sabato 30 novembre 2013

[Recensione-Scontro] Prisoners Vs. La mafia uccide solo d'estate


Jake Gyllenhaal è il protagonista di uno dei thriller più belli e meno considerati degli ultimi anni, e cioè Source Code (2011) di Duncan Jones. Sempre pensado a lui, mi viene in mente anche un altro thriller notevole, ossia Zodiac (2006) di Fincher. Insomma, il nome di Gyllenhaal è indissolubilmente legato al thriller d'autore di questi vuoti anni duemila, dove il cinema americano- all'infuori di nomi che stanno sulle dita di una mano -sta veramente attraversando un brutto periodo. 
La domanda è: quanti thriller americani escono durante una stagione cinematografica? Centinaia. Quanti rimangono impressi nel cervello di un cinefilo? Meno di dieci. Ecco, Prisoners di Denis Villeneuve è e resterà uno di quelli (forse proprio perchè non è l'americanata e che l'autore è canadese). Anzi, è di più: è uno dei film più belli in circolazione nelle ultime settimane. Trovatelo, vedetelo, rivedetelo (una volta non basta). Tanto per cominciare, è girato magistralmente (fotografia del "britishissimo" Roger Deakins), interpretato da un Gyllenhaal più bravo del solito e da un Hugh Jackman sotto le righe e dunque sopportabile. Siamo davanti all'ennesimo film dove rapiscono una bambina e il padre violento e reazionario fa trionfare la giustizia privata? Assolutamente no. Siamo su un altro pianeta, un pianeta dove un problema come la pedofilia è affrontato come forse nessun'altra pellicola prima di Prisoners aveva osato. Il dolore, lo strazio, le difficoltà sfondano lo schermo, si riversano sotto la pelle di chi assiste, impotente, alla tragedia(un po' come accadeva già in Changeling di Eastwood). Da una parte, dunque, la denuncia sociale senza filtro; dall'altra, un ritmo da thriller di alto, altissimo livello. Purtroppo non sento parlare abbastanza di questo film (tolto dai cartelloni a tempo record): ma il pubblico smania di vedere Jennifer Lawrence con l'arco infuocato in mano, e allora fanculo!
Concludo lodando la colonna sonora di Jòhann Jòhannsson, conosciuto dagli appassionati di elettronica come fondatore degli Apparat Organ Quartett: a riconferma che la migliore musica al mondo ormai viene dall'Islanda, anche quella per il cinema.

VS.

Per una serie di "sfortunati eventi", non amo il cinema di denuncia italiano: lo trovo piagnone, sterile, vittimista, inutile, politicizzato male, ruffiano. Forse è per questo che, contro ogni mia previsione, mi sono goduto e ho apprezzato La mafia uccide solo d'estate di Pierfrancesco Diliberto (meglio conosciuto come Pif), noto per la trasmissione Il testimone, in onda su MTV da diversi anni. L'idea alla base di questo esordio cinematografico è semplice: prendere il proprio bagaglio di esperienze legate alla mafia (e Pif, da palermitano, qualcosa da raccontare ce l'ha) e intrecciarlo con una commedia popolare ricca di personaggi eccentrici e battute folgoranti. E il gioco riesce bene, anche perchè sembra che Pif sappia esattamente cosa dire e come dirlo, senza freni e censure. Per questo motivo il film, quando vuole, sa essere divertente, e un attimo dopo imprevedibilmente crudo, realista e- perchè no -anche commovente. Inoltre, gli va dato atto di portare sullo schermo interpreti (soprattutto i bambini che occupano tre quarti della durata) bravissimi e di occuparsi di un tema scomodo senza risultare un film "comodo", gentile e politicamente corretto. Dimenticatevi Johnny Stecchino e dimenticatevi di quei pagliacci che, nel tempo di un battere di ciglia, passano dalla televisione al cinema senza alcun merito e per parlare solo di baggianate (mi riferisco a Fabio Volo come ad una miriade di altri mentecatti): Pif è il primo che compie questo passaggio con onestà, modestia e sobrietà. E non lo avrei mai detto, da spettatore che diffida da sempre di questo genere di cose. 
Cercate la commedia pre-natalizia leccaculo e democristiana? State alla larga da La mafia uccide solo d'estate: nulla è più lontano dall'imperante democristianità culturale di questi anni.

