tornargli difficile...>>.
Le sequenze in bianco e nero, sentito omaggio al film di Fleming? <<Nulla di speciale. Sembrano uscite da quel vecchio videoclip dei Red Hot Chili Peppers di cui ora mi sfugge perfino il titolo...>>.
I nani che ballano e cantano? <<Sì, quelli sì!>>. Ed effettivamente, tirando le somme, i nani che ballano e cantano potrebbero essere l'unico, futile motivo per vedere Il grande e potente Oz
Finalmente a casa. Il pensiero dei nani ha evitato la tragedia pubblica.
Il nostro sfortunato spettatore sfonda la porta di casa con una spallata e si precipita in bagno.
Abbraccia la tazza come non ha mai abbracciato nessuno. Neanche sua madre.
Mentre spalanca la bocca e reclina la testa in avanti fino a far toccare petto e mento, gli sovvengono le parole di quelli che hanno visto ovunque gli omaggi a L'armata delle tenebre, con cui Il grande e potente Oz ha- a loro detta -tantissime cose in comune. 
E' troppo.
E questo è il risultato:

martedì 5 marzo 2013

I mancati 70 anni di Lucio Battisti [Suggestioni uditive]

Uso questo 5 marzo 2013 come pretesto per parlare di Lucio Battisti, che oggi avrebbe compiuto settant'anni. Lo avrebbe fatto senza magari abbandonarsi a "nostalgici" e ipocriti festeggiamenti paratelevisivi, come sono invece soliti fare i suoi colleghi. Infatti, il suo ritiro dalle scene e il suo volontario stato di isolamento difficilmente avrebbero trovato una qualche forma di rispettosità in questi tempi duri, dove quella scorza  di privacy rimasta è venuta meno, sotto i colpi dei nuovi signori del gossip (televisivo o stampato, non fa alcuna differenza). Basta rivedere i pochi interventi televisivi (su YouTube ci sono praticamente tutti) per capire che Battisti, nella sua timidezza geniale e giustificata, era destinato a sparire dalle scene, a ritirarsi da tutto e da tutti e a comporre musica vent'anni avanti a quella di chiunque altro, sia per forma che per contenuti. Collega di falsi santoni che dai loro attici proclamavano rivoluzioni e ritorni alla natura, Battisti non solo abbandonò coraggiosamente il pubblico, ma fu il primo vero isolazionista moderno italiano. 
Come ho letto alcuni giorni fa, "nella storia della Musica Italiana, dopo Giuseppe Verdi c'è stato solo Lucio Battisti": è assolutamente vero. Non parlo, ovviamente, di stile o genere, quanto di come il pubblico ha recepito e successivamente "metabolizzato" la musica dell'uno e dell'altro. Infatti, tutti conoscono almeno un'aria di Verdi, così come chiunque ha presente l'incipit de La canzone del sole, e non solo; che vengano suonate a La Scala o da "cinque madrigalisti moderni", le arie verdiane risultano essere meravigliose, così come le canzoni di Battisti saranno sempre bellissime, sia che le reinterpretino cover band di livello (gli Innocenti Evasioni), sia che le strimpellino dei campeggiatori abusivi intorno a un falò di ferragosto. Eppure, proprio le canzoni degli esordi, quelle apparentemente più semplici e pensate per un pubblico popolare, risultano già nettamente avanti: si parla del 1969-1972, anni in cui vengono dati alle stampe Lucio Battisti, Vol. 2, Emozioni, Amore e non amoreVol.4 e Umanamente uomo: il sogno. Sono forse gli unici dischi nei negozi a non parlare di politica (la regola del tempo era <<Chi parla di politica è di sinistra, chi non ne parla è fascista>>). La qualità musicale è senza precedenti: Battisti mette in musica le storie di vita quotidiana di Mogol, e lo fa