giovedì 26 settembre 2013

Dream Theater, "Dream Theater" [Suggestioni uditive]

DREAM THEATER, 
"Dream Theater" (Roadrunner, 2013)
★★
















Dicembre 2003. 
Sono uno pseudo-metallaro di appena quattordici anni con lunghi capelli unti e i denti gialli. Non fumo, non bevo, ma mi commuovo ad ascoltare dischi di power-metal di importazione scandinava, a leggere libri fantasy e a disegnare ragazze nude. Da mesi compro Metal-Hammer, autorevole bibbiazine metallara che costa ben tre euri e novanta (dieci anni fa!) e che vanta decine di pagine di recensioni. I quattro dischi del mese sono: The Uncrowned dei Last Tribe, Animals Should Not Try To Act Like People dei Primus, il monumentale (3 Cd+ DVD) Rush In Rio dei Rush e Train Of Thought dei Dream Theater. Leggo grandi cose di questo album, ma soprattutto di questo gruppo, paladino della rinascita del progressive di fine anni '80; la band mi incuriosisce, il genere pure e anche la copertina dark-surrealista dell'album. Ma, alla fine, il vecchio trionfa e vinceranno- dopo settimane di risparmi mirati a racimolare i trentasei euro e novanta del prezzo -i Rush.

Dicembre 2004.
Una fredda mattina pre-natalizia di scuola. In questo ultimo anno ho ampliato notevolmente le mie conoscenze musicali, andando oltre il metal e aprendomi all'hard rock, al punk e ad altri generi. Il mio compagno di banco mi porge le cuffiette e mi fa ascoltare un disco dei Dream Theater che gli ha gentilmente "taroccato" (verbo oramai desueto) un suo cugino di Padova: si intitola Metropolis Pt. 2: Scenes From A Memory. Mi innamoro di questa musica e lo stesso pomeriggio siamo tutti a casa di un terzo, appassionato musicofilo, dotato di masterizzatore. E per quanto la scritta rossa sia un po' sbiadita, la mia copia di Scenes From A Memory gira ancora bene nello stereo. 

Luglio 2005. 
Ho caldo, mi sono tagliato i capelli dopo non so quanto tempo e sono su un autobus assieme ad altri compagni di scuola. Viaggiamo verso Bari, da dove poi ci imbarcheremo per Patrasso. Per rendere il viaggio ulteriormente epico, romantico e foscoliano mi sono portato dietro i seguenti album dei Dream Theater: Images And Words, Awake, A Change Of Seasons, Six Degrees Of Inner Turbulence, Scenes From A Memory e Train Of Thought. In più, abbiamo due copie (una originale, l'altra piratata) di Octavarium, uscito da meno un mese e piuttosto discusso da pubblico e critica. Pur apprezzando molto un paio di brani, anch'io non rimango favorevolmente colpito dal disco e nella suite che dà il titolo all'album avverto più il plagio che l'omaggio ai Pink Floyd. Ad ogni modo, la frase <<Don't be afraid/ You're not the only one/ Don't let the day go by/ Don't let it end/ Don't let a day go by, in doubt/ The answer lies within>> tratta da The Answer Lies Within sarebbe stata incisa a caratteri cubitali nel mio successivo banco e barbaramente sfruttata e riciclata per qualunque scopo. 


Novembre 2006.
Ormai ascolto di tutto, ho imparato a conoscermi meglio, sono cresciuto, ho iniziato a fare più vita sociale e a conoscere e confrontarmi con molta altra gente. Tuttavia, una festa di compleanno a sorpresa non me la sarei mai aspettata. Sono spudoratamente felice e il triplo album live Score (quello con l'orchestra, per intenderci) dei Dream Theater non può che migliorare le cose. Barocco e pomposo: magari oggi lo riascolto e lo tolgo a metà del primo cd, ma all'epoca era quanto di meglio potessi desiderare.  

Giugno 2007.Sono stato miracolosamente promosso all'ultimo anno di scuola, ho i capelli corti, non amo la compagnia, fumo due pacchetti di sigarette al giorno e odio quasi chiunque. Odio anche Systematic Chaos, il più brutto disco dei Dream Theater di sempre, e ancora di più odio quei buonisti del cazzo che devono per forza trovarci qualcosa di buono. Sputo su ogni invito ai loro concerti italiani del tour e sancisco definitivamente che questo tipo di musica è morto, freddo, finito, superato e che chi suona questa roba può solo chiudere bottega.


Agosto 2009.

Neanche lo avevo saputo, ma a inizio estate era uscito un nuovo album dei Dream Theater, il migliore- a detta di un amico che ha continuato a seguirli -dai tempi di Train Of Thought. E, in effetti, gli do ragione: Black Clouds And Silver Linings è il migliore lavoro dei Dream degli ultimi anni (specie nella versione 2 cd, con il secondo ricolmo di cover straordinarie). Peccato solo che io sia già totalmente disinteressato a loro e alla loro musica, e che il disco duri pochi giorni dentro il mio lettore, per poi essere rimpiazzato da Humbug degli Arctic Monkeys.

Settembre 2011.
Forse per l'abbandono della sezione ritmica da parte di Mike Portnoy (unico membro del gruppo a possedere quella cosa chiamata "carattere") che ha investito tutti i canali di informazione disponibili, forse perchè ho voglia di un minimo di ringiovanimento, forse perchè il rock più o meno alternativo si è rivelato essere un'autentica farsa, mi decido a seguire le vicende dei Dream Theater. Leggo le news sul fansite italiano (sito eccellente) e guardo i video dei provini per la ricerca del nuovo batterista. Quando salta fuori il nome di Mangini, sono soddisfatto e curioso di ascoltare nuove canzoni. A Dramatic Turn Of Events si rivela essere un'opera discreta, almeno da principio. Peccato che peggiori di giorno in giorno, ad ogni ascolto. 

Settembre 2013.
Puntuale come un orologio arriva il nuovo album dei Dream Theater. 
Mi era anche passato di mente! E pensare che mesi fa avevo perfino ascoltato quella schifosa canzone recante il titolo The Enemy Inside, e avevo pensato <<Speriamo che tutto il disco non le somigli!>>. E invece le somiglia proprio tutto: che sia della retrò The Looking Glass o della conclusiva, interminabile e insopportabile Illumination Theory, il dodicesimo, omonimo album della band americana che ha fatto rinascere il progressive-rock unendolo al metal di fine anni '80 è un lavoro mediocre, piatto, inutile. Fa ridere (ma anche riflettere) il fatto che il nome del gruppo dia il nome al disco che del gruppo meno sembra raccogliere e tradurre in note l'essenza. 
Tuttavia, mi ritrovo poi a leggere i voti dati da critici seri, gente che lo fa di mestiere, e siamo dalle parti dei 9/10, delle quattro stellette su cinque. Io, da parte mia, gliene ho date due. Forse perchè non sono un vero critico musicale, o forse perchè- al contrario di chi scrive su certe riviste -in vita mia ho ascoltato anche musica di altro genere e cerco di dare un giudizio il più possibile complessivo e non ristretto al genere o all'ambito musicale in cui un album viene analizzato. 
O forse perchè non ho capito i Dream Theater dall'inizio, e questi ultimi dieci anni di ascolti non sono serviti a niente. 

