domenica 28 aprile 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo III) [Trame]


III.
NEL QUALE FACCIO UNA FALSA PARTENZA NEL BEL MONDO
E HO UNA VISIONE NUOVA DELLA GLORIA MILITARE

Per riprendermi un po' dallo stress della giornata, mi fermai a cena ad una locanda alle porte di Chiusi; non avevo scelto a caso quel posto, dal momento che da lì potevo tranquillamente proseguire sia per Arezzo che per Roma. Solo che non resistetti di fronte alla splendida cantina del luogo e finii con lo scolarmi due bottiglie del miglior Brunello; essendo totalmente incapace di guidare e avendo finalmente una discreta quantità di denaro, decisi di fermarmi là per la notte, e quando l'albergatore mi chiese i documenti non ebbi di che preoccuparmi, visto che gli raccontai che ero diretto nella capitale, dove avrei completato i miei studi in Lettere. Vedendo il mio bell'aspetto, la mia camicia pulita di fresco e la valigia che mi portavo appresso, il padrone si prese la libertà di darmi la camera migliore dell'albergo e di spedirmi un'ulteriore bottiglia in camera. Da quelle parti, nessun gentiluomo andava a letto senza una generosa dose di buon liquore sullo stomaco, e vi assicuro che recitai la mia parte alla perfezione. Non sognai la morte di Tobino, come avrebbero fatto molti giovani delinquenti di qualche chiosca mafiosa da due soldi, e del resto non ho mai avuto sciocchi rimorsi dopo qualsiasi partita d'onore.
La mattina, bevvi un caffè senza zucchero, accompagnato da una brioche, e chiesi alla cuoca di prepararmi un panino arrostito, tanto per avere qualcosa da spiluzzicare durante il viaggio; cambiai una delle due banconote da cento che avevo in tasca per pagare il conto, senza dimenticare di dare laute mance a tutti i camerieri, come deve fare un perfetto gentiluomo. Cominciai così il primo giorno della mia vita nel mondo, e così ho continuato. Nessuno è mai stato in ristrettezze peggiori delle mie, e io ho conosciuto talvolta la miseria più nera e la povertà più dura, ma nessuno può dire di me che, se avevo un euro, non fossi generoso e non lo spendessi con la prodigalità di un Lord. Non temevo il futuro: pensavo che un ragazzo delle mie qualità, talento e coraggio, si sarebbe fatto strada ovunque. E poi avevo in tasca un centinaio di euro, somma che (in questo mi sbagliavo) calcolavo sarebbe durata almeno altri tre, quattro giorni; nel frattempo, pensavo a come agire per raggiungere la fortuna. Allo svincolo della superstrada, decisi se riavvicinarmi ad Arezzo e dunque rimanere in Toscana, oppure se dirigermi a sud, verso la capitale. Per scrupolo, contai nuovamente i quattrini, detti un morso al panino arrostito e lo trovai ottimo; ero impavido, ma non incosciente: conoscevo i costi di Roma e sapevo che con le mie risorse sarei sopravissuto forse un paio di giorni. Perciò, decisi di rimanere nel Granducato, fino a quando non avessi trovato una fonte di reddito che mi avrebbe permesso di allontanarmi.
Avevo attraversato ormai tutta la Val di Chiana e mi trovavo nei pressi di Cortona, quando notai una paletta dei carabinieri che mi faceva cenno di accostare. Obbedii e rimasi calmo, spensi la macchina e abbassai il finestrino. L'agente Barbucci (notai subito il nome inciso sulla placchetta di metallo posta sul petto) mi invitò cortesemente ad esibire i miei documenti; seppure andassi di fretta, avevo controllato attentamente che assicurazione e bollo fossero in perfetto ordine. <<Dei ladri hanno assalito un autoblindo sulla strada>>, mi spiegò il carabiniere, <<E dobbiamo aspettare che questa riapra. Lei dov'è diretto?>>.
Avevo bisogno di una grande idea e decisi di sfruttare il delicato momento di politica estera che l'Italia e un po'tutta l'Europa stavano vivendo; spiegai che dovevo sconfinare in Umbria e raggiungere Foligno, dove mi sarei voluto arruolare nella fanteria. Il mio tono convinto e patriottico toccò il cuore del povero Barbucci, che porgendomi i documenti disse: <<E che c'è bisogno di arrivare fino a Foligno? Qui sopra, a Cortona, presso la nostra caserma, ci sono proprio oggi i reclutatori>>.
Ero con le spalle al muro, e ricevetti il colpo di grazia quando l'agente chiamò il suo collega e lo pregò di scortarmi con la moto fino alla caserma del piccolo e bellissimo paese. Ringraziai entrambi i carabinieri e feci il mio ingresso nell'anonima caserma, pensando che, alla fine, poteva andare peggio e che avevo finalmente l'occasione di servire il mio paese e di coronare quel sogno di gioventù che tanto mi aveva fatto invidiare i cari cugini.
Il reclutatore richiese le mie generalità e domandò cosa mi portava ad arruolarmi a Cortona. Gli dissi che, francamente, ero uno studente che, a causa di pesanti perdite economiche, si era visto costretto ad abbandonare gli studi universitari e che riteneva preferibile servire il paese che tornare a casa. Dieci minuti dopo ero arruolato al servizio dello stato italiano e del ministro della Difesa. A nessuno poteva venire in mente che un volontario fosse là per sfuggire alla legge dopo aver ucciso in duello un ufficiale pugliese. Inoltre, il Cavaliere aveva troppo bisogno di uomini per badare alla loro provenienza, e un individuo della mia statura, disse il sergente, era sempre il benvenuto. Una camionetta portò me e i miei commilitoni fino alla stazione ferroviaria più vicina, e da lì un treno speciale ci condusse al campo di addestramento di Caserta, in Campania.