mercoledì 27 novembre 2013

Arcade Fire, "Reflektor" VS. Rhapsody Of Fire, "Dark Wings Of Steel" [Suggestioni uditive]

Arcade Fire,
Reflektor (Merge Records, 2013, 2Cd)

★★

















Gli Arcade Fire non mi sono mai piaciuti e io non sono mai piaciuto a loro. Però ci sono sempre rimasto male, perchè piacevano a tutti e ogni uscita di un nuovo album era per me una coltellata al cuore e all'oroglio perchè, con chiunque parlassi di musica, saltava fuori l'ultimo disco degli Arcade Fire e io ero sempre l'unico a cui non era piaciuto. 
<<Gli Arcade Fire vanno capiti, sono un gruppo che fa musica colta, complessa...>>. Ma con quale criterio si stabilisce che una band fa musica colta e un'altra band non la fa? Forse perchè nella copertina dell'ultimo doppio e super-celebrato Reflektor c'è una scultura (bellissima) di Rodin? Forse perchè una figura letteraria come quella di Orfeo è al centro di questo "concept-album che non è un concept-album"? Forse perchè il video del singolo Afterlife è composto da scene estrapolate dal dimenticato l'Orfeo Negro (1958) di Marcel Camus, pellicola di cui nessuno sentiva la mancanza?
Insomma, per tagliar corto, io un disco come Reflektor lo giudico male, perchè non lo capisco, perchè non è musica che mi piace e che, molto probabilmente, non mi piacerà mai. Porno è una bella canzone, è vero, ma una bella canzone non fa un doppio album. Però dico anche che, al contrario dei suoi predecessori (tre dischi che conosco, che possiedo e che ho ascoltato a più riprese), Reflektor è nettamente superiore a quanto i canadesi abbiano tirato fuori in dieci anni di attività. Tuttavia, mi tengo i miei dubbi su questi "fenomeni" della musica odierna.

VS.

Rhapsody Of Fire,
Dark Wings Of Steel (AFM Records, 2013)