[Recensione] The Grandmaster

Avrebbe sempre voluto farlo, sin dai tempi di Hong Kong Express, ma Wong Kar-wai ha preferito aspettare, regalando al suo pubblico internazionale ulteriori capolavori quali In the Mood For Love (con ogni probabilità, uno dei migliori film sentimentali del nuovo millennio) e 2046. Tuttavia, nel 2009, due anni dopo aver girato il suo primo, tiepido film europeo (Un bacio romantico-My Bluberry Night), ha rotto ogni indugio e ha annunciato l'inizio della lavorazione di The Grandmaster, biopic sulla figura del maestro di kung-fu Yip Man. Le riprese si concludono nel 2011 e a Wong ci vuole più di un altro anno per montare e preparare il film, che solo a febbraio del 2012 viene presentato alla Mostra del Cinema di Berlino.
Opera immensa, barocca, virtuosa sul piano registico e coreografico, The Grandmaster è una biografia post-moderna dove ben poco peso hanno le ambientazioni (nonostante tre scenografi), e tutto si regge- come nell'opera lirica cinese più volte mostrata e fatta ascoltare durante il film -su tre, quattro personaggi e sull'azione. Inoltre il protagonista assoluto del film non è tanto Yip Man (di cui tuttavia Wong segue con attenzione la storia e che è un po' il ponte fra i vari personaggi, oltre a vivere direttamente una serie di momenti cruciali per la Cina), quanto lo stesso kung-fu, utilizzato dai vari personaggi/maestri in modi diversi per adempiere ai loro destini. E sempre come una rappresentazione teatrale il film è facilmente scandito in tre atti: il primo, dove a farla da padrone è il combattimento e lo scontro fra i vari maestri (oltre allo scontro geografico fra Cina del Nord e Cina del Sud, due scuole di pensiero che si contrapporranno fino alla fine); il secondo, dove la figura di Yip Man, rimasto vedovo e solo a causa della guerra con il Giappone, si fa da parte per lasciare spazio alle faide e alle vendette degli altir personaggi; il terzo, dove Yip Man si avvia verso i sessant'anni con un nuovo passaporto (quello di Hong Kong), chiude i conti col passato e apre una sua scuola, visto che il kung-fu <<appartiene a tutti>>. 
Sinceramente, dopo il combattimento sotto la pioggia con cui si apre il film (cinque minuti di lotta rallentata, accellerata e frammentata in una trentina di inquadrature raffinatissime), l'idea di alzarsi e di applaudire dicendo che il film può anche finire lì ci domina, così come si rimane sconvolti quando, alla fine, ci accorgiamo di come Wong abbia giocato con lo spettatore, illudendolo di assistere ad un film d'arti marziali, quando, in realtà, siamo davanti ad una meravigliosa e irrealizzata storia d'amore ventennale: si ritorna così all'albergo di In The Mood For Love, e con questo non voglio dire che The Grandmaster copi e incolli, ma che semplicemente tutto quadra nella filmografia di Wong Kar-Wai. E che quello che fino ad oggi è il suo film tecnicamente più ambizioso e riuscito non sia necessariamente un tornare sui propri passi, quanto un guardare avanti, oltre i generi, oltre la modernità, oltre i propri (capo)lavori. 
Ah, nel caso non si fosse capito, il bambino della foto con cui si chiude il film è Bruce Lee.

lunedì 23 settembre 2013

Cosa aspettarsi dal "RoboCop" di Padilha [Scosse]

RoboCop uscirà nel 2014,
ma ha già fatto
incazzare parecchia gente.
Può succedere che si parli spesso malissimo di un film che deve ancora uscire, e non ci vedo niente di male.
Anzi, direi che in certi casi (tipo questo) dovrebbe essere obbligatorio.
Non mi interessa cosa ne pensa la gente, ma certe cose non si fanno.
Io a Robocop gli ho sempre voluto bene, sin da quando, nel 1993, mi fu regalato in una lussuosa versione parlante (merchandise di RoboCop 3, film che, con una regia diversa, sarebbe stato tutta un'altra cosa), corredato da armi di ricambio e guantoni smontabili.
E ora, dopo tutti questi anni, deve arrivare uno stronzo brasiliano qualsiasi (José Padilha) e rovinare tutto?
<<Eh, ma stavolta Alex Murphy è interpretato da Joel Kinnaman, uno svedese che ha fatto tanto teatro>>. E chi se ne frega? Deve diventare Robocop, non Macbeth. E poi Peter Weller (attore dimenticato che pur venendo dal teatro svedese ha lavorato con Cronenberg, Ferrara, Antonioni e Allen, tanto per dirne solo alcuni) rimane inimitabile.
<<Eh, ma stavolta ci sono Michael Keaton, Gary Oldman e Samuel L. Jackson nel cast>>. E allora? Come ho sempre detto e come la storia dimostra, un grande cast non fa un grande film. 
E poi cos'è questa storia del casco alla Iron Man? Tipo che se Robocop ha caldo, può toglierselo e asciugarsi la fronte, magari durante un combattimento?
E dove combatterà questo povero Cristo? Negli anni '80 e '90 la sua città era Detroit, piena di criminali e di grandi aziende votate alla delinquenza. Peccato che adesso a Detroit non ci siano più neanche le
persone per bene: figuriamoci i criminali.
Joel Kinnaman
durante le riprese.
Dal trailer si evincono inoltre alcuni sgradevoli particolari sulla trama: ad esempio quello per cui Alex Murphy può scegliere se farsi impiantare l'armatura o no. Questo mettere il personaggio al bivio si confa sicuramente ai cinefumetti super-eroistici, ma non all'universo di Robocop, che- per chi non lo sapesse o non lo avesse ancora capito -non è un cazzaro in calzamaglia, non è uno dei Vendicatori e non è nella maniera più assoluta un super-eroe. 
Il mio Robocop, quello vero.
Anzi: il ricordo che ho io è quello di un poliziotto inculato dal potere, morto e trasformato- per volere di una multinazionale -in cyborg. Così la storia aveva senso, perchè aveva una sua politica: ma oggi a chi volete che interessi il sottotesto politico di un film d'azione? Oggi che abbiamo persone come Vin Diesel e il suo pubblico pagante e votante. Ed è pensando che sia stato pensato e prodotto primariamente per questo tipo di individui che sono prevenuto nei confronti del nuovo RoboCop: perchè mi odora da subito di immane stronzata.
Pazienza. Vorrà dire che quando il film uscirà, nel 2014, rovisterò fra qualche scatolone alla ricerca del mio Robocop e, sperando che le pile funzionino ancora, premerò il pulsantino sul torace per sentirgli dire <<Giù la pistola! Ti ho preso!>>.

Fannullopoli-Bomburgo: andata e anche ritorno [Trame]

PREMESSA

Non necessariamente un blog deve rispondere a tutta una serie di ferree regole autoimposte. Così, ho deciso di raddoppiare la rubrica Trame di settembre e di accantonare, momentaneamente, i vecchi racconti onirici ritrovati di recente. Presento così questo racconto pensato inizialmente per un fumetto e scritto in questi giorni di febbre autunnale. 
Buona lettura.