Non ho mai provato altro piacere al di fuori di quello di una buona compagnia e odio tutte le descrizioni di una vita mediocre. In conseguenza, il racconto relativo all'ambiente in cui ero venuto a trovarmi allora deve essere breve; e il suo stesso ricordo mi è profondamente sgradevole. Il pensiero di quell'orribile buco nero in cui eravamo confinati noialtri soldati, delle disgraziate creature di cui ero costretto a subire la compagnia, dei villani, dei vagabondi, dei delinquenti che avevano cercato nel servizio militare un rifugio contro la miseria e la legge (come, in sostanza, avevo fatto anch'io), è sufficiente a farmi vergognare di me stesso anche ora, e mi sale il rossore sulle guance quando penso che sono stato costretto a restare non poco tempo in una simile compagnia. Mi sarei dato alla disperazione, se non che, per fortuna, accaddero alcuni eventi che mi sollevarono lo spirito e mi consolarono, in un certo modo, delle mie sventure.
La prima delle consolazioni che provai fu una bella lite, avvenuta il giorno dopo il mio arrivo a Caserta, con un grosso individuo dai capelli rossi, un vero mostro siculo, un bagnino di San Vito Lo Capo ora arruolatosi per sfuggire ad una moglie litigiosa, la quale, per quanto egli fosse un pugile, era sempre stata per lui un avversario difficile. Non appena questo individuo -mi ricordo che si chiamava Russo- era sfuggito dalle mani della lavandaia sua consorte, gli si erano risvegliati il coraggio e l'orgoglio tipici di ogni “picciotto”, ed era divenuto il tiranno di tutti coloro che gli stavano attorno. Tutte le reclute, specialmente, erano oggetto dei suoi insulti brutali e dei suoi maltrattamenti. Io non avevo soldi, come ho detto, e stavo seduto con aria molto sconsolata davanti ad un piatto di prosciutto rancido e di pane secco, che ci era stato distribuito alla mensa, quando venne il mio turno di servirmi da bere, e mi venne messo davanti, come agli altri del resto, un bicchiere ancora sporco di sapone, che conteneva un po'di vino rosso allungato con acqua frizzante. Il recipiente era tanto unto che non potei fare a meno di rivolgermi all'uomo che distribuiva il pranzo e dirgli: <<Scusa, posso avere un altro bicchiere? Questo qui è sporco...>>.
A queste parole tutti i mascalzoni che mi stavano attorno diedero uno scoppio di risa, scambiandosi battute in dialetto (cosa ancor più fastidiosa e disprezzabile), ma più forte di tutti sghignazzava, naturalmente, il signor Russo. <<Portate al picciotto un tovagliolo per le mani e una scodella di zuppa di tartaruga!>>, gridava quel barile di passito di Pantelleria, che stava semisdraiato sulla panca di fronte a me; e mentre diceva questo, si alzò, prese il mio bicchiere e lo vuotò in un solo sorso, fra gli applausi degli altri.
<<Se lo vuoi far arrabbiare, sfottilo a proposito di sua moglie, che lo tratta male>>, bisbigliò senza dare nell'occhio il mio compagno di tavolo, un commerciante di Udine costretto ad arruolarsi e, come me, infastidito da quella sovrabbondanza di esuberanti meridionali.
<<E'un tovagliolo lavato da tua moglie, signor Russo? Dicono che spesso ti asciuga la faccia con uno di quelli!>>, dissi marcando moltissimo il mio accento da toscanaccio.
<<Sfottilo anche perché non ha voluto vederla ieri, quando è venuta al campo>>, aggiunse il mio commilitone, e così feci, aggiungendo particolari sbellicanti fino a che Russo non balzò in piedi e, afferrata una sedia, non minacciò di tirarmela addosso. Un paio di sottoufficiali arrivò a fermarci, ma fu il sergente maggiore D'Angelo, nostro capo istruttore, a dichiarare amabilmente che, se lo preferivamo, potevamo batterci a pugni, da veri uomini. Ma l'uso della lotta libera sembrava non essere contemplato nel profondo sud, e così venne stabilito, cause di forza maggiore, che ci saremmo battuti con un paio di pesanti bastoni di olivo, imitando e volgarizzando ciò che nella terra del Sol Levante risulta essere il millenario sport del kendo; sebbene per me fosse una completa novità, con una di queste rustiche armi finii quel prepotente e losco bagnino in quattro minuti, poiché gli diedi su quella testa malata un colpo tale che lo lasciò privo di sensi sul cortile del campo di addestramento, senza che io ricevessi in cambio neanche un livido.
Questa vittoria sul “picciotto” mi fece guadagnare il rispetto di quella compagnia di malavitosi di cui ormai anch'io facevo parte, ma la mia posizione nell'ambiente militare divenne presto più sopportabile in conseguenza dell'arrivo di un vecchio amico. Questi non era altri che il mio padrino nel fatale duello che mi aveva lanciato tanto presto nel mondo: il capitano Magnini.
Quando arrivò l'Iveco con a bordo il nostro capitano, cercai di apparire nella migliore delle forme al momento del saluto militare, e sobbalzai arrossendo, quando egli riconobbe me -un discendente dei Bellini- in quella umiliante posizione; e io vi posso assicurare che la comparsa del volto di Magnini mi fu molto gradita, perchè ero sicuro che avevo vicino a me un amico.
Il capitano con un'occhiata mostrò di avermi riconosciuto, ma non dette di questo fatto alcuna dimostrazione pubblica; solo due giorni dopo, quando un aereo ci stava trasportando verso l'Iraq, mi chiamò nella cabina di pilotaggio, e dopo avermi stretto la mano con grande cordialità, di fronte ai taciturni piloti, mi diede notizie della mia famiglia, che molto desideravo. <<Ho cercato di sapere di te ad Arezzo>>, mi disse, <<E, in fede mia, non hai avuto tutti i torti a cambiare destinazione di viaggio. Anzi, credo che non avresti potuto fare di meglio di quello che hai fatto. Ma perché non hai mai scritto o telefonato a casa, alla tua povera mamma? Ti ha mandato non so quanti sms, credendoti ad Arezzo e dintorni>>.
Gli dissi che avevo perso il cellulare giocandolo a carte (in realtà, lo avevo smarrito appena arrivato a Cortona) e tagliai corto.