★★½

















In Italia siamo strani: stappiamo intere riserve di champagne se la Pausini entra nella "Billboard 200" al 199° posto, gioiamo nel constatare che Ligabue farà una data in uno scantinato londinese e che l'evento sarà sold-out da subito (merito della "fuga di cervelli"), ci commuoviamo ogni natale davanti ad Andrea Bocelli che intona il Nessun dorma al Madison Square Garden e ignoriamo, al contempo, che gli italianissimi paladini di un genere come il symphonic-metal abbiano venduto più di un milione di dischi a giro per il mondo senza ottenere mai una copertina di Vincenzo Mollica per il TG1. Sto parlando dei Rhapsody Of Fire, che da pochi giorni sono tornati a far parlare di loro con l'uscita di Dark Wings Of Steel, undicesimo album in studio, primo senza il fondatore e chitarrista Luca Turilli e primo dopo la conclusione della Dark Secret Saga (2004-2011).
Premetto che mi sono appassionato molto ai Rhapsody verso i tredici, quattordici anni: mi piacevano lo stile cinematografico, il flirt col folklore, l'idea della voce narrante, le influenze della musica classica e tutti gli altri fattori che hanno contribuito al successo del gruppo. Vecchie opere come Legendary Tales (1997), Symphony Of Enchanted Lands (1998) e Power Of The Dragonflame (2002) hanno significato molto per me, così come solo in tempi più recenti ho rivalutato l'ancor più "pomposo" Symphony Of Enchanted Lands II- The Dark Secret (2004) e mi sono "rimesso in pari" con gli ultimi dischi. Parlando però di tempi recenti, non ho assolutamente idea del perchè Luca Turilli abbia lasciato la band per fondarne un'altra con lo stesso nome (Luca Turilli's Rhapsody) e lo stesso logo: fatto è che l'esordio Ascending To Infinity (Nuclear Blast, 2012) è un capolavoro, nonchè uno degli album più belli usciti lo scorso anno. Non si può dire lo stesso di questa prima prova dei Rhapsody orfani di Turilli: la band capitanata dal veterano tastierista Alex Staropoli rinuncia a fare il "classico album à la Rhapsody", elimina gli eccessi orchestrali della Dark Secret Saga e sposa uno stile più heavy, dando a un brano come Rising From Tragic Flames il compito di presentare il "nuovo" chitarrista De Micheli, che sembra destreggiarsi bene fra doppie casse e cascate di tastiere. Tuttavia, il "giochino" si rompe quasi subito: i brani sono generalmente più lenti, meno curati, più brevi e meno ricchi di atmosfere fiabesche, quelle atmosfere che hanno fatto la fortuna (e la bellezza) dei Rhapsody storici. Come possono suggerirci il titolo e l'artwork, Dark Wings Of Steel è un onesto e cupo album dove si ricercano toni più marcatamente epic (vicini, ad esempio, agli ultimi Manowar); e l'inefficacia di questo nuovo stile viene subito a galla con la funerea Tears Of Pain, o ancora di più con la ballata Custode di pace. Tanto di cappello per A Tale Of Magic, che sembra uscito dagli scarti di qualche album dell'era turilliana e che qui rialza notevolmente la media. Nessuna voce narrante di Christopher Lee, nessuna suite ad alto minutaggio: e guardate che con un paio di idee in più e un po' di oscurità in meno, Dark Wings Of Steel poteva anche risultare un buon album. Insomma, sono questi i Rhapsody Of Fire o, alla fine, sono davvero quelli del nuovo progetto di Luca Turilli? 

lunedì 25 novembre 2013

[Recensione] Thor-The Dark World

Provo pietà per coloro che si scannano all'uscita di un nuovo cinefumetto. Si tratta di individui che racchiudono in se stessi le peggiori qualità degli appassionati di fumetti e le peggiori qualità degli appassionati di cinema, individui che vivono fra di noi e che ci siedono accanto, in una serata banale e scontata quanto un cinefumetto. Nello specifico, un cinefumetto Marvel. Ancor più nello specifico, Thor-The Dark World, un film che non solo divide, ma si divide in due parti ben distinte: una parte comica e una parte brutta. Ne consegue che anche la mia recensione di questa mezza cacata è composta da due parti distinte.









PRIMA PARTE
LA COMMEDIA

Thor-The Dark World è senza ombra di dubbio il film Marvel dove ho riso di più, e non per la disperazione o per le ridicolaggini proposte, ma proprio per i toni di commedia brillante che trionfano per tutta la durata della pellicola (e meno male, visto che il film non dura poco!). Il fatto che ci sia il grande Loki (Tom Hiddleston) che spara battute sin dall'inizio, che Thor (Chris Hemsworth) sia un ragazzone spiritoso e con un quoziente intellettivo inferiore a Forrest Gump, che Jane Foster (Natalie Portman) sia la scienziata meno scientifica e intelligente della storia del cinema e che i cattivi, stavolta, siano talmente brutti e impediti da suscitare tenerezza, sono tutti aspetti che giocano a favore di questa grande commedia dove la filosofia del super-eroe è soltanto un pretesto per ammazzarsi di risate. Londra è poi una città che aggiunge, come location, un tocco di raffinata piacevolezza, facendo finire lo spettatore in un sequel di Notting Hill (non negate di averci pensato, vedendo la Volvo sfrecciare per le strade della capitale inglese...) o in un nuovo capitolo dei diari di Bridget Jones. E cosa dire del vero nemico del film? Questo Aether, un liquido, un fluido, un qualcosa che somiglia molto al vino. Per un attimo, pensiamo di assistere ad uno "spot interno" dove Natalie Portman beve Tavernello con la suocera.
A conti fatti, Thor-The Dark World si segnala davvero come la migliore commedia che Marvel Studios abbia mai messo in cantiere? Indubbiamente: fa ridere di più dei vari Iron Man e più inaspettatamente (visto che il protagonista è comunque un dio del freddo pantheon nordico, serioso e poco incline a farsi una risata), intrattiene il pubblico di qualunque età e farà rotolare in terra grandi e piccini ricorrendo sia ad un umorismo demenziale che ad un british humour meno accessibile. Esperimento riuscito.