rinunciando alla "coverizzazione" di chi lo ha preceduto, dimostrando non solo una grande autonomia artistica ma anche una grande padronanza di mezzi e linguaggi prevalentemente sconsciuti ai musicisti italiani del tempo. Le travolgenti ondate psichedeliche poste alla fine di Anna, gli archi de I giardini di marzo, l'avveniristico finale di Non è Francesca, i pezzi strumentali contenuti in Amore e non amore. A critici imbecilli e ascoltatori rincoglioniti sarebbero bastate le <<discese ardite>> o il vestito <<nero con i fiori non ancora appassiti>> per bollare Lucio Battisti (che, badate bene, non scriveva i propri testi) come portavoce canoro dell'estrema destra, e lui per primo non avrebbe mai impedito loro di pensarla in quel modo: un comportamento, il suo, da vero artista liberale e coraggioso, specie se si pensa ad un decennio in cui tutto doveva essere politicizzato. E mentre i testi passano sempre di più in secondo piano, la musica diventa sempre più importante per Lucio: album di altissimo livello come Il mio canto libero (1972) o Il nostro caro angelo (1973) lo dimostrano. Ma è con Anima latina (1974) che Battisti si supera: fonde il progressive rock con i ritmi del Sud, non rilascia alcun singolo, azzera i ritornelli, tiene bassissime le tracce vocali, fa trionfare il proprio genio compostivo. Ad oggi, Anima latina andrebbe considerato come un punto di non ritorno per la musica italiana, un capolavoro assoluto in cui era già presente l'ultimo Battisti. Lucio Battisti, la batteria, il contrabbasso, eccetera (1976), Io tu noi tutti (1977), Una donna per amico (1979) e Una giornata uggiosa (1980) sono, da una parte, nuove occasioni di grandi esperimenti (da R&B al Funk, dalle primitive batterie elettroniche ai synth in grande abbondanza), dall'altra mostrano che oramai i testi di Mogol sono solo un "pretesto", un riempitivo per composizioni sempre più grandi. Così, i due "divorziano", e Battisti pubblica il suo album più odiato, E già (1982). Senza dubbio, i testi di Velezia (la moglie di Lucio) sono abbastanza penosi, ma lasciamoli da parte e concentriamoci sui muri di sintetizzatori, sulla qualità del primo disco synth-pop italiano (a quei tempi solo in Inghilterra facevano cose simili) e sul fatto che, mentre Lucio cantava Windsurf Windsurf, a Sanremo trionfava la Felicità di Al Bano.
Passano ben quattro anni prima che nei negozi faccia capolino un altro disco di Battisti, e quando succede è una rivoluzione: Don Giovanni è il primo dei cinque album nati dalla collaborazione col poeta Pannella. Stavolta musica e testo vanno di pari passo, stravolgono e annullano la forma canzone e si affacciano su universi elettronici nuovi e inesplorati. Nascono album veramente meravigliosi, difficili e isolazionisti, come L'apparenza (1988) e La sposa occidentale (1990, e in certi passaggi suona praticamente techno). Il pubblico si allontana, lasciando perdere le venature minimal e dub del successivo Cosa succederà alla ragazza (1992) e il definitivo, funebre Hegel (1994), evitato e definito "inascoltabile" dagli stessi che quattro anni dopo avebbero gridato <<Lucio era un genio!>>.
Spero che la ricorrenza di questi suoi mancati 70 anni non trovi sfogo in discorsi del tipo <<Se Lucio fosse vivo...>> o <<Se Lucio facesse questo...>>. Non pensiamo a ciò che Battisti potrebbe fare da 70enne: cogliamo piuttosto i frutti ormai maturi del suo lascito artistico. E fidatevi, sono frutti molto saporiti.