<<Possiamo scriverle adesso, grazie al nostro pilota>>, proseguì, <<Tra due ore sarai in Iraq e magari a tua madre farà piacere saperti salvo e sotto le armi>>. Non mi andava di parlare di mia mamma e cambiai bruscamente argomento.
<<Laila sta bene?>>, chiesi con un lieve tremolio di voce.
<<La povera Laila...>>sospirò Magnini, al che io pensai che fosse morta per il dolore della mia fuga e per la nostalgia provata nei miei confronti.
<<Oddio! Che le è successo, capitano?>>.
<<Era così addolorata dalla tua rocambolesca partenza, che trovò consolazione in un marito. Adesso Laila è la moglie di Eugenio Tobino>>.
<<Come Tobino? Esisteva un altro Eugenio Tobino?>>, chiesi io, sbalordito per la notizia.
<<No, caro mio, è lo stesso. La pistola con la quale gli hai sparato era caricata a salve. Credevi che Remo, ma anche i cittadini di Agrestone, si volessero far sfuggire una rendita di centocinquantamila euro l'anno?>>.
E quindi Magnini mi disse che per mandarmi fuori dai piedi- poiché il vile capitano pugliese non avrebbe mai consentito al matrimonio per paura del sottoscritto –avevano combinato il piano del finto duello. <<<Ma tu l’hai colpito in pieno, Sbellu, con bel proiettile a salve, e quel ficoso si è cacato tanto in mano che ci è voluta un’ora prima che si riprendesse!>>.
Confesso che fui molto sollevato al pensiero di non averlo ucciso, ma ciò non bastava a togliermi dalla testa la codardia di quell’uomo e il subdolo tranello messo in atto per me. <<<E la famiglia di Remo, una delle più antiche e onorevoli al mondo, ha acconsentito a prendersi in casa un vigliacco simile?>>.
Magnini rise, dette un sorso ad una bottiglietta di acqua minerale e scosse la testa. <<Hai bisogno di qualche soldo, caro? Ho un centinaio di euro vinto a carte stamani, e finché camperò non sarai mai al verde>>.
Benché sia stato chiamato capitano Bellini per molti anni della mia vita e sia stato conosciuto con tale titolo dalle maggiori personalità d’Europa, debbo confessare che non ho più diritto a tale qualifica dalla maggior parte dei gentiluomini che l’assumono, e che non ho mai avuto diritto ad alcun grado militare più elevato che quello dei galloni del più modesto caporale. Venni nominato caporale da Magnini durante il nostro viaggio verso l’altopiano iracheno e il mio grado venne confermato anche al campo base dei nostri alleati. Mi era stato promesso il grado di sergente e forse anche quello di tenente, se mi fossi distinto, ma il destino non volle che restassi un soldato italiano a lungo, come si vedrà presto. Incoraggiato ed esortato dal mio buon amico capitano, facevo il mio servizio con grande zelo; ma benché fossi gentile e mi mostrassi di buon carattere con i miei commilitoni, non potei mai consentire a fare amicizia con simili volgari individui, e del resto venivo di solito chiamato da loro il Principe. Credo che tale soprannome l’avesse trovato un traduttore e interprete di Velletri, un farabutto che per primo mi aveva dato questo titolo; e io sentii, guarda caso, di meritare quella distinzione con lo stesso diritto di un qualunque Principe del regno.
Ci vorrebbe un grande storico e filosofo per esporre le cause della Guerra in Iraq in cui erano impegnati gli Stati Uniti e diverse nazioni d’Europa; del resto, la sua origine mi è sembrata sempre molto complicata, e i libri scritti su tale argomento tanto difficili e oscuri che di rado ho capito qualche cosa di più dei titoli degli stessi capitoli; in conseguenza, farò grazia al lettore di ogni disquisizione mia personale sull’argomento.
A Falluja presi parte alla mia prima battaglia; sinceramente, vi fu ben poco di eroico quel giorno ed entrambe le parti ne dettero e ne presero. Non posso, tuttavia, fare a meno di dire che feci una conoscenza molto intima col colonnello Ibn-Amar, perché gli ficcai nello stomaco un proiettile, e feci fuori anche un giovanissimo magrebino, neanche maggiorenne. Uccisi, oltre a questi, altri quattro ribelli, e nella tasca di un barbuto soldato trovai una borsa con quattrocento dollari e un pacchetto di sigarette francesi; il primo di questi regali mi fu molto gradito. Tutto quello che so della battaglia di Falluja (salvo quello che ho imparato dai libri di storia e dalla cronaca giornalistica) è detto qui sopra. Le sigarette del barbuto e la sua borsa piena di dollari; la faccia livida del povero Ibn-Amar mentre mi cadeva davanti; le grida dei miei compagni mentre sparavo nel mucchio; le loro grida e le loro bestemmie quando il fuoco si fece più intenso e il numero di ribelli sembrava superare non di poco il nostro; sono, in realtà, ricordi molto poco degni, su cui è meglio sorvolare rapidamente. Quando il mio buon amico Magnini cadde, colpito dalle schegge di un mortaio, un suo collega capitano e caro amico si volse verso il tenente Moratti e disse: <<Magnini è andato; ecco la tua compagnia, Moratti!>>.
Fu questo l’epitaffio per quel grand’uomo di Magnini, mio amico e protettore. <<Avrei voluto lasciarti quei cento euro famosi, Sbellu>>, mi disse, <<Ma ho avuto sfiga ieri sera a carte e ho perso tutto>>. Furono le ultime parole che mi rivolse.
Quando tornai, neanche cinque minuti dopo, con il medico del reggimento, era già morto e qualcuno (dei nostri, si intende) gli aveva rubato i gradi e il portafogli, oltre ad un anello di scarso valore che portava all’indice della mano sinistra. Come divengono mascalzoni e cattivi gli uomini in guerra! È bello per i gentiluomini parlare dell’età della cavalleria, ma pensate ai contadini, agli ignoranti, ai ladri, agli assassini: è con uomini dediti solo alla sbornia, all’omicidio e al saccheggio che i grandi politici e i re hanno fatto il loro sporco lavoro nel mondo.