SECONDA PARTE
IL FILM SUPEREROISTICO

Iniziamo col diffidare di chiunque parli di un sequel superiore al primo: anche solo per un raffronto fra i due registi (Kenneth Branagh, nel primo, Alan Taylor, nel secondo), il primo Thor è un film. Le  persone che dicono ciò sono poche, è vero, ma sono comunque armate, pericolose e magari scrivono anche su rotocalchi di cinema tipo Ciak o Best Movie. Prendendo Thor-The Dark World come un autorevole film su un super-eroe, si rovina subito la magia venutasi a creare con le battute di Loki. Al di là dell'abbondare di scene inutili con cui la Disney ha riempito il film (su tutte, Chris Hemsworth che si lava), siamo di fronte ad un'opera ruffiana oltremisura, leccaculo come un po' tutti i cinefumetti devono essere (e con tutti intendo tutti), povera nella messa in scena (effetti speciali mediocri, 3D pessimo, fotografia para-televisiva) e anche nelle idee narrative. Datemi pure del reazionario, ma per me, Star Trek, Guerre Stellari e Il signore degli anelli fanno bene a restare dove sono, senza condizionarsi o inquinarsi a vicenda: peccato che Alan Taylor (che magari farà i veri soldi proprio presso la Walt Disney Corp., visto che ha dentro di sè l'innata e apprezzata capacità di chinare la testa di fronte alla produzione) non la pensi così, e che abbia copiato (moltissimo) a man bassa dalla prima e dall'ultima saga, e un po' meno da quella centrale. 
Cosa dice il nerd consumato? <<Il film è una bomba. Bellissimo, spettacolare, grandi effetti speciali che sembrano presi da Star Trek e dal Signore degli anelli. E poi Chris Hemsworth... mmm... con tutti quei muscoli... mmm...>>. 
Cosa dice il nerd meno consumato? <<Il film è brutto, però ha dei finali nascosti clamorosi, che valgono i dieci euro di ingresso al cinema>>. Sono l'unico che si sente preso per il culo da affermazioni simili? Io regalerei dieci euro ad un cinema per vedere un minuto e mezzo con Benicio Del Toro travestito da Morgan? E poi ci si lamenta dei costi alti dei biglietti? 
Cosa dico io? Che per altri sei mesi non voglio vedere film con idioti calzamagliati e finali nascosti.