FANNULLOPOLI-BOMBURGO: ANDATA E ANCHE RITORNO

«Non mi rompere il cazzo! Sto per partire e torno martedì! E guai se dici che mi hai sentito. Ricorda che sono in malattia!».
Nonostante il frastuono dei reattori che si riscaldano in pista, gli annunci stridenti in più lingue, le alte grida da suk emesse dai viaggiatori, l’autostrada a pochi metri affollata di tir e la normale dispersione fisica del suono, persino nell’enorme centro commerciale che fronteggia l’aeroporto di Fannullopoli, ricetto speculare di una fauna simile, avranno sentito questa compita risposta. A sbraitarla è stata un’arruffata tardoventenne disabbigliata come le raccoglitrici di telline che decorano certi arzigogolati e inutili centrotavola di Capodimonte. Chiude a scatto un vecchio cellulare a conchiglia, raccoglie uno zainetto Seven che reca ancora scritte a pennarello scolorite inneggianti ai Blue, guarda le due amiche che ancora ridono per la sua uscita e insieme si allontanano rapidamente in uno sfarfallio di infradito verso chissà quali mete da cui torneranno con ricordi bollenti e una vaginite. Il signor Candido Bucaneve, rappresentante presso una ditta di materassi artigianali, cerca di memorizzare il suo viso. E' sicuro che in settimana prossima la ragazza sarà ospite di qualche piagnucolosa trasmissione firmata Santoro.
Finisce di bere un cappuccino che costa come un caffè preso ai tavolini del Florian e si accorge di essere entrato in contatto con il mondo dei neoproletari on the move, un microcosmo di cui ha sempre sentito parlare, ma che non pensava esistesse veramente. In base ai racconti di alcuni colleghi più abituati di lui alle trasferte, si aspettava di vedere tutto ciò che ora effettivamente ha davanti agli occhi. E che sente intorno a sè, dato che neppure chiudendo gli occhi l’oscenità scompare: anzi, risulta amplificata dalle urla scomposte e dalla maleducazione generalizzata.
L’idea di aeroporto assorbita da vecchi film e dai giornali di gossip di molti anni fa si sintetizzava nell’espressione del jet-set: infatti, l’aereo era un mezzo così costoso che solo una ristretta élite poteva permetterselo, mentre per gli altri esisteva la cuccetta da seconda classe o sugli interregionali. E questo aveva come conseguenza un intero codice di comportamento; l’eleganza soffusa- e spesso solo presunta -delle classi più ricche dettava le regole di un galateo supernubilare; silenzio, distacco, una certa noia e vesti di livello adeguato. I ricchi volavano per rapidità, non perché avevano fretta: non provavano l’ansia di arrivare subito per non perdere nemmeno un minuto di quella follia vacanziera che contraddistingue tutti quelli che adesso circondano il signor Bucaneve. I ricchi volavano anche per non mescolarsi con il resto del mondo. Per questo si rinchiudevano in certe riserve protette dell’eleganza. I night, i concorsi di equitazione, i quartieri-zoo come Milano 2 e gli aeroporti. Il jet-set arrivava al gate silenziosamente, scivolando nella stessa afa che ci opprime anche questa mattina, senza mai sudare. Arrivavano in perfetto orario, e mai troppo tardi da dover subire l’umiliante chiamata dagli altoparlanti mentre il pilota impreca. Mai troppo presto, come fanno quelli che poi si spogliano e si sdraiano su tre sedili e iniziano a dormire e russare perché giunti con cinque ore di anticipo mentre gli amici li fotografano e postano subito il jpg su Facebook per mostrare a chi è rimasto a casa quale vita da globetrotter stiano conducendo. I ricchi giungevano solo con quel breve anticipo sufficiente a volteggiare nel gate, fare da elemento scenografico di fronte alle vetrate oltre le quali scorrevano, con altrettanta grazia e silenziosità, le fusoliere argentate di poche linee aeree dai loghi evocativi.
Candido Bucaneve si guarda intorno e non vede nulla di tutto ciò: è qui da quaranta minuti, e osserva i bivacchi che costellano il gate, simboli dell’ineleganza naturale di un neoproletariato che sta ormai conquistando il mondo. E questo stesso neoproletariato è adesso in fila davanti al gate 6, il più famigerato, il più angusto, quello da cui si decolla per l'aeroporto iperperiferico di Bomburgo. L’aereo attende appena fuori dalla vetrata e Candido si domanda come quel modesto velivolo possa accogliere l’infinito serpentone che si snoda a pochi metri da lui. La coda lo sommerge, lo ingloba ed egli è accerchiato al punto che riesce a indovinare indole e speranze di ognuno di quei viaggiatori, tutti individui convinti che l’intero Regno Bomburghese, si rispecchi in poche zone di una capitale conosciuta attraverso i racconti di chi li ha preceduti. Aspiranti designer italofobi, intimiditi frequentatori dei GREST oratoriali alla loro prima avventura volante, fan sfegatate degli One Direction stoltamente convinte di scoparsi a breve una nazione di maschi graziosi come i loro idoli, legioni di quarantenni sessualmente ambigui in look Mengoni (capello bananato e occhiale fluo) che appena possono volano lassù da amici pakistani con laundrette e che già al gate assumono un'aria di sufficienza e disprezzo verso la madrepatria. E Candido si diverte, gioca a fare l'Arbasino di serie C appuntando quello che vede su un taccuino nero.
Però anche lui sta andando a Bomburgo, una città in cui mai avrebbe pensato di andare e in cui è convinto che si annoierà a morte, circondato soltanto da sosia di questi signori semiaddormentati che stanno per volare con lui.
Avrebbe dovuto farsi affibbiare dai capi altre destinazioni, tipo la Spagna. Però, davanti al gate da cui si decolla per Valencia aveva sfiorato una ventina di uomini tra i trenta e i quaranta che forse dicevano cose molto divertenti viste le frequenti risate. Peccato che Candido Bucaneve non capisca il dialetto stretto delle valli camune. I bermuda a quadri si sprecavano e anche le camicie a fiori. Tra tutti quegli indistinguibili spiccava però il re della compagnia, uno più anonimo degli altri, ma il cui petto era attraversato da una fascia, simile a quella dei sindaci, o anche meglio a quelle che pendono dalle corone funebri, visto che il nastro era fregiato da una scritta dorata: Addio al Celibato–settembre 2013. Era rimasto a fissarli per un po’, certo che sarebbero scomparsi di lì a poco non essendo che una proiezione delle sue più profonde angosce. Invece no, esistevano davvero. Trenta trentenni tutt’e trenta trotterellanti verso tre giorni di delirio alcolico-sessuale da veri maschi, lontano da mogli, fidanzate, madri, suocere, a celebrare gli ultimi istanti di libertà del loro amico prima che anche questo cetriolone si asfaltasse in una esistenza di mutui capestro, mogli capricciose e pranzi domenicali dalla suocera. Vedendolo sparire oltre il gate, Candido gli ha augurato lo stesso destino di Daniel, l’amico di Elton John che andava sempre in Spagna e che, vola oggi vola domani, alla fine precipitò con tutto l'aereo: ad ogni modo, sempre meglio della vita che lo attende tra qualche giorno, dopo il banchetto nella raffinata Villa Tropicana Resort, dove, con la neomoglie Tizzy, avrebbe salutato parenti e amici come da partecipazione stampata su cartoncino bristol in caratteri Edwardian.
<<Leaving for Bomburg immediate boarding!>>, chiamano, e il signor Bucaneve va.
L’aereo sta decollando ed è troppo tardi per tornare indietro. Candido avrebbe dovuto pensarci prima e annullare l’intera trasferta, pur sapendo di non aver diritto ad alcun rimborso; anzi, avrebbe dovuto rinunciare all'incarico. È sempre così: appena la segretaria ha premuto “enter” e PayPal ha avviato la procedura di pagamento è stato assalito dai rimorsi, dai sensi di colpa, dalla nausea per quello che lo aspettava. Improvvisamente, ripensa a certi lunghi camion che incontra sulla strada per Lavalava, simili a grosse gabbie dalle cui sbarre spuntano i grugni di maiali portati nei salumifici locali. I suini non sanno quale destino li aspetta e sono felici di quella trasferta, magari si parlano tra loro, si dicono cose come «Io amo molto viaggiare» oppure «Ogni tanto si deve staccare la spina». Sembrano quasi salutare Candido con una pazza allegria grufolante mentre lui li sorpassa, dando loro appuntamento in un futuro panino.
L’atmosfera a bordo è altrettanto grufolante e i panini non appartengono a un ipotetico futuro, ma al presente. Il naso dell’aereo non ha ancora toccato il primo strato di nuvole e già il passeggero seduto al fianco di Candido ha estratto dalla borsa un involto argentato. Appena stracciata la stagnola, l’aria s’impregna di un odore perforante di salamella. Il povero signor Bucaneve si domanda dove il passeggero abbia mai comperato quel simbolo di antiche feste de l’Unità e come possa divorarlo con tanta golosa avidità a quest’ora del mattino. Poi nota che dal taschino della giacca spunta un passaporto inglese, gli vengono in mente i disgustosi breakfast d’Albione e solo allora tutto gli appare più chiaro. Sui voli low-coast tutto è a pagamento e tutto costa molto: ecco perché la tendenza dei passeggeri è quella di presentarsi muniti di frittata con cipolle, usanza che finora veniva attribuita solo alla seconda classe del treno Palermo-Francoforte.
La parola d'ordine è una e una sola: isolarsi. Candido ha già indossato gli auricolari e acceso l’iPod, benché sia vietato l’uso di ogni apparecchiatura digitale nella fase di decollo; ha aperto un fumetto per concentrare lo sguardo sulla fila dei caratteri tipografici inseriti nei baloon, senza dover per forza leggere. Purtroppo non può contrastare l’effluvio di salamella perché non sa rendere autonomamente disponibile la maschera per l’ossigeno, ma un particolare di non poca importanza attira la sua attenzione: la storia che si appresta a leggere, Paperino e il re del fiume d'oro, è ispirata ad un racconto di John Ruskin, che è stato un po’ il padre degli odierni viaggi modellati. Prima di lui, infatti, solo i rampolli dei nobili si dedicavano al Grand Tour e passavano un lungo periodo svenendo davanti alle chiesette toscane. Dopo le guerre napoleoniche, anche i grandi borghesi fecero proprio quel vezzo e iniziarono a fingersi vittime della fascinazione artistica. Ruskin, figlio di un mercante di sherry, non aveva nobiltà né una preparazione culturale particolarmente approfondita, risultando dunque perfetto per vestire i panni della guida del tempo nuovo. I suoi testi non sono esplicativi, tecnici, storico-critici, ma si basano solo sulle impressioni del momento che lui ricavava davanti a un’opera d’arte, ed egli non diceva al branco cosa vedere, ma anche come vederlo. Esaltati da questa sensibilità acquisibile a prezzo contenuto, i progenitori dello stesso inglese che, al fianco di Candido, sta attaccando il secondo panino con salamella iniziarono a venire in Italia per provare esattamente ciò che Ruskin aveva imposto loro di provare. Oggi manca una figura simile, un Ruskin che guidi le impressioni della massa. Su LinkedIn direbbero che è una “posizione libera”, e magari potrebbe rivelarsi proprio il signor Bucaneve l'individuo-chiave di questa rinascita delle croniche di viaggio.