Ogni tanto, una buona notizia [Suggestioni uditive]

Per un anno della mia vita ho abitato a Firenze.
Avrebbe dovuto essere un grande anno, ma alla fine è risultato essere il peggiore mai vissuto finora. Non è stata colpa della città (con la quale continuo ad avere un buon rapporto e dove sono tornato, nel 2012, proprio per i miei studi alla Scuola Internazionale di Comics), ma mia: dall'Università alle donne, dai film visti al cinema ai libri letti, sbagliai proprio tutto quell'anno. Commisi anche l'errore di andare per locali, alla ricerca di artisti misteriosi e di una fantomatica musica udibile dall'ora dell'aperitivo fino a tarda notte che pareva non essere utilizzata esclusivamente come sottofondo dei pettegolezzi "pottini" (che per quanto "pottini" restano pur sempre pettegolezzi) o dello smodato consumo di alcool. 
Il d.j. e produttore milanese Aquadrop
Da quell'anno, complici tecnologie sempre più raffinate, ho smesso definitivamente di uscire di casa di proposito per recarmi a sentire quel <<d.j. emergente che suona in quel piccolo bar o in quel circolo e lo fa per un uditorio realmente interessato a lui>>: queste cose non esistono, e forse non sono mai esistite. Adesso, in compenso, la musica inedita la cerco in rete, grazie a Soundcloud o LastFM, e spesso finisco col fare ottime scoperte: ma- ironia della sorte -le ottime scoperte non sono mai italiane. Infatti, se proprio volessi farmi del male e ascoltare musica pseudo-rock su Soundcloud, mi troverei davanti a stormi di tribute band di Ligabue, a cantautori politicizzati che non sanno neanche votare, a collettivi di rapper socialmente impegnati che dopo venticinque anni non demordono, a gruppetti indie usciti da qualche oratorio della Bassa. Sul panorama elettronico non siamo messi molto meglio in quanto a "emergenti", tant'è che paesi da noi tanto snobbati come Uruguay e Estonia vantano talenti che neanche possiamo immaginare. 
Potete dunque immaginare la mia sorpresa quando mi sono imbattuto in Aquadrop, produttore e d.j. milanese che ha all'attivo già svariati album, EP e remix di artisti più o meno famosi. Partendo da esperienze vicine al trip-hop (ha collaborato con autori della Ninja Tune) e all'ambient (è stato sound-designer per Discovery Channel, Diesel, Good Year, Channel 4, Mtv USA, ecc.), è approdato alla dub con un'originalità e una classe cui pochi altri artisti nostrani ci hanno abituati. Il recente Yesom è una prova tangibile della bravura di Aquadrop, sospeso fra il surrealismo sonoro (sulla copertina la citazione magrittiana è evidente) e rimandi che arrivano fino all'hip-hop di periferia. Sebbene elogiato dai più famosi colleghi Crookers, Mau5trap, Todd Edwards, Aquadrop preferisce starsene in disparte, preferendo l'emittente BBC1 a Radio 105 o M2O, locali come Fabric o Ministry Of Sound ai vari Cocoricò e Capannina, un'identità da artista internazionale meno famoso a quella di lamentevole autore sconosciuto in questo Belpaese.

Copertina di Yenom (ESP Records, 2013)

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo II) [Trame]