sabato 23 novembre 2013

[Recensione] Ender's Game

Una micidiale e apparentemente invincibile razza aliena (i Formic, tanto per non smentire la regola dei nomi di merda dati ai cattivi nei film per ragazzi) che ha già arrecato danni ingenti al nostro pianeta sta per tornare all'attacco. Per fortuna che dei cervelloni decidono di addestrare dei giovani, micidiali soldati a combattere questa terribile onta. Nella squadra delle reclute spicca Ender (Asa Butterfield), vanto del suo insegnante Graff (Harrison Ford) e pronto ad accedere al livello successivo, dove verrà addestrato dal "megadirettore galattico" Mazer (Ben Kingsley). 
E' la trama di una trasposizione di Orfani, la nuova serie Bonelli in edicola da soli due mesi di cui si parla tanto, bene e a ragione? No, purtroppo no. E' il soggetto di Ender's Game, kolossal fantascientifico-bellico tratto dall'omonimo, celebre romanzo di Card (qui anche produttore) a cui Roberto Recchioni (sceneggiatore e "babbo" degli Orfani) pure dichiara di essersi ispirato. 
Cominciamo subito col dire che di Ender's Game non si salva niente: nemmeno Ben Kingsley, ridicola fotocopia di se stesso come lo è Harrison Ford (inutile dire a chi vorrebbe tentare di somigliare, visto il ruolo fantascientifico). Non si salva Asa Butterfield, evidentemente "rallevata" male nel post-Hugo Cabret, e non si salvano gli effetti speciali, belli, costosi, vuoti e a tratti anche inutili. Non si salva la regia di Gavin Hood, giustamente allontanato dal cinema dopo X-Men le Origini-Wolverine, un film che veniva a noia già solo a pronunciarne il titolo, e relegato al ruolo di tv-director
Siamo di fronte ad una trasposizione non voluta e di cui non sarebbe fregato niente a nessuno? Affatto: di questo film si parlava già all'uscita del romanzo (nel 1985), e all'epoca Orson Scott Card dovette fondare una sua casa di produzione per difendere i diritti cinematografici del libro e per poter cominciare a lavorare in pace ad una sceneggiatura propria. Sceneggiatura che nel 2003 stava per essere affidata a Wolfgang Petersen (che, pur essendo già in declino, temo che non avrebbe comunque fatto peggio di così), ma che poi fu nuovamente ritirata da Card, riscritta e stravolta, fino ad arrivare alla trasposizione di oggi, voluta, prodotta e sottoscritta dall'autore. 
Siamo di fronte all'avversario cinematografico perfetto di Hunger Games? Anche qui, no, e diffidate di coloro che pensano (forse per ignoranza, forse perchè "ispirati" dal titolo) che si tratti di una risposta al successo- tutto sommato meritatissimo -dei film della Legendary e dei romanzi della Collins.
Siamo di fronte all'inizio di una nuova saga cinematografica? A regola, sì: dal momento che i romanzi del Ciclo di Ender sono sette; tuttavia, c'è già chi parla di sequel proposti esclusivamente come film televisivi.
Anche se il film mi ha fatto schifo, leggerò mai Il gioco di Ender? Certamente sì: anzi, ora più che mai ho la curiosità di leggere almeno il primo romanzo della saga. 
Tanto so che peggio del film non potrà essere.

giovedì 21 novembre 2013

[Recensione] Machete Kills

L'era grindhouse è al tramonto: il genere è stato ucciso da miriadi di pellicole scadenti prodotte con il preciso intento di emulare quelle meglio riuscite (non mi riferisco necessariamente al plurimassacrato L'uomo coi pugni di ferro, che a lungo andare potrebbe finire col risultare una delle migliori del filone). Nulla di male. Anzi, in tutta sincerità mi stavo iniziando a stancare di questa continua e sterile celebrazione del brutto, anche perchè- a forza di vedere solo film brutti -si finisce col perdere di vista quelli belli, e non è di certo un bene, specie in questi tempi di oscurantismo culturale e di trionfo del cattivo gusto (quello vero). Qual'è dunque il mio punto di vista su un certo tipo di cinema? Fate fare questi film solo a chi sa farli bene. Un nome a caso: Robert Rodriguez, che è tornato al cinema col sequel del più bel film d'azione degli ultimi anni.
A questo Machete Kills (già annunciato nei titoli di coda del primo film) si possono rimproverare due gravi assenze: quella di una sceneggiatura e quella delle "puppe" di Lindsay Lohan. Per il resto, è un'opera che non solo ha tutto, ma ha fin troppo di tutto. Dal numero di nemici (che poi sono amici ma che ritorneranno ad essere nemici) alla quantità di arti tagliati, Machete Kills è un film volutamente e simpaticamente esagerato in qualsiasi cosa e che- come già faceva il precedente -non si prende assolutamente sul serio neanche per un istante. E come ogni sequel che si rispetti, amplia anche il raggio di azione del protagonista, stavolta impegnato nel salvare il mondo da Luthor Voz (un Mel Gibson imbecille quasi quanto nella vita reale), uno scienziato pazzo terrorista fissato con Guerre Stellari (anche se, alla fine, è conciato come un cattivo di Flash Gordon). Personaggi ripescati dal primo film ce ne sono, da She (Michelle Rodriguez) a Osiris (il grande Tom Savini, stavolta al servizio della Rete e in cerca di redenzione), dalle infermiere assassine ai rednecks che tengono d'occhio il confine. Ma anche i nuovi arrivati sono tutti finemente caratterizzati: da El Camelèon (interpretato da Walton Goggins, Antonio Banderas, Cuba Gooding Jr. e Lady Gaga) al presidente USA più liberale della storia (Carlos Estevez, che altri non è che Charlie Sheen che ha deciso di "esordire" col suo vero nome), dalla splendida "cerebrolesa che la dà via come il pane" Miss San Antonio (Amber Heard) al bivalente rivoluzonario Mendez (Demiàn Bichir). Inutile non elogiare le straordinarie scene-madri del film: su tutte, quella in cui Machete cavalca il missile atomico come ne Il dottor Stranamore, senza però apparire irrispettoso. Perchè questo è Machete Kills, una pellicola di puro e riuscito intrattenimento. E questo è Danny Trejo: molto più che un attore, è una Faccia, è un Personaggio, è un Carattere, ed è un qualcosa di più grande della vita, del mito, del Cinema. 
Un film che varrebbe, parafrasando Fantozzi, "novantadue minuti di applausi".