L’entusiasmo però dura poco ed egli si rende conto che il nostro tempo non ha bisogno alcuno di una figura simile, visto che quel ruolo è già coperto in maniera liquida dai blogger di viaggi, dai redattori degli inserti sul lifestyle di Repubblica, dalla gamma di esperienze pregresse di colleghi e amici che hanno già vissuto certe cose che anche tu devi vivere, pena la morte civile. In maniera molto più democratica di quanto avvenisse ai tempi di Ruskin, oggi si è tutti faro e illuminato, indicatore e indicato, insegnante e discepolo allo stesso tempo. Inoltre il diktat emozionale non è più limitato solo all’arte, ma si estende ai consigli di turismo gastronomico diffusi da soubrette in disfacimento o dalle indicazioni sui locali imperdibili di Shangai impartite da dj che non hanno mai lasciato Borgofiorito.
Candido rimette a posto il fumetto e ripone l'iPod nel bagaglio a mano, attorcigliando svogliatamente le cuffiette. Osserva fuori dal finestrino e pensa al clima: l’idea del freddo lo perseguita da sempre, sin da quando si è reso conto di come, per gli altri, lui si doveva rapportare al caldo. Quando sapevano che i suoi genitori erano di origini meridionali, gli abitanti di Fannullopoli iniziavano a esaltare il calore mediterraneo, calore che lui non aveva mai conosciuto, avendo respirato solo la nebbia diaccia che allora avvolgeva la Valle dell'Iride. Come se poi le estati fannullopolitane non fossero più torride e soffocanti di quelle marine e ventilate del sud. Le cose erano peggiorate quando aveva iniziato a rapportarsi con gli stranieri; in particolar modo, con quelle scollacciate ex-sovietiche convinte che tutta l’Italia fosse un solo, enorme golfo di Napoli. Sarà stato per reazione o forse perché era nato a febbraio oppure perché in inverno, a scuola, viveva i suoi unici momenti di socialità, ma aveva iniziato a detestare il caldo. Gli anni Ottanta- quelli che che lo avevano accolto nel mondo dei giovani adulti -lo avevano aiutato a coltivare quell’odio. A quei tempi, Candido sognava di intraprendere la carriera di cantante, ed era uno dei giovani più ferrati in ambito musicale: suonava svariate ore al giorno, cantava in un paio di band, andava ai concerti e comprava vagonate di dischi. Dal momento in cui si imbattè nei Visage che cantavano di estati piovose in stazioni grigie, il suo immaginario si era affollato di cantanti e musicisti che sulle copertine dei loro dischi erano perennemente bardati in cappotti pesanti come armature. La criofilia del signor Bucaneve aumentò quando, come rappresentante, dovette adattarsi ai trentacinque gradi dell’afa di certe amene località di provincia, dove era costretto ad indossare ridicole camiciole dalle maniche corte e a rinchiudersi nel bozzolo di stupidi completi pagati due lire; e solo in auto, immerso nell'aria condizionata al massimo del suo potenziale, riascoltava quei vecchi dischi provenienti da un mondo in cui, per lui, si usavano solo pesanti stoffe e si viveva in mezzo alla nebbia e al grigiore.
Nessuno obbedisce alle indicazioni registrate che intimano di non muoversi fino all’arresto completo del vettore. Tutti liberati delle cinture di sicurezza, hanno prontamente riattivato i cellulari e si sono avventati sulle cappelliere in attesa di sapere verso quale portellone dovranno ammassarsi per riconquistare la libertà. Appena Candido esce dall’aereo, viene avvolto da un semiautunno appiccicoso che i locali considerano forse un clima più estivo che autunnale, visto che si aggirano svestiti come George Michael e Andrew Ridgley nel video di Club Tropicana: è quindi ovvio che a Bomburgo si ammalino spesso.
Ma ora non è tempo di pensare agli usi e costumi locali, bensì al lavoro per cui il signor Bucaneve è stato mandato fin lassù: chiudere un importante affare con un arredatore di prestigio del posto. E così, Candido si ritrova su un autobus che compie un giro di circonvallazione senza mai fermarsi, un anello lunghissimo che dal ridotto centro di Bomburgo attraversa prima una spessa fascia di edifici decadenti, negozi chiusi, fabbriche abbandonate, take away indiani che occuperebbero per mesi i NAS, e poi si perde in una periferia fatta di casette e capannoni tutti uguali, tanto che sarà dura trovare l'azienda in cui lo aspettano. Però lui è un professionista: ha le indicazioni salvate sul suo BlackBerry aziendale, anche se, in questo preciso istante, sembra distratto dalla rassegna di umanità che la strada gli sta offrendo. In giro, infatti, non si vedono tracce dello stile di rock band che da cinquant'anni vengono ascoltate in tutto il mondo, così come a nessun angolo Candido riesce a scorgere famosi attori teatrali ed eleganti modelle. Anzi, tutto ciò che egli vede sono ragazze grandi almeno il doppio delle sue connazionali, contraddistinte da deretani giganti e pance strabordanti. Ci sono stanze disordinate e dai muri scrostati che teniamo nascoste ai visitatori, preferendo accoglierli nel salotto buono. È una tipica tendenza italiana che i bomburghesi hanno applicato in un altro settore: mostrano al mondo Kate Moss e poi nascondono, a fatica, questo eccesso di carni che non è floridezza emiliana, ma un grasso malefico e insano come i cibi fritti che le girls consumano a ogni ora. Adele e Susan Boyle dunque non sono eccezioni, sono la regola. Lo spettacolo più indecoroso è vederle sfilare alle otto di sera, mentre in gruppo si preparano a una notte di follie. Mescolano burlesque e puttanesque, girano in gruppi dai nomi come The Anal Sphincters, identificate da t-shirts troppo aderenti e qualcuna brandisce enormi falli rosa gonfiabili.
Il signor Bucaneve ha da poco concluso l'affare, assicurando alla sua azienda lavoro per un mese e mezzo e riuscendo così a dare un senso a questo viaggio da incubo. Decide di riavvicinarsi al centro, di raggiungere il suo albergo e di mangiare qualcosa, ma dopo un’ora di circo alcoolico andrà a letto per poter vivere una notte con le parti noiose tagliate. Verrà ridestato spesso da scoppi di urla e dal frastuono dei locali, automaledicendosi per aver scelto un albergo a cento metri dal vicolo-cloaca in cui è ubicato qualche club esclusivo. Quindi, sveglia alle 6.30, salutato dallo stesso cielo chiaro e livido contro cui aveva chiuso le tende alle 23, perché a queste latitudini in estate la notte è piccolissima. Check-out subito e fuga nel vuoto umido della zona pedonale, con tutti i negozi chiusi, i bar inesistenti e un velo d’acqua viscida che ricopre tutto senza far luccicare nulla; ritrova le stesse ragazze, sfatte, che tornano a casa. Sono seminude nonostante il clima da ritirata di Russia, ancora più incerte su brutti tacchi che prima o poi le uccideranno, riempite da quantità di alcool micidiali anche per un marinaio e si sostengono a vicenda. <<E gli uomini?>>, si chiede Candido guardandosi attorno. Del resto, ha visto solo un esercito di donne deformi e volgari che lo hanno fatto rimpiangere le tamarre che ascoltano Emma Marrone nel centro commerciale Terronava. Eppure gli uomini, per quanto sparuti, anonimi e intimiditi dalle valchirie che ieri sera li assalivano se si sentivano fissate, ci sono, esistono e hanno un solo interesse divorante: il calcio. Perché se i Beatles sono icone rare come un cartello di attraversamento cervi nel centro di Sassari, il Bomburg F.C. è un’onnipresenza angosciante. Non si parla che di calcio, non si legge che di calcio; il novanta per cento dei polpacci maschili è tatuato con il crest della squadra locale. Il calcio è un tale tarlo che persino il cameriere asiatico di un ristorante giapponese nascosto in uno scantinato, dotato di un vocabolario inglese che non supera le venti parole, quando scopre che il signor Bucaneve viene da Fannullopoli, gli domanda se conosce Balotelli. Ma Candido non conosce Super-Mario, e l'omino con gli occhietti a mandorla non vende il caffè.
Così, nell'attesa che catene tipo Costa's o Starbucks aprano i battenti, il rappresentante ripensa a quanto ha visto, rilegge i suoi appunti di viaggio e capisce che le sfilate delle donne sassoni sono la dimostrazione che Elisabetta I, Vittoria, Elisabetta II e la Tatcher non potevano che nascere e ottenere il potere qui. Gli torna in mente Candy Bovini, quella compagna di scuola che, trent'anni prima, leggeva solo poesie di letterate bomburghesi avulse dal mondo: anche lei era obesa e ubriaca, e spesso veniva ritrovata appoggiata ai muri del centro di Fannullopoli, inutilmente sostenuta da un paio di amiche che dopo l'orale della maturità erano sparite e non avevano più voluto sapere niente di lei. Giustificava il suo nome cafone col fatto che era di madre anglosassone- cosa assolutamente non vera -e si sforzava di emulare l'accento straniero quando meglio poteva. Candido se la immagina dietro il bancone del gastropub appena aperto: ormai si è dimenticata anche quelle tre parole di madrelingua, non legge più Virginia Wolf, ha dei gravi problemi di memoria da quando è stata rimpatriata da Ibiza in coma etilico e deve avere il fegato ridotto come le strade di Bomburgo a quest'ora. Però Candy adesso è felice, e alle scuole superiori non lo era. E neanche il signor Candido Bucaneve voleva esserlo.