sabato 2 marzo 2013

[Recensione] Pinocchio

Ha dovuto aspettare tredici anni Enzo D'Alò prima di vedere sul grande schermo quello che avrebbe dovuto essere il suo terzo lungometraggio animato, cioè Pinocchio. Troppo tempo è passato, anche a causa di quella costosissima porcheria firmata Benigni, causa di numerose traversie iniziali. Allora D'Alò si dedicò ad altro, portando avanti prima Momo (2001), poi Opopomoz (2003). E dopo ben nove anni di lontananza dal cinema, il regista napoletano ha fatto capolino all'ultima edizione del festival di Venezia, dove il suo Pinocchio è stato- misteriosamente -presentato. Alcuni cinici critici hanno detto che se Lucio Dalla (autore della colonna sonora e voce del Pescatore Verde) non fosse morto, forse Pinocchio non sarebbe mai uscito. In realtà, dobbiamo ringraziare i produttori francesi, belgi e lussemburghesi, gli unici che si sono preoccupati di preservare una perla di animazione come questa.
La storia è fedele al libro molto più di quanto lo fosse quella della versione disneyana o il film di Benigni, e la cosa più bella è che Pinocchio è un cartone italiano fino al midollo. I bellissimi personaggi partoriti dalla fantasia di Collodi sono calati in scenografie che sono delle piccole opere d'arte (non a caso, l'autore è Mattotti), le voci sono perfette (perfino Rocco Papaleo che doppia Mangiafoco risulta efficace) e le canzoni scritte da Dalla non risultano mai "pesanti" o becere, anche se per me, al cinema, i punti più bassi si toccano sempre quando qualcuno canta. 
Insomma, qualunque sia l'età dello spettatore, il Pinocchio di D'Alò (dedicato al padre del regista e a tutti i "babbi babbini del mondo") convince, colpisce e commuove, dimostrando che D'Alò è tornato al grande schermo con la sua opera migliore dai tempi del bellissimo La freccia azzurra e con un Pinocchio in grado di fare compagnia a quel vecchio capolavoro di Comencini. Consigliatissimo

[Recensione] Non aprite quella porta 3D

La tendenza dell' "horror 2.0" si ramifica in due diffusi atteggiamenti: o il remake o il prequel. I remake, a loro volta, si suddividono in tre categorie: i remake di merda (il Venerdì 13 di Nispel, uscito quattro anni fa, non è tanto un film quanto un atto di violenza gratuita su una delle più belle saghe della storia del cinema), i remake tiepidi (il nuovo Nightmare arriva almeno a dei livelli rispettosi) o i buoni remake (l'Halloween di Rob Zombie sarà stravolto quanto volete, ma proprio grazie al suo essere così originale e "personale" risulta un buon film). D'altro canto, i prequel possono essere o buoni o cattivi: il prequel de La Cosa uscito appena un anno fa, ad esempio, poteva essere un valido fanta-horror, se non avesse sfruttato quel titolo così carpenteriano e non avesse voluto riagganciarsi a tutti i costi a quell'accampamento distrutto nella neve. Una sorte simile è spettata, nel 2006, alla bellissima serie inaugurata da Tobe Hooper (autore di cui si parla troppo poco e che ha girato almeno tre capolavori) Non aprite quella porta: infatti, dopo un orrendo remake firmato Nispel (qualcuno fermi quest'uomo e gli impedisca di lavorare!), Michael Bay fa qualcosa di buono e produce un prequel accettabile, sia perchè è realizzato molto meglio dei film di Nispel (anche Bruno Mattei, a quel punto, saprebbe fare di meglio), sia perchè presenta una trama "delle origini" che sta in piedi. 
Quest'anno, tuttavia, qualche imbecille ha sentito il bisogno di tornare a disturbare il povero Leatherface e la sua famiglia, giù in Texas. E così eccoci davanti a un... sequel-reboot (neanche loro sanno di cosa si tratti), un qualcosa che non vedevamo dal lontano 1994, cioè da quando un tale Kim Henkel girò Non aprite quella porta 4. E se fino ad oggi il filmetto di Henkel (arrivato in Italia solo in home video) risultava essere il peggiore della serie, Non aprite quella porta 3D è direttamente inaffrontabile. La cosa terribile non è che qualcuno (un certo Lussenhop) abbia realizzato una pellicola di livello così infimo, ma che la suddetta pellicola trovi un proprio pubblico. Infatti, mi sono permesso di dare una sbirciata a un paio di siti di cinema horror (fra cui uno gestito da un ragazzo che conosco) e ho letto cose incredibili ("il migliore dai tempi dell'originale"); poi, mi sono fermato a riflettere e ho capito. Gli horror-maniacs assomigliano tanto a quei nerd asserenti che The Avengers sia il film del secolo, e cioè persone cui fondamentalmente non interessa il Cinema, ma solo quel tipo di cinema: questo meccanismo finisce col renderli talmente tanto schiavi che essi sono i primi a non saper distinguere un buon horror da un cattivo horror. Così, come i "cinerd" finiscono sempre col dire <<L'importante è che ci sia uno stronzo in calzamaglia>> (che, tradotto, vuol dire <<Tutti i film sui fumetti son buoni, in quanto parlano di eroi di fumetti>>), gli horror-maniacs si accontentano di <<uno stronzo con la motosega>>. E guai a contraddirli: sapete, loro si "intendono" di cinema...