P.S.:
Per coloro che volessero godere, posto il trailer del terzo e ultimo film della saga, Machete Kills Again... In Space.

sabato 16 novembre 2013

[Recensione] The Canyons

Paul Schrader: sceneggiatore di Yakuza, Taxi Driver, Toro scatenato, Al di là della vita e regista di American Gigolo, Lo spacciatore e Le due verità. Autore dostoevskijiano nella forma e nei contenuti.
Bret Easton Ellis: scrittore di fama internazionale, autore di Meno di zero, American Psycho, Le regole dell'attrazione, Glamorama, Lunar Park e Imperial Bedrooms. Uno dei pochi casi di romanziere di cui ho letto tutti i libri. Da sempre vicino al cinema, anche solo per le trasposizioni (solitamente efficaci e ben riuscite) dei suoi libri. 
Metteteli insieme e otterrete The Canyons.
Lindsay Lohan: bad-girl hollywoodiana per eccellenza. Carriera avviata da bambina con i classici filmetti per famiglia, proseguita col cinema d'autore (Radio America di Altman) e culminata con un threesome in piscina capitanato da Danny Trejo nel primo Machete.
James Deen: pornodivo ventisettenne, protagonista di oltre mille film, considerato uno dei migliori attori a luci rosse del momento. 
Metteteli insieme e otterrete The Canyons.
Potrei scrivere che siamo davanti ad un brutto thriller camuffato da bel melodramma, con attori che recitano come in una soap-opera (il che non vuol dire "recitare male", ma "recitare diversamente da quanto siamo abituati a vedere normalmente al cinema") e con un quarto d'ora finale mediocre, tirato via e registicamente insulso. Ma non lo farò. 
Non lo farò perchè The Canyons vuol essere ed è di più. 
Schrader è primariamente uno scrittore, uno sceneggiatore, uno che di professione racconta storie: ma stavolta si fa da parte e chiama Ellis, ed Ellis sa e descrive cosa sono le persone, e di conseguenza che cos'è il mondo. Un mondo al capolinea, dove il ricchissimo produttore Christian (Deen) e la sua compagna Tara (Lohan), ex-aspirante attrice "comprata" dal fondo fiduciario del fidanzato, convivono in un villone californiano e passano le giornate a vedere i rispettivi vuoti interiori specchiarsi negli schermi dei loro smartphone. A sera si animano, praticando scambi di coppia e giochi erotici e riprendendosi col cellulare. Nulla può salvarli dalla superficialità, neanche l'amore: Tara, infatti, si frequenta di nascosto con l'ex-fidanzato Ryan (Nolan Funk), ma la sfrenata passione per i soldi trionfa su tutto. Così come lo status aristocratico di Christian non sembra conoscere ostacoli, permettendogli di infrangere qualunque regola morale e sociale e ponendolo, per quanto pazzo e malato, in una dimensione di superiorità assoluta (non a caso, all'inizio, viene definito "il Re"). 