II.
NEL QUALE DIMOSTRO DI ESSERE UNA PERSONA DI SPIRITO

<<Ti consiglio di lasciare la signorina a se stessa, e stai certo che tornerà presto in sé>>, mi disse Daniele, dimostrando di saper conoscere abbastanza il mondo e le donne; infatti, dopo di allora, ho visto che molte donne tornavano in sé nella medesima maniera.
<<Chi di noi deve sfidare il capitano Tobino?>>, dissi a mio cugino; perchè era la prima volta che avevo una questione d'onore e ne ero orgoglioso come uno studente che si laurea con il massimo dei voti.
<<Vai a fare in culo, cittino impiccione! Ti fai sempre gli affari degli altri. Cosa te ne importava di venire qui a fare scenate e litigiare con un gentiluomo che mette insieme centocinquantamila euro l'anno?>>, tuonò mio cugino. Poi si calmò e, reputandosi uomo di esperienza, tentò senza alcun risultato di darmi alcune dritte in campo amoroso. Ma chi è innamorato (o almeno crede di esserlo) ascolta mai i buoni consigli? Io non li ho mai seguiti e così dissi chiaramente a Daniele che Tobino avrebbe dovuto vedersela con me prima di sposarla.
<<In fede mia>>, disse Daniele, <<credo che sei un ragazzo in grado di mantenere la parola>>. Mi guardò fisso per un secondo o due e poi andò via anche lui, fischiettando un motivetto; vidi che si voltava a guardarmi, mentre passava attraverso il vecchio cancello del giardino.
La campana del pranzo della domenica di casa di Laila mi distolse dai miei rovinosi pensieri. Ricordai allora che ero stato invitato, assieme ai miei cugini soldati, e che dovevo affrettarmi; attraversai i locali della servitù, vidi quell'odioso attendente del capitano in giubba mimetica che si dava da fare con le sguattere e le cuoche. <<Signor Bellini>>, mi disse una delle ragazze, <<Accomodatevi in sala da pranzo; è già arrivato il filetto di vitello>>.
Entrai e presi il mio posto in fondo alla grande tavola, mentre un mio amico maggiordomo mi portava rapidamente un coperto.
<<Ciao Sbelluccio!>>, disse Remo.
<<Avrebbe fatto meglio a starsene a casa con sua madre!>>, brontolò sua moglie.
<<Non badare a lei>>, replicò il padrone di casa ammiccandomi. <<L'oca fredda che ha mangiato a colazione le è rimasta sullo stomaco. Prendi un bicchierino di liquore>>, e, alzato il prosecco al cielo, mi dedicò un brindisi.
Era evidente che non aveva molto ben capito quanto era successo in giardino poco prima; ma Daniele, Gabriele e quasi tutte le ragazze sembravano molto di cattivo umore, e il capitano era stupefatto. Laila, di nuovo al suo fianco, era pronta a piangere. Il simpatico capitano Magnini era seduto e sorrideva; io lo guardavo, freddo come una pietra. Durante il pranzo mi pareva di soffocare, ma ero deciso di fare buon viso a cattivo gioco, e quando la tovaglia venne tolta riempii il bicchiere col vino rimasto e brindammo al re e all'esercito, come debbono fare dei veri gentiluomini. Remo era di ottimo umore e iniziai a supporre che vi fosse stata una conciliazione tra l'infedele ragazza e il suo innamorato, dopo che erano rientrati in casa. Seppi la verità molto presto.
Il capofamiglia si schiarì la voce e si alzò in piedi, battendo tre volte la forchetta su uno dei tre bicchieri che stavano di fronte a lui: <<Signore e signori, abbiate la cortesia di aspettare; questo è un brindisi che si beve troppo raramente nella mia famiglia e vi prego di accoglierlo con tutti gli onori. Salute al capitano e alla signora Tobino, e lunga vita a loro!>>.
Mio cugino Gabriele non riuscì a trattenermi, sbalzai in piedi e gridai: <<Ecco come bevo alla sua salute, capitano Tobino!>>, e gli gettai in faccia il bicchiere di spumante.
Le signore furono fatte uscire dalla sala e Remo pregò la scorbutica moglie e le cognate, tre zitelle patentate, di condurre nel parco i bambini; poi, dopo che ogni porta fu chiusa e le urla si poterono sentire sempre più lontane, guardai la faccia del militare: il naso del capitano sanguinava generosamente e sul setto nasale stava un bel taglio, così che sperai di aver rovinato per sempre la sua già scarsa bellezza.
<<Cosa diamine significa questa storia?>>, esplose Remo, paonazzo in volto.
Fu mio cugino Gabriele a rimanere calmo e parlare, mentre suo fratello tentava di medicare, in maniera assai poco ortodossa e garbata, la ferita del povero Tobino. <<Il fatto è, Remo, che questo scimmiotto si è innamorato di Laila e, trovandola con il capitano in dolci colloqui oggi in giardino, adesso è impazzito e lo vuole ammazzare>>. Una spiegazione rapida, ma rispecchiava perfettamente la verità.
<<Gliela dico io una cosa, signor Remo>>, gridò Tobino che aveva smesso di sanguinare ed era balzato in piedi,<<Sono stato davvero insultato in questa casa. Non sono per niente contento per come procedono le cose. Sono un uomo del sud, cazzo, un uomo come si deve. E io...>>.
<<Signor Tobino>>, dissi io col tono di voce più dignitoso che riuscii ad assumere, <<potete avere soddisfazione in qualsiasi momento vi piaccia, rivolgendovi a Sbelluccio Bellini, signore dell'Agrestone>>, al che me ne andai dalla sala da pranzo, raccolsi il mio impermeabile sgualcito nell'atrio e lasciai la casa.
Passarono quasi tre minuti prima che notassi la buffa e goffa figura del capitano Magnini inseguirmi. Come ho già avuto modo di sottolineare, quell'ufficiale dalla cadenza piemontese mi rimaneva simpatico, ed è per questo che decisi di fermarmi ad aspettarlo.
<<Hai fatto proprio un bel lavoro, caro>>, mi disse, <<Te, amico di famiglia di Remo, sai che quel brav'uomo si trova in gravi imbarazzi finanziari, e cerchi di mandare a monte un matrimonio che porterebbe alla famiglia una rendita di centocinquantamila euro? Tobino poi ha anche promesso di pagare quei quarantamila euro che tanto imbarazzano Remo. Il capitano si prende una ragazza senza un quattrino, una borghesuccia non più bella della vacca che sta nella stalla della tua fattoria. Almeno secondo i miei gusti. Laila ha cercato di farsi sposare da tutti in questo paese, senza riuscirci mai. E te, povero più di lei, un adolescente che sostiene di essere affezionato alla famiglia oltre che alla ragazza, ricambi così la generosità di questa gente? Non vi ha aiutati proprio Remo, a te e tua madre, quando morì tuo padre, nell'arredare la vostra casa di Agrestone, senza chiedervi un soldo? E ora, nel momento in cui tutti i suoi affari sembravano mettersi a posto e gli si offriva la possibilità di passare comodamente la vecchiaia, chi si mette a rompere le scatole? Un vicino di casa che ama la figlia e che tra tutti al mondo ha più obblighi verso di lui. È un modo di agire ingrato, immorale, specie se ci si proclama tanto coraggiosi come fai tu>>.
L'ultima parte della ramanzina mi aveva piuttosto scosso e, non dando il minimo peso alla differenza di età e di posizione sociale fra me e il capitano Magnini, soggiunsi: <<Non ho paura di nessuno al mondo, capitano! Dico solo che sono io l'offeso, e che nessuno, da quando è cominciato il mondo, è stato trattato così. Lei, signore, fa bene a parlare di immoralità e di mancata gratitudine, ma si ricordi che io mi batterò con qualsiasi persona vada a rompere le palle a Laila. Lo inseguirò, fosse anche dentro ad una chiesa, e lo sfiderò perfino lì!>>.