Ah, io in tutto questo ho detto ben poco di Non aprite quella porta 3D
Dunque, sarò breve:

L'attesa [Trame]

PREMESSA

Ormai cerco sempre di preparare per tempo la "reliquia" mensile destinata a Trame. Dopo il lungo La canzone di Janie dello scorso mese, per questo marzo 2013 ho scelto una composizione più breve e leggermente più recente. A me non piace, ma non sempre si deve postare solo ciò che ci piace. Buona lettura.

L'ATTESA

Il Nina Bar era un luogo alquanto isolato e insolito, specie se ci si sofferma a pensare al tipico Internet Caffè dell'Italia del Nuovo Millennio. Con i suoi interni in legno e trofei di caccia appesi alle pareti rappresentava una sorta di ultimo baluardo collinare per quei pochi avventori che ancora non si erano arresi ai cibi surgelati e alle patatine fritte consumate come unica portata di un pranzo. Lando e sua moglie Ida erano i proprietari del Nina dalla fine degli anni '70, quando Franco (detto “Bocca”) glielo vendette per pochi soldi, prima di ritirarsi in un monolocale freddo e maleodorante, ove morì nel giro di qualche mese.
In una sera di fine ottobre, Lando si ritrovò a versare Jeger nel bicchiere di un avventore notevolmente più giovane dei contadini che, alla stessa ora, si ritrovavano per il rituale del grappino e briscola. Non avendolo mai visto prima, lo squadrò bene da capo a piedi, rimanendo però sempre concentrato sul proprio lavoro: portava scarpe da tennis che un tempo dovevano essere state bianche, jeans scuri e stirati, un parka verde militare da cui spuntavano fuori una cravatta nera e il colletto bianco di una camicia; nel tirare fuori da una tasca interna il portamonete, lasciò intravedere anche una giacca gessata color Bordeaux. L'esile e bianco collo induceva a pensare che il ragazzo fosse magro; gli zigomi erano pronunciati, gli occhi scuri e privi di espressione, il viso sbarbato, i capelli castani non molto ben pettinati. Lando vide il giovane raccogliersi nel palmo della mano destra molti più spiccioli di quanti ce ne fosse bisogno e allungare lo sguardo dietro il bancone, verso la piccola mensola dove erano esposte le sigarette. <<Un pacchetto di Benson, per piacere...>> disse scandendo bene le parole e lasciando intendere una dizione ottima. <<Effettuate servizio ai tavoli?>> chiese all'anziano gestore indicando una minuta sala ristorante alla sua sinistra. <<Sì... vuole mangiare qualcosa?>> domandò Lando cercando di assumere una dizione corretta quasi come quella del suo cliente. <<No, no...è che aspetto un amico e volevo sapere se dopo potessimo ordinare da bere al nostro tavolo...>>. La risposta fu secca: <<Sicuramente...>>.
Fabri si sedette al tavolo, di fronte ad un paniere con della schiacciata secca. Ripensò a quando sua madre la portava a casa e lui ne mangiava fino a scoppiare. Odiava questo tipo di ricordi, ma amava vivere nel passato. Si accese una Benson e sentì che era la prima di una lunga serie. Questa è una serata da sigarette spente in un “crogiuolo di memorie” pensò. Buttò uno sguardo attraverso la vetrata del bar, bagnata da poche gocce di pioggia autunnale, e controllò se il suo Gran Cherokee del '97 desse fastidio a qualche nuovo arrivato. Aveva comprato quella macchina nel terzo dei suoi grandi trasferimenti nazionali, quando era andato ad abitare vicino al lago di Santo Stefano con la bella Marianna. Si era improvvisato pittore ed era riuscito, con una vendita di quasi tutte le sue opere, a pagare in anticipo quasi un anno di affitto di una bella villa. Gli ampi saloni straboccavano di oggetti d'arte di ogni tipo, giunti in eredità da un ricco zio di Marianna: erano perlopiù cianfrusaglie, che però Fabri riusciva a far apparire, agli occhi dei propri ospiti, come autentici capolavori barocchi e ottocenteschi. Questo era dovuto alla sua abilità retorica e alla sua conoscenza profonda dell'arte. <<Non sono un falsario, ma un rivalutatore!