Schrader sceglie degli anti-divi per girare un film anti-cinematografico alla base (la casa di produzione è il sito web Kickstarter): la Lohan è sfatta, distrutta, struccata e disillusa, mentre James Deen buca lo schermo, dimostrandosi perfetto protagonista di una pellicola lontana sia dalla commercialità del melò pre-natalizio e pre-confezionato, sia dal successo più "di settore" dei suoi film pornografici. E immancabilmente, come succede sempre con Ellis, il protagonista ricco ed edonista è il male assoluto, la riprova che il benessere genera mostri. Patrick Bateman ha "ricaricato le batterie" e cambiato nome; lo yuppie assassino si è trasferito da New York a Los Angeles, città dove consuma i propri delitti in maniera ben più subdola, delitti che rimangono comunque impuniti sempre grazie alla classe, alla posizione sociale. Ed è su questo punto che The Canyons è fastidioso: ferisce e dà noia perchè- proprio come nelle pagine di American Psycho -dimostra che il mondo è regolato da meccanismi malvagi a loro volta manovrati da inetti. Peccato che gli inetti, i malati di mente e i delinquenti (Christian) abbiano il potere su chi appartiene alle categorie sociali inferiori (Tara e Ryan). E la colpa di questi ultimi è assistere, passivi, alle malefatte dei malvagi, talvolta amandoli, mettendoseli accanto, divenendone involontariamente complici. Per questo The Canyons è un film quasi carpenteriano e/o romeriano nei contenuti: perchè sin dalle prime battute dà già per scontato che tutto sia finito, morto, estinto e senza speranza. Non è un caso che Tara stia guardando La notte dei morti viventi nel suo schermo piatto quando il film viene "ucciso" da una chat in text-tv. Il cinema, un tempo tanto amato dalla protagonista, è morto, sconfitto dalla rete, esattamente come è venuto meno l'amore (privato ma anche universale) fra uomo e donna, svilito a mero esercizio auto-erotico e ridotto esclusivamente a oggetto di controllo della vita degli altri. Niente schermi, niente proiettori, niente sensazioni: solo i freddi, glaciali cristalli liquidi dei Nokia su cui si sussegue lo spettacolo della messaggistica istantanea. E così la trama di un banalissimo thriller da rotocalco viene filtrata attraverso una finzione che va contro il cinema stesso e che rinuncia a spettacolarizzare qualunque cosa. Anche un omicidio.

venerdì 15 novembre 2013

[Recensione] La vita di Adele

So bene che tutti coloro che volevano vederlo lo avranno già fatto, e di certo questa micro-recensione non è per loro, ma per tutti quelli che non lo hanno visto, che non contano di vederlo e che continueranno a vivere senza averlo visto: liberi di fare ciò che meglio preferite. Anche senza aver visto La vita di Adele (diretto da Abdellatif Kechiche, tratto dal fumetto Il blu è un colore caldo di Julie Maroh e vincitore dell'ultimo Festival di Cannes) continuerete comunque a respirare, mangiare e condurre la vita di sempre. Peccato che vi sarete persi tanto.
Pensavo che (Django Unchained a parte) il 2013 cinematografico non avrebbe visto l'uscita di altri immensi capolavori: mi sbagliavo tremendamente. Perchè La vita di Adele non è solo un capolavoro, ma un film che riempie anche i più reconditi buchi neri dell'anima.

martedì 5 novembre 2013

Verginelli [Trame]

INTRODUZIONE

Trame di novembre è a fumetti. 
Anzi, è un frontespizio e una tavola a fumetti scritta e disegnata da me. Abbiate pazienza, ma mi girava così. 
So che potrebbe sembrare quasi una presa di culo, ma magari sarà l'inizio di una nuova, grande avventura. 
Oppure soltanto l'ennesimo buco nell'acqua.