Dissi tutto questo perchè in quel momento ero molto eccitato e perchè le mie letture, in quel periodo, riguardavano solitamente argomenti di cavalleria e simili. Magnini mi fissò per qualche secondo, con aria sorpresa e quasi divertita. Vedevo uno sguardo di solenne solarità sul volto di quell'uomo. <<Sei uno dei ragazzi più incredibilmente focosi che io conosca>>, mi disse. Trattenni un sorriso e, freddamente, replicai: <<Glielo porterà lei il mio cartello di sfida? Organizzerà lei con i miei cugini il duello?>>.
<<Se proprio si deve fare, si farà>>, concluse il buon capitano Magnini.
Ad Agrestone, quella sera, io e mia madre avemmo l'onore di ospitare a cena il capitano, che si era accordato, per telefono, sia con Tobino che con il suo padrino del duello. Aveva portato una bottiglia di vino rosso delle sue parti e il dono fu molto gradito; nel soprabito teneva un vecchio volume di regole del duello, stampato a partire dalla prima metà del Settecento, quando i miei valorosi antenati erano soliti sfidare anche due o tre persone al giorno. Avevo deciso che mia madre non ne dovesse sapere nulla, e l'ufficiale nostro ospite rispettò con grandissimo impegno la mia volontà. Dopocena ci accomodammo nel salone e chiesi alla mia brava mamma di lasciarci da soli. Pianificammo tutto, sfruttando il cellulare di Magnini e un suo portatile antidiluviano; l'arma proposta da Tobino fu la pistola, ma non la Beretta che aveva estratto quella mattina durante il nostro litigio in giardino, bensì un più classico Revolver; io accettai subito quella condizione. I padrini stabilirono il luogo del duello e l'orario.
Ho spesso pensato, dopo di allora, quanto avrebbe potuto essere così diverso il mio destino se non mi fossi innamorato di Laila e non avessi gettato il vino in faccia al capitano Tobino; ma la mia sorte era quella di vagare, e il mio diverbio con Tobino mi lanciò sulla via dei viaggi in giovanissima età, come presto avrete occasione di sentire.
Il duello era stato fissato per le undici e trenta al vecchio campo dei preti; era un pezzetto di terra affacciato sul fiume Elsa, anticamente appartenuto ad una confraternita di frati che lo sfruttavano soprattutto nei momenti di svago; il centro abitato più vicino sorgeva a quaranta minuti di strada e per raggiungerlo si dovevano percorrere gli ultimi metri a piedi, essendo l'unico sentiero stretto per qualsiasi tipo di fuoristrada. Lasciai un biglietto a mia madre sul quale scrissi semplicemente: Non ti preoccupare, mamma.
I miei vestiti erano stati lavati e stirati la stessa mattina e li indossai con orgoglio, assicurandomi di stringere bene la cintura attorno ai pantaloni di velluto a coste. Sulla tavola di cucina trovai del pollo freddo, un caffè forte e un bicchiere di grappa posati su un vassoio di argento, sul quale era inciso lo stemma dei Bellini. Alle dieci e un quarto arrivò Magnini su un Land Rover, seguito da un soldato semplice che avrà avuto sì e no la mia età. Montai in macchina con loro e nessuno osò proferire parola, finchè non fummo arrivati, quaranta minuti dopo, al campo dei preti.
Mentre sotto un piacevole sole autunnale lucidavo il Revolver che mi era stato dato da mio cugino Daniele, il capitano Magnini si rivolse a me quasi sottovoce: <<Attenzione, Sbelluccio. Questo è un brutto affare. La ragazza sposerà Tobino, te ne do la mia parola; e puoi stare altrettanto tranquillo che la dimenticherai presto. Sei solo un ragazzo e il capitano Tobino è disposto a considerarti tale>>, poi si voltò verso lo sfidato e alzò tono di voce, <<Arezzo è una bella città, e se hai voglia di farti un'oretta e mezza di macchina per arrivare fin là e passarci un mesetto, ecco duemila euro a tua disposizione. Ti penti, fai le scuse al capitano ed è fatta>>.
Sbottai: <<Io muoio prima di pentirmi, non chiedo affatto scusa e, comunque, il capitano può andare a quel paese prima che io vada ad Arezzo>>.
<<Allora, non resta altro che battersi>>, concluse Gabriele, che pure ci aveva accompagnati.
Tobino si sistemò la sua divisa sfolgorante e tolse il basco, scambiando qualche battuta di spirito con i miei cugini, le cui risate mi scossero non poco, visto che rischiavano di assistere alla morte di un loro parente. Poi calò la serietà, Gabriele mi porse il Revolver e altrettanto fece Daniele con il capitano; mio cugino, da bravo soldato e tiratore scelto, mi consigliò di tenere d'occhio il colletto aperto della camicia di Tobino, invitandomi a mirare là.
I tre si allontanarono e noi ci sistemammo dieci passi lontani l'uno dall'altro. Fu Gabriele a dare il segnale di caricare le pistole e di prendere la mira; ebbi meno di dieci secondi per prendere di mira il mio uomo. Al <<tre>> le nostre pistole spararono in contemporanea, io udii qualcosa fischiarmi vicino e un attimo dopo il mio avversario cadde a terra, lanciando un urlo sordo che non lasciava dubbi a nessuno dei presenti. Io non abbandonai la mia posizione fin quando Magnini non ebbe detto <<E'morto>>. Mi avvicinai al cadavere del capitano Tobino e vidi una chiazza rossa che gli aveva inondato collo e petto; lo avevo colpito di poco al di sotto della trachea, aiutato dal colletto dell'uniforme imprudentemente lasciato aperto. Magnini si tolse il basco e i miei cugini si segnarono. Daniele mi fissò negli occhi e disse: <<Oggi è stato un triste giorno per il nostro esercito, Sbelluccio Bellini; e hai derubato un'onesta famiglia di centocinquantamila euro l'anno. Ora vedi di levarti di mezzo prima che arrivi la polizia. Avrai sì e no un'ora di vantaggio su di loro>>.
Gabriele disse che sarebbe venuto via con me, e montammo sul suo Pajero vecchio e trasandato, guidando velocemente fino a casa mia.
Mia mamma fu orgogliosa di apprendere da mio cugino quanto nobile e cavalleresco era stato il mio comportamento durante il duello. A pranzo, fu proprio Gabriele ad insistere sul fatto che mi sarei dovuto andare a nascondere ad Arezzo finché la faccenda non si fosse sistemata. D'altro canto, mia madre chiese perché non avrei potuto essere altrettanto sicuro ad Agrestone, se gli sbirri non venivano mai da noi. Gabriele insistette sulla necessità della mia immediata partenza, tirando fuori il lessico giuridico appreso all'Università, e in questo argomento, debbo confessarlo, stavo dalla sua parte, tanto ero desideroso di vedere un po' di mondo. Così, la mia buona madre fu costretta ad accedere al punto di vista di mio cugino. Quanto poco conoscevamo ciò che il destino teneva in serbo per me.
Mi furono messi nel portafoglio duecento euro (mamma ne aveva, in tutto, duecentoventicinque!), mi preparò un borsone da viaggio con tutto ciò che mi sarebbe potuto servire, e, appena mezz'ora dopo il mio arrivo ad Agrestone, ero di nuovo sulla strada e tutto il mondo si apriva davanti a me. Non c'è bisogno che io dica quanto mia madre, Gabriele e i domestici piangessero alla mia partenza: ma nessun ragazzo si sente molto triste quando solo e lontano da casa, con duecento euro in tasca, gode per la prima volta della libertà. E io, lo confesso, non pensavo tanto alla mia cara mamma, alla casa che lasciavo e a tutti i problemi alle mie spalle, quanto al domani e a tutte le meraviglie che mi avrebbe portato.