>> amava ripetere alla compagna. Il gioco andò avanti per diverso tempo, con personalità illustri che si recavano sempre più frequentemente in quel museo domestico e le entrate finanziarie che andavano di pari passo con l'afflusso di visitatori. Le signore, anziane matrone piene di gioielli, si facevano spesso catturare dalla parlantina pacata e mai fastidiosa di quel giovane dai modi garbati e dal modo di apparire elegante e disinvolto, arrivando a rilasciare assegni milionari. Questi colpi andarono a segno fin quando non si presentarono svariati critici, che bollarono gli oggetti della villa come “ciarpame” e scrissero su riviste e quotidiani la triste storia di una giovane coppia che, per farsi spazio nel bel mondo, era costretta a spacciare una pessima raccolta di oggetti d'arte per capolavori a dei vecchi ricchi ed indifesi. Non ci furono multe o processi, solo qualche scandalo. Marianna lasciò Fabri e tenne la casa sul lago. Ripartito, andò a cercarsi nuovamente una ragazza benestante e una professione che gli permettesse di assicurarsi un buon posto nella società. Non era la prima volta che andava a finire così, con la ragazza scomparsa e il giovane costretto a ricorrere a nuovi trucchi. Eppure un tempo non succedevano queste cose ad uno come Fabri, che già in giovane età aveva trovato l'amore e cercava di assicurarsi un futuro. Nessuna ragazza con cui mise in atto i suoi piani diabolici e le sue delinquenze fu mai amata realmente; solo la prima, quella per cui se ne era andato da un paese che sorgeva qualche chilometro sotto il Nina Bar, poteva aver ricevuto il suo amore, tutto il suo amore. Peccato che la avesse uccisa senza pietà, quando aveva scoperto che era sul punto di lasciarlo. Il cadavere era stato bruciato da lui stesso e ogni traccia cancellata: era stato bravo. Fuggì dunque dalle colline e iniziò la sua vita di intraprendente falsario a giro per tutta la nazione. Allora aveva compiuto da poco 18 anni: ne erano passati più di 10. Fabri era ritornato al paese per costituirsi, per liberarsi dal pesante fardello che gli albergava nel cuore da oltre un decennio. “L'amico” che aspettava quella sera al bar non era altro che Ivano, il carabiniere locale, il primo che avrebbe avuto l'onore di sapere la vera storia. Ogni minuto passato senza che l'uomo di legge si presentasse era, per il giovane, simbolo di ulteriore colpevolezza, di un peccato sempre più difficile da espiare. Davanti a Fabri, una delicata distesa di bicchieri prendeva forma sul tavolo, circondando un posacenere ormai stracolmo di Benson. Le luci della saletta ristorante erano veramente basse e scaraventavano gli avventori in uno stato di sonnolenza inaudito; nessuno osava alzare gli occhi verso la televisione, ma, ad un certo punto, Fabri lo fece. Si vide dentro la scatoletta vetrata, a confessare tutto e ad essere ripreso dai TG, poi nelle interviste carcerarie e con quei pezzi di merda che lo invitavano ad ogni tipo di seminario per rimettersi in carreggiata, per ritrovare la retta via. La galera era il posto per lui, un posto che sapeva di meritarsi, un soggiorno che aveva rimandato per tanti anni. Guardò nuovamente attraverso la vetrata: nessuno. Pensò di fuggire anche dal Nina Bar, da Ivano il carabiniere, dal paese in cui aveva trovato l'amore che gli aveva rovinato una vita: era abituato a fuggire e amava farlo. Meditò a lungo se andarsene anche quella sera e tornare fra altri 10 anni, ma non voleva più scomparire. La testa gli doleva all'inverosimile a causa di quel flusso di pensieri; ci voleva la medicina. Estrasse dal parka una confezione di Aspirina e buttò giù tre pasticche di fila, accendendosi una sigaretta subito dopo. <<Mi scusi...>> disse quando Lando passò vicino alla porta <<gradirei un altro bicchierino...>>. Il proprietario lo guardò con aria compassionevole e si diresse verso il bancone. Gli occhi vuoti di Fabri, forse senza senso e liberi da ogni traccia di felicità, si illuminarono per la prima volta quando vide arrivare un Defender con i lampeggianti sopra e con scritto “Carabinieri” sulla fiancata. Lando si avvicinò al forestiero imbambolato, con un bicchiere di Grand Marnier nella mano sinistra e un tovagliolo bianco in quella destra. <<Questo lo offre la casa...>> sibilò.