sabato 21 settembre 2013

Quello che il calcio... [Extra]


È strano come si possa non possedere alcuna fede calcistica eppure detestare gli esponenti di quel mondo. Non dico tutti, ma almeno quelli molto famosi di cui è impossibile non avere notizie passive, poiché la loro presenza deborda oltre le pagine dei quotidiani dedicate agli eventi da stadio. Dilagano così in quelle di gossip per i loro frequenti nuovi amori, in quelle degli spettacoli perché si mettono a cantare o fare i dj per beneficenza, in quelle della cronaca nera perché, da perfetti bietoloni, finiscono invischiati in scandali economici.  E tra le sezioni Sport, Spettacolo e Cronaca dei quotidiani ci sono enormi pagine pubblicitarie in cui i protagonisti sono quegli stessi calciatori, il cui faccione sovrasta il prodotto che a volte non appare neppure. Succede spesso, e la cosa grave è che succede a chi, come me, non solo non si interessa di calcio, ma neanche legge quotidiani sportivi. Oggi, tanto per dirne una, è il turno di Totti: bravo ragazzo, bella moglie, bella famiglia, ignorante- ops, volevo dire "umile", scusate -e fieramente attaccato al vessillo della Roma. Tanto è forte questa sinergia che il Corriere.it (giornale da cui ci si dovrebbe aspettare ben poco di romano) dedica al rinnovo del contratto  un servizio da prima pagina di Cronaca. 
Ma Totti lo saprei riconoscere, mentre il vero problema è rappresentato da quei calciatori che conosco solo perché fanno la pubblicità a qualcosa, quelli che solo dopo un po’ mi vengono additati come eroi da stadio e non un come semplici modelli. Così mi rendo conto della mia ignoranza in due casi. Primo caso: quando ogni anno regolarmente sento il nome del vincitore del Premio Nobel della Letteratura e mi accorgo di non aver letto mai nulla di suo, anzi di ignorarne persino il nome. È umiliante vedere il giorno dopo che tutti gli scrittori interpellati dai redattori degli inserti culturali, scevri da ogni ombra di invidia, dimostrano una precisa conoscenza, delle istanze, delle problematiche e del valore dei premiati. Secondo caso: quando c’è qualche calciatore su un giornale, in tv, o addirittura a giro per la strada e io non lo riconosco. 
Ma è risaputo che ignorare ogni elemento dell’universo calcistico resta sempre un classico dello snobismo, il modo più sicuro per segnare il territorio tra il popolino affamato di circenses e te stesso; e, per quanto forzato, vorrei poter ammettere che questo atteggiamento di rifiuto della sfera di cuoio ha una sua origine extraterrestre, ma non è così. Capita, quando finisci in classi piene di ragazzini che vivono solo in attesa dell'intervallo per sfogarsi sul pallone, oppure quando rischi di essere lasciato da fidanzate amareggiate dal fatto che tu non conosca il termine "fuorigioco". Condannato a subire la non-stop calcistica che dal sabato al lunedì invade tutti i media, costretto a condividere gli angusti spazi dei mezzi pubblici con persone che compiono l'esegesi della Gazzetta come se fosse un passo oscuro della Torah, mi sono spesso interrogato su come io abbia potuto vivere in questo bagno di calciofilia senza esserne contagiato. 
Il 9 luglio del 2006 divenni il caso di un piccolo tabaccaio nei pressi della stazione Santa Maria Novella a Firenze: infatti ero l'unico presente solo per acquistare sigarette e biglietti dell'autobus per tornare a casa (corsa non garantita a causa della finale), e non per vedere la partita in un minuscolo e traballante apparecchio che era stato adagiato sopra le stecche di Winston. Mi furono rivolte occhiate cariche di odio, forse perchè non domandai <<Quanto stiamo?>> o perchè non mi imbambolai come gli altri avventori. E intanto, fuori, i turisti tedeschi più giovani venivano assaliti da nuovi mostri di Firenze, e quelli anziani- il cui gesto più patriottico era stato leggere Novalis sulla scalinata di Santo Spirito -venivano privati di ogni diritto e incarcerati a Sollicciano. Ricordo che quella notte feci come Marcel all'inizio di Un amore di Swann e andai a letto presto. 
Tuttavia, mentre nel 2006 provavo solo disinteresse nei confronti di questi ragazzotti estrogenati, unti e fragili, oggi le cose sono cambiate, e i miei sentimenti- complici una serie di esperienze dirette e indirette legate al calcio e ai calciatori -sono diventati più intensi. Alla fine di tutto, odio i calciatori perchè sono adorati e perchè si perdonano loro le cadute nella tossicodipendenza (un calciatore è un "debole", un suo coetaneo non sportivo sarebbe un "delinquente") e gli si offre la gratuità nei ristoranti. Ma mi vendicherò prima o poi.
Da qualche parte in superstrada la sera del 9 luglio 2006
(notare la gioia per questa Italia che si appresta a vincere il
suo terzo mondiale di calcio)