sabato 27 aprile 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo I) [Trame]

PREMESSA

La rubrica Trame è in anticipo di alcuni giorni, è vero. Ma c'è un motivo.
Una finta autobiografia che si ispirasse, anzi che ricalcasse i grandi romanzi di formazione inglesi e tedeschi del Settecento e Ottocento.
Non a caso, è un voluto plagio de Le memorie di Barry Lyndon di Tackeray.
12 capitoli e un grande divertimento nello scrivere unendo fantasia, realtà, belle copie di vita, brutte copie dell'arte.
Come nella migliore tradizione dei romanzi d'appendice, non pubblicherò questa autobiografia tutta insieme, ma un capitolo alla volta, anche se devo ancora decidere la cadenza. Ci penserò.
Nel frattempo, buona lettura.


LE MEMORIE DI
SBELLUCCIO BELLINI
GENTILUOMO DEL REGNO D'ITALIA

IL CUI CONTENUTO CONCERNE:

IL RACCONTO DELLE SUE AVVENTURE STRAORDINARIE;
LE SVENTURE; LE SOFFERENZE AL SERVIZIO DI SUA SIGNORIA
IL DEFUNTO CAVALIERE; I SOGGIORNI IN DIVERSE CORTI EUROPEE;
IN TOSCANA E IN ITALIA; E LE MOLTE PERSECUZIONI,
COMPLOTTTI E CALUNNIE DI ESTREMA CRUDELTA' DI CUI FU VITTIMA.