venerdì 1 marzo 2013

Quaranta anni di lato oscuro della luna [Suggestioni uditive]

 Nel 2004 sentivo molta gente parlare di The Dark Side Of The Moon, o meglio, che parlava di una special-edition uscita l'anno precedente, per il trentennale, e molto costosa (allora, solitamente, i dischi tendevano a costare più di adesso, anche se nessuno sembra ricordarselo). Ad ogni modo, la EMI aveva lasciato nei negozi l'edizione standard, quella con la copertina più famosa al mondo, fedele in tutto e per tutto all'originale. All'epoca, ascoltavo prevalentemente heavy metal e muovevo i miei primi passi nel mondo dell'hard rock: tutto il resto era noia. Tuttavia, qualcosa di indefinibile mi spingeva verso The Dark Side Of The Moon, di cui conoscevo solo gli autori e l'aspetto più "fisico" (YouTube sarebbe arrivato solo l'anno dopo). Volle il caso che un caro amico e storico compagno di banco avesse acquistato l'album (nella versione "comune mortale"), e dal momento in cui, solo nove anni fa, l'iPod era ancora un lusso da star transoceaniche, nei nostri zaini trovavano spazio, fra un manuale di versioni greche e le pesanti antologie letterarie ginnasiali, dei buffi lettori cd; io ne possedevo uno giallo della Panasonic, uno dei modelli meno ingombranti fra quelli in commercio. Poichè ero solito finire in tempi record i compiti in classe di matematica (e non di certo perchè fossi un mago coi numeri), domandai al mio amico se avesse dietro il disco dei Pink Floyd; mi rispose di sì e me lo porse. Ebbene, un paio di giorni dopo ero ad acquistare la mia copia di The Dark Side Of The Moon
Sono passati nove anni da allora, e in questi nove anni ho avuto il tempo di innamorarmi del successivo Wish You Were Here (l'opera pinkfloydiana a cui sono più affezionato) e di fare passi indietro, nella loro discografia più estrema e isolazionista (da Ummagumma, che devo ancora capire, al meraviglioso Atom Heart Mother), o passi avanti, fino a giungere al gigantismo sopravvalutato di quel muro di merda (sto parlando di The Wall, e non me ne vogliano i "bimbiminkia" che sovraffollano la rete) e ai discussi anni '80 del declino artistico. Ma, alla fine di tutto, si ritorna sempre a quel prisma attraversato da un fascio di luce: e proprio in questo marzo 2013 il capolavoro dei Pink Floyd compie quarant'anni e dimostra di essere ancora un classico, un classico moderno. Sì, perchè The Dark Side Of The Moon, con i suoi nove brani per un totale di quarantadue minuti e cinquantuno secondi di durata, è come un dramma di Checov o un quartetto per archi di Beethoven: non solo resiste al trascorrere del tempo, ma continua a reggere qualsiasi confronto con la contemporaneità, e spesso anche a vincerlo. E questo succede perchè certe opere d'arte risultano talmente assolute che nulla, anche in un lontano futuro, potrà strapparle alla loro superiorità.