venerdì 20 settembre 2013

[Recensione] Rush

Finora ho fatto in tempo ad appassionarmi, seriamente, a meno di dieci cose: fra queste potrà sicuramente annoverarsi il cinema, ma non i motori. Che siano i miei o quelli degli altri, i motori non mi sono mai interessati. Verso i tredici, quattordici anni gli amici avevano gli album dei motorini 50cc, le cui pagine venivano sfogliate fino a sgretolarsi nella ricerca del ciclomotore adatto a loro, ma non a me. Ma mentre alle medie il sillogismo Lui ha il motorinoLei tromba solo quelli col motorinoLei tromba Lui pareva ancora funzionare, al liceo a nessuno già importava più niente di sgassanti e rumorosi macinini a due ruote, e al massimo poteva valere la regola Lui ha già la macchinaLei tromba solo quelli con la macchina perchè si è rotta le scatole di spendere i soldi in biglietti dei mezzi urbani o perchè i suoi genitori sono stufi di accompagnarla ovunque a giro per il mondoLei tromba Lui. Peccato che neanche l'automobile- simbolo dell'entrata nell'età adulta -riuscisse ad esercitare una certa influenza su di me, tant'è che la patente l'ho presa quasi ventenne. Ora che però mi avvio verso il quarto di secolo senza sapere praticamente nulla di automobili mi rendo conto che un buon film di automobili "vere" e incentrato sul mondo dell'automobilismo, forse, non lo avevo ancora visto.
Ecco, ora posso dire di essere stato accontentato: Rush è e sarà per un pezzo il film sull'automobilismo reale e sul mondo sportivo dei motori. Lo è perchè innanzi tutto non si prodiga, a livello tecnico, in assurde sfide contro la fisica; tutto è perfettamente realistico e fuso con la realtà dei fatti (numerose riprese d'epoca si accavallano fra quelle del film, talvolta senza neanche far percepire allo spettatore la differenza). E poi un biopic doppio (Lauda e Hunt) riuscito non si vedeva da un pezzo, per quanto Ron Howard ci avesse provato, già nel 2008, con Frost/Nixon: il duello. Rimanendo su Ron Howard, possiamo solo complimentarci: da A Beautiful Mind in poi la sua sempre altalenante carriera aveva teso esclusivamente al brutto (nessuno mi ha mai convinto che Cinderella Man è un buon film sulla boxe, nè tantomeno un buon film), toccando talvolta livelli inaccettabili. Invece in Rush ritroviamo tracce di quel cinema americano "antico" nella forma (fondamentale, in questo, la fotografia di Mandle, storico collaboratore di Boyle, Von Trier e Vinterberg) e nei contenuti (i due sportivi diventano supereroi, rockstar, dei dell'Olimpo, gladiatori, protagonisti di rispettivi drammi privati). L'adrenalina, la spettacolarità e la computer-grafica ci sono, ma non si vedono, e non si vedono perchè non sono abusate, ma perfettamente credibili: i piloti di quegli anni rischiavano la vita più di quelli di oggi, ed è un dato di fatto. E in tutto questo Chris Hemsworth si taglia la barba, appoggia il martello e impugna bottiglie di scotch e pacchetti di sigarette; scende da Asgard sulla terra avido di gloria, soldi e femmine, e risulta bravissimo. Così come Bruhl nei panni del freddo, risoluto e calcolatore austriaco Lauda si dimostra un interprete maturo e ormai proiettato verso una carriera internazionale. Infine, abbiamo una splendida Olivia Wilde nei panni della signora Hunt (sembra ieri che baciava Mischa Burton su una spiaggia...) e un immancabile Pierfrancesco Favino (ormai paragonabile al prezzemolo, nel suo essere ovunque).
Concludo facendo i complimenti ad un ritrovato Hans Zimmer come compositore dell'ottima colonna sonora e allo sceneggiatore Peter Morgan, che ha deciso di inserire la scena caciarona e "italianissima" dei napoletani (si trovano a Trento ma hanno l'auto targata Firenze) che raccolgono Lauda e la bella Marlene, intenti a fare l'autostop. Che momenti!

giovedì 19 settembre 2013

Lettera aperta a Bernardo Bertolucci [Ombre elettriche]



Caro Bernardo, questa storia ha proprio rotto le palle, così come questa patina di pseudo-femminismo ipocrita che ormai sembra dover investire tutti i campi culturali e sociali.A parte il fatto che questa vicenda veniva riportata già nell'edizione 2002 (undici anni fa) de Il Castoro e che tu avevi dichiarato più volte che l'idea del burro era un segreto fra te e Brando, ricordo che la Schneider è morta nel 2011 e che  da viva ha sempre raccontato che Ultimo tango è stato il suo film più importante, quello a cui era "più affezionata". E poi trovo ridicolo parlare di "stupro", di "anti-femminismo", di "violenza sulle donne": secondo me, Ultimo tango a Parigi è sempre stato, al contrario di quanto è venuto fuori, un film profondamente femminista, e chi vi vede questi elementi misogeni è solo un ignorante servo di qualche settimanale rosa che non ha neanche mai visto uno dei tuoi film migliori e uno dei capolavori del nostro cinema. Purtroppo- come avrai constatato già da solo -il pubblico medio non è mai troppo ardito cerebralmente: e se il tuo film fu frainteso, perseguitato, censurato e addirittura bruciato nel lontano 1972, oggi non dimostriamo certo di essere migliorati molto. Meritiamo sicuramente di andare a vedere Universitari, di continuare a farsi cullare da Don Matteo e dalle sue ragazze assassine ma timorate di Dio e di leggere solo i libri che ci consigliano alcuni talk-show. E continuiamo a fingere che mettere del burro in culo a qualcuno sia per forza violenza gratuita e non un comune gesto di amore.
Con profondissima stima                                                        Ferruccio



sabato 14 settembre 2013

15.09.03 [Extra]

PREMESSA

Esattamente dieci anni fa, il 15 settembre 2003, iniziai il liceo. Il pensare che sia già trascorso un decennio da allora mi ha fatto riflettere, e il frutto di queste riflessioni è finito , in una minima parte, in questo scritto dove ho soltanto cercato di ricostruire, momento per momento, quel 15 settembre di dieci anni fa. 
Nella speranza di non essere stato l'unico ad avere vissuto quel primo giorno in una certa maniera. 

15.09.03

La lettera "A" è la prima lettera dell'alfabeto.

E' stata la lettera della mia sezione alle scuole elementari, lo è ora, e lo sarà per almeno altri cinque anni a partire da oggi. 
A parte la "A", le certezze della giornata sono: tre compagni delle medie (un maschio e due femmine); due vecchi compagni delle elementari; una cara amica che conosco da quando sono nato; un'amica di quest'ultima conosciuta ad alcune feste quando eravamo piccoli e della quale non conservo alcun ricordo; il nome del nostro insegnante tutor.
Rivedo volti degli anni dell'asilo, delle elementari e delle medie. Siamo lì, tutti insieme. Con alcuni non ci parliamo da anni, anche se non sappiamo il perchè: e oggi, come per onorare un contratto non scritto, ricominciamo a salutarci, a dialogare, a volerci bene. La verità è che siamo tutti terrorizzati, impauriti e spaesati da quella moltitudine di volti. Oggi entriamo in una scuola senza confini: un liceo con un totale di sette sezioni (cinque scientifiche, due classiche) che a loro volta comprendono studenti provenienti da una miriade di comuni e da ben due province. 
E' incredibile come coloro che l'ultimo anno di medie si presentavano già con sigaretta in bocca, pantaloni larghi e felpe tamarre, oggi appaiano come ripuliti da famiglie benestanti e piene di aspettative. Da parte mia, ho addosso una polo Fred Perry blu, pantaloni di cotone chiari e un paio di Puma scamosciate ai piedi. Ignoro che dal giorno seguente tornerò a vestirmi senza senso come ho sempre fatto, ma mi sento comunque tirato a lucido, e non sono l'unico. 
Poi arrivano i pensieri. E se fossi ancora troppo piccolo? Alla fine, sono nato a novembre e ho solo tredici anni, e non posso neanche inventare di avere il motorino. Poi i miei occhi non ancora massacrati dalla miopia si posano su gente grande, gente che ha la macchina, gente che fuma, gente che ha la barba, gente che sta con altra gente magari all'interno della stessa classe. Gente che magari ha anche scopato. 
Il nostro tutor arriva a distogliermi dai pensieri. <<Quarta ginnasio A con me, prego!>>. E' un uomo di mezza età coi capelli scuri, un grande e sincero sorriso stampato in faccia e una carnagione bella sana. Ha un tono di voce profondo, e me ne accorgo nel tragitto dall'ingresso fino in classe nostra, mentre ci indica alcuni punti salienti dell'istituto e ci dà le prime regole comportamentali. Al contrario di altri, non sono andato alla presentazione della scuola di mesi prima, e dunque è la prima volta che visito l'edificio: saliamo una rampa di scale blu e imbocchiamo un corridoio rivestito in plexiglass dove rischiamo un colpo di calore collettivo, e alla fine di questo troviamo due porte rosse, su cui stanno avvitate delle targhette blu recanti una scritta bianca: sono le due quarte ginnasio, sezione A  e sezione B.
Entro e vedo che in classe c'è già gente. Mi colpiscono dei lunghi boccoli biondi; tuttavia non riesco a collocare la persona che li porta nè nel recinto blu dei maschi, nè in quello rosa delle femmine, e lo stesso vale per quella accanto. <<Alle medie nessuno aveva dei capelli così>>, penso. Poco dopo scoprirò che sono entrambi maschi. Io e un vecchio compagno delle elementari ci sediamo accanto, in prima fila. Spengo il mio Nokia 8310 nuovo di pacca: sarà la prima e l'ultima volta in cinque anni di carriera liceale che osserverò questa regola. Mi guardo intorno: alla mia amica di vecchissima data sono cresciute dell'altro le tette, quelle tonde, morbide tette che la avevano resa leggendaria già alle medie; inoltre, ha mantenuto i suoi capelli biondi e i suoi begli occhi celesti. Dirigo lo sguardo verso la sua amica, quella che avrei conosciuto da piccolo, ma ha molte meno tette dell'altra e non ricordo proprio di averla già vista. Noto poi che i due individui sessualmente ambigui  interagiscono con una ragazza carina e disinvolta, una di quelle che, anche se è solo il primo giorno, fa la "ganza", ma perchè può permetterselo: ammiro la loro incredibile confidenza e quasi invidio la trasparenza del loro volersi bene. 
Parte l'appello. Alle elementari ero secondo, alle medie pure.
<<Balducci Marco...>> e alza mano "riccioli d'oro".
<<Bellesi Ferruccio...>>, prosegue il professore. Secondo pure stavolta. <<Dunque la bella biondina è in realtà un bel biondino>>, penso.
Siamo ventuno, e la cosa che più mi meraviglia è che ci sono persone con nomi più strani del mio. Non ci sono abituato. Una ragazzina minuta e con indosso una felpa fuori misura ha il nome di un villaggio indiano. 
C'è una ragazza che vive vicino a Monteriggioni più piccola di noi di un anno, e poi una di Tavarnelle che ha un anno di più e che ha cambiato scuola dopo qualche mese di liceo a Firenze.
Oltre a queste due "anomalie" e a noi colligiani, c'è gente di Poggibonsi, di Siena, di Certaldo, di Staggia, di Castellina Scalo. 
Mi colpisce una strampalata coppia poggibonsese seduta poco dietro di me: un tipo moro, alto e con la testa piccola ha accanto una ragazzetta biondina, bassa e sorridente. Molto Stanlio&Ollio.
Il professore si presenta e spiega che lo vedremo spesso: almeno diciotto ore alla settimana fino al giugno del 2005. Infatti, sarà il nostro insegnante di italiano, latino, greco, storia e geografia. Ci spiega la sua metodologia didattica, mostrandoci uno strano apparecchio grigio che altro non è che una lavagna luminosa su cui applica dei fogli trasparenti scritti di suo pugno o stampati al computer; e a seguire tira fuori dalla borsa in pelle verde e marrone un vecchio Apple PowerBook Duo 280c, nella cui memoria interna troveranno spazio le nostre schede di valutazione, i nostri voti e il nostro andamento: una sorta di registro allargato.
Arrivano alla svelta le dieci e mezza, ora della campanella e ora dell'intervallo. Solo oggi, però: infatti, da domani la campanella sarà alle undici e trenta. Controllo nel mio zaino Invicta e tiro fuori un panino con la Nutella e un succo alla pesca. 
Non ho ricordi nitidi di quella prima ricreazione.
Dopo dieci minuti, il mio diario Comix è aperto di fronte a me. La pagina con i dati personali è già stata riempita, quasi interamente, la sera prima.

Nome: Bellesi Ferruccio
Nome da fuso: /
Il mio indirizzo: via Bologna 7
Recapiti: /
Patente: da prendere
Il mio peso: 58 kg
Ri-soluzioni: 2x2= 4
Siti privilegiati: www.gamesradar.com
Parolaccia: baldracca
Collegamenti: mezzi personali

Ora è il momento di scrivere l'orario provvisorio: il giorno seguente ho quattro ore a fila con il professore di lettere e inglese all'ultima, e per due giorni alla settimana usciamo alle dodici e mezza. 
Vengono a salutarci dei ragazzi del terzo anno, vecchi studenti che temono l'entrata al triennio esattamente come noi temiamo l'entrata al ginnasio: eppure sembrano più grandi, più felici e più estroversi di noi. Riconosco una ragazza ma non ne ricordo il nome. Non mi interessa: l'idea del comitato d'accoglienza mi piace parecchio, ma il professore non è d'accordo e- col garbo che si confà ai bravi uomini -allontana questi affezionati ex-ginnasiali, pregandoli di chiudere la porta. Ridacchia e dice di non preoccuparsi: <<Abbaiano ma non mordono!>>. Poi, afferra un gesso e si dirige verso la lavagna. Ha una bella scrittura, grande, rotonda, comprensibile.

α β γ δ ε ζ η θ ι κ λ μ ν ξ ο π ρ σ τ υ φ χ ψ ω

L'alfabeto greco. Il mio nuovo "ABC..." da scrivere su un grazioso quadernetto giallo.
Sto ufficialmente diventando adulto. 
Per il giorno dopo dobbiamo imparare a memoria l'alfabeto e dobbiamo saperlo scrivere perfettamente (anche se, per adesso, bastano le lettere minuscole). Il prof. chiede se qualcuno ha un minimo di base di greco o latino. Due o tre persone conoscono già l'alfabeto, mentre io ho presente qualche parola greca imparata su Martin Mystère e le prime due declinazioni latine: questi sono i miei unici rudimenti classicisti. Non cito le mie fonti fumettistiche, ma alzo comunque la mano e ne informo il professore, che scuote la testa in segno di assenso. 
Suona la campanella, ma non sembra esserci alcuna fretta. 
Diario, astuccio, quaderno, tutto dentro allo zaino. Do il cinque al mio amico ritrovato e pattuiamo di stare accanto di banco anche il giorno seguente. Poi la ragazza "ganza" mi passa accanto, mi sorride e dice <<Grande, Ferruccio! Ci si vede domani!>>. Mi ha visto per appena tre ore, si ricorda il mio nome e non penso di avere fatto o detto nulla per meritarmi l'appellativo "grande". Eppure è stata così spontanea nel salutarmi. 
Il professore indica una porta di uscita d'emergenza diversa da quella da cui siamo entrati la mattina e ci ammicca; si carica la borsa a tracolla sulla spalla e, andando con passo deciso in tutt'altra direzione rispetto a noi studenti, con un gran sorriso paterno ci dice: <<A domani, ragazzi>>.



venerdì 13 settembre 2013

[Recensione] Comic Movie

Sono quaranta giorni esatti che non metto piede in un cinema. 
Per uno come me, quaranta giorni sono un'era. 
Nell'ultima settimana ho rifiutato inviti sia per Elysium che per Riddick (per quest'ultimo un po' di curiosità mi è rimasta, sono sincero): li ho rifiutati nell'ingenua speranza che potessi iniziare la mia stagione cinematografica autunnale con qualcosa che non fosse un blockbuster. E di certo Comic Movie non è un blockbuster. Forse non è neanche un film. 
Comic Movie è un progetto risalente al 2010 tirato su con poco più di cinque milioni di dollari, dodici registi e una sfilza di attori principalmente famosi. Fino allo scorso gennaio nessuno è stato giustamente disposto a montarlo e distribuirlo, ma adesso che è arrivato in Italia è giusto parlarne un po' e non liquidarlo subito come "uno dei peggiori film di sempre" (anche se lo è in toto).
Ci sono innumerevoli fattori che possono spingerci dentro una sala cinematografica: dal trailer alla locandina, dal regista al cast. Ecco, il cast. L'attrazione da cast è quanto di più superfluo possa provare uno spettatore, ed è tale per un semplice motivo: il cast non conta un cazzo, e Comic Movie nè è la dimostrazione definitiva, la prova del nove, chiamatela come vi pare. Dall'età di tredici anni non vado più a vedere un film per "quell'attore" o per "quell'attrice", prediligendo la trama, il regista o anche il più semplice "sentito dire", visto che da sempre, per pura passione personale, leggo, mi informo e mi interesso di cinema. A tal proposito, apro una microparentesi e racconto un aneddoto: lo scorso inverno, sono andato a vedere Jimmy Bobo di Walter Hill e ho chiesto a diversi amici di accompagnarmi, visto che i presupposti per un grande film d'azione c'erano tutti e che Hill non faceva capolino al cinema da undici anni.  La risposta più frequente è stata <<Figuriamoci, a me Stallone fa cacare!>>. 
Questo per dire che se un buon cast facesse un buon film, Comic Movie sarebbe un'ottima pellicola. Ma la cosa che in tanti non hanno ancora capito è che anche i grandi divi hanno bisogno di evadere, di respirare: la Winslet, ad esempio, potrà rompersi le palle di fare Shakespeare a Londra per tutto l'inverno o no? Avrà bisogno di comparire, a gratis, in un film dove va a cena fuori a Gotham City con Hugh Jackman che ha uno scroto che gli pende dalla giugulare o no? 
Sì, avete capito bene: in Comic Movie Hugh Jackman ha i testicoli attaccati al collo. E' una cosa bizzarra, assurda, stupida e schifosa, ma tutti e sedici i segmenti  sono ricolmi di cose bizzarre, assurde, stupide e soprattutto schifose. E sapete qual'è il bello (o il brutto)? Che Comic Movie non diverte, non è irriverente e non è demenziale: al massimo, è un film demente, e c'è una bella differenza. Si ride, ma si ride male, quasi per disperazione. In tantissimi momenti mi sono ritrovato davanti a quelle cose orribili che uno non vorrebbe neanche pensare ma alle quali, evidentemente, hanno pensato gli sceneggiatori del film. 
In tutta onestà, ho trovato sbellicanti due episodi, e non me lo sarei aspettato: quello dove Steve Jobs (Richard Gere) deve vedersela coi problemi tecnici della sua creazione iBabe (un lettore multimediale a forma di ragazza nella cui vagina è posta la ventola di raffreddamento che sta mozzando peni a buona parte degli acquirenti maschili) e la falsa pubblicità progresso sullo sfruttamento di lavoro minorile nei bancomat e nelle fotocopiatrici. 
Ma al di là di tutto, non si può di certo dire di trovarsi di fronte a uno di quei film di serie Z che magari, fra una trentina d'anni, passeranno come capolavori e verranno rivalutati, restaurati e premiati. Secondo me, Comic Movie finirà la sua permanenza nelle nostre sale, scomparirà e nessuno ne sentirà più parlare. 
Poi magari, fra un po' di tempo, in un'intervista, Halle Berry farà un bilancio della propria carriera e dirà: <<... e poi, nel 2010, partecipai anche ad un filmetto collettivo. Una stronzata fatta fra di noi, tanto per staccare la spina. Non so neanche se lo hanno distribuito, ma non credo. Ad ogni modo, solo gli idioti potevano andarlo a vedere. E solo degli idioti ancora più idioti potevano farselo piacere>>.

"Guilty Of Romance" DVD e/o Blu-Ray [Album]

Dobbiamo ringraziare la distribuzione Far East Film (quella che organizza il festival di Udine, per intenderci) se abbiamo la possibilità di scoprire molte buone opere del cinema orientale contemporaneo: bei film, film duri, film di autori spesso giovani o sconosciuti, film lontani dai riflettori di molte tristi rassegne orientali italiane. Ed è proprio la Far East a portare, in Italia, i film di Sion Siono (giapponese, classe 1963). 
Sul regista ci sarebbe molto da dire, visto che è un folle egocentrico (tanto per dare un'idea, il cortometraggio d'esordio si intitola I'm Sion Sono!!) e un clamoroso tuttofare (oltre a scrivere e dirigere, compone colonne sonore, interpreta, monta e produce), e come tutti gli autori orientali è totalmente votato al lavoro e arriva a girare anche quattro film l'anno. 
Guilty Of Romance (2011) è arrivato adesso da noi ed è un film bellissimo, che consiglio a tutti. La storia di questa ragazza che non-vive nel malato Giappone e che passa dal lavorare in un supermercato al minimo sindacale a fare la porno-attrice è portata avanti per oltre due ore in maniera impeccabile, ricorrendo a un registro cinematografico che va dall'erotico spinto (e quanto!) al thriller lynchiano (basti pensare alla scena iniziale, quella del ritrovamento dei cadaveri), passando per il melodramma alla Ozu. Ma Guilty Of Romance non è il filmetto moralista americano sulla donna al bivio, sulla bellona in crisi matrimoniale che tenta di evadere e, per colpa di altri, imbocca la strada della perdizione. Anzi, a Izumi (interpretata dalla bella e brava Miki Mizuno) piace proprio la vita che sta facendo, lontana da un'esistenza trascorsa all'ombra di obblighi insulsi e vessazioni fini a se stesse: ed è in questo aspetto, oltre che nella messinscena, che risiede il coraggio del film e del suo autore. 
Siono ci mostra l'alienazione, l'oscurità, l'orrore di un modo di vivere: se l'occidentale Coppola in Lost In Translation si era preoccupata di farci intravedere cosa si nasconde dietro la pace zen Guilty Of Romance approdiamo alla visione di ciò che non vorremmo sapere e di ciò che non vorremmo vedere. 
e le insegne luminose di Tokyo, con
Secondo me, iniziative come quelle della Far East vanno premiate e, se si ama il cinema, bisogna dare un mano: dunque spendete quei sei euro e novanta per il DVD e compratelo. Avrete modo di vedere un gran film, qualcosa di originale non solo a livello estetico, ma anche a livello di contenuti. Invece di stare sempre a lamentarsi.
Buona visione.