I.
LE MIE ORIGINI E LA MIA FAMIGLIA.
SUBISCO L'INFLUSSO DI UNA TENERA PASSIONE

Dai tempi di Adamo in poi, si può dire che non vi sia mai stato al mondo un guaio in cui non fosse implicata una donna. E da quando ha avuto origine la nostra famiglia (e deve essere stato molto vicino ai tempi di Adamo- tanto antichi, nobili e illustri sono i Bellini, come ognuno sa) le donne hanno avuto una parte importante nei destini della nostra razza.
Immagino che non vi sia in tutta Europa alcun gentiluomo che non abbia sentito nominare la casata dei Bellini di Toscana, nel regno d'Italia, poiché nessun nome altrettanto famoso si può trovare nel Triveneto o nel Mezzogiorno; e benchè da uomo di mondo io abbia imparato a disprezzare con tutta l'anima i vantati diritti a un'altra nobiltà di pretendenti che non hanno una genealogia più illustre di quella del lacchè che mi lucida gli stivali, e benchè derida col maggior dileggio le spacconate di molti dei miei concittadini, che discendono tutti dalle signorie del Granducato e parlano di un pezzetto di terra (su cui potrebbe a malapena vivere un porco) come di un feudo; pure la verità mi costringe a dichiarare che la mia famiglia era la più nobile della penisola e forse dell'universo mondo. E d'altra parte i nostri possedimenti, ora insignificanti, a noi sottratti dalla guerra, dal tradimento, dal trascorrere del tempo, dalla bizzarria degli antenati, dalla fedeltà dell'antica fede e all'antico monarca, una volta erano immensi e abbracciavano molti borghi, in un tempo in cui l'Italia era molto più ricca e prospera di ora.
Avrei potuto anche porre la corona medicea sul mio stemma gentilizio, ma troppi sono gli sciocchi pretendenti a questa distinzione che già la portano e l'hanno resa comune. Forse, chissà, se non ci fosse stata di mezzo una donna oggi la corona avrei potuto portarla io. Se vi fosse stato un condottiero valoroso a guidare i miei concittadini invece di quei queruli buffoni che piegarono il ginocchio dinanzi ai Savoia, essi avrebbero potuto rimanere uomini liberi; e se vi fosse stato un capo risoluto per affrontare quel mascalzone assassino di Benito Mussolini, avremmo potuto cacciare i forestieri una volta per sempre. Ma non vi era alcun Bellini in campo contro Vittorio Emanuele e al tempo del Ventennio era troppo tardi per levare il grido di guerra contro il Duce.
Non eravamo più principi della terra; la nostra infelice razza aveva perduto i suoi possedimenti un secolo prima, in conseguenza del più vergognoso tradimento. Conosco bene il fatto, poiché mia madre me ne ha spesso raccontato la storia e per di più ha compilato un albero genealogico in ricamo di lana che ha appeso nel salone giallo dell'Agrestone, dove abitiamo. Questo è il solo feudo che i Bellini posseggano ora in Italia e fu un tempo proprietà dei miei antenati. Lorenzo Bellini di Castello lo possedeva fin dal tempo di Cosimo de'Medici. I Bellini, in quel tempo, erano sempre in lotta con i pisani Cappelli e una donna del mio casato, la figlia del buon Lorenzo, era innamorata del giovane marchese Cappelli: quest'ultimo, seguito dai suoi familiari, guidò il massacro e fece a pezzi il mio antenato Lorenzo Bellini. L'odioso macello ebbe luogo al crocevia della Madonnina di Coneo, presso Boscona. Il Cappelli sposò la figlia di Lorenzo e pretese il feudo che egli lasciò; e benchè i discendenti di Lorenzo fossero vivi e si continuino nella mia persona, nella causa di fronte ai tribunali del Granducato di Toscana il feudo venne concesso al pisano, come è sempre avvenuto in tutti i processi in cui fossero interessati pisani e fiorentini. Così, se non fosse stato per la debolezza di una donna, sarei fin dalla nascita entrato in possesso di quei feudi che più tardi dovetti acquistare grazie al mio merito, come avrete modo di sentire. Ma andiamo avanti con la storia della mia famiglia.
Mio padre era molto noto nei circoli del Granducato, e più in generale in quelli d'Italia, col nome di Mario Floriano Bellini. Si era indirizzato, come altri figli cadetti di nobili famiglie, alla professione di ingegnere, e aveva fatto il suo tirocinio in un celebre studio di viale Lavagnini, a Firenze. Per il suo ingegno superiore e per il suo amore della logica non vi è dubbio che sarebbe divenuto una figura eminente nella sua professione, se le sue qualità sociali, la passione per i divertimenti politici e sportivi e la straordinaria grazia dei suoi modi, non lo avessero indirizzato verso un tipo di attività di gran lunga superiore. Sin da quando era studente di Ingegneria, egli manteneva sette cavalli da corsa e andava a caccia regolarmente con i cacciatori di Giampiglia e di Onci. Sul suo cavallo grigio, Fanta, disputò poi quella famosa corsa contro il notaio Birindelli che è ancora ricordata dagli amanti di quello sport. Per ricordare quella vittoria fece dipingere uno splendido quadro che ora è appeso sopra la mensola del mio camino nella sala da pranzo di Castel Portanova. Un anno dopo ebbe l'onore di cavalcare, a Fosci, lo stesso cavallo Fanta davanti al defunto arciduca Francesco Salvatore di Toscana, ricevendone il premio e la benevola attenzione dell'augusto signore. Benchè fosse l'unico figlio unico della nostra famiglia, il mio caro padre ereditò naturalmente il feudo (ora ridotto soltanto alla miserabile rendita di 40.000 euro l'anno), perchè un suo parente più anziano, il cugino Luca Pisano (così chiamato a causa della provenienza della madre, originaria di Cascina) rimase fedele alla vecchia religione in cui la nostra famiglia era stata allevata, e non solo prestò onorevolmente servizio alla dirigenza delle allora Ferrovie Statali, ma combattè persino contro la privatizzazione di queste nell'infelice salita al potere del Cavaliere Silvio Berlusconi. Riparleremo oltre del cugino Luca Pisano.
Devo essere grato della conversione di mio padre alla mia cara mamma, Anna Rita Bacherozzi, figlia del Signore e giudice di pace Marcello Bacherozzi di Asciano, provincia di Siena. Ella era, ai suoi tempi, la più bella donna delle crete senesi e veniva chiamata da tutti <<l'Elegante>>. Vedendola ad un'assemblea, mio padre si innamorò perdutamente di lei; ma ella non voleva sposare un gentiluomo fiorentino o l'assistente di qualche ingegnere, e così per amor suo, essendo ancora in vigore le vecchie leggi, il mio caro babbo prese il posto del cugino di Pisa ed entrò in possesso del feudo di famiglia. Renzo Bisconti prestò ai miei genitori il suo yacht, che allora stava all'ancora a Santa Croce sull'Arno, e la bella Anna Rita venne indotta a fuggire con Mario Floriano a Poggibonsi, benchè i suoi genitori fossero contrari al matrimonio e i suoi spasimanti (glielo ho inteso dire migliaia di volte) fossero i più numerosi e ricchi di tutta la ex-Repubblica di Siena. Si sposarono a San Gimignano e mio padre, vista la magnanimità del nonno, potè entrare in possesso dei beni famigliari e sostenere con dignità il nostro nome a Poggibonsi- dove sfruttarono una casa lasciata in eredità da un vecchio prozio -e in molti altri stati d'Europa (su tutti, Francia, Svizzera, Austria, ex-Jugoslavia e Grecia). Ferì, in una partita di calcetto, il famoso conte Bandinelli dietro la tenuta di Strozzavolpe, fu membro della <<San Galgano>> e frequentatore di tutte le mescite di cioccolata, e mia madre, del pari, fece una vita brillante. Infine, dopo il giorno del suo grande trionfo di fronte alla signoria di Francesco Salvatore a Fosci, la fortuna di Mario Floriano stava ormai per essere fatta, perchè il generoso arciduca aveva promesso di pensare a lui. Ma, purtroppo, egli venne chiamato da un'altra signoria, la cui volontà non consente ritardi né rifiuti, vale a dire dalla Morte, che colse mio padre alle corse di Pian del Lago, lasciandomi orfano e senza aiuto. Pace alle sue ceneri! Egli non fu senza colpa e dissipò la maggior parte delle proprietà della nostra famiglia; ma era valente nel bere un bicchiere e nello scuotere dadi e nel guidare il suo scooter cromato da vero uomo alla moda.
Non so se il subentrato arciduca Guntram, principe di Toscana, fosse molto colpito dall'improvvisa scomparsa di mio padre, benché mia madre mi abbia detto che in quell'occasione fu sparsa qualche nobile lacrima. Ma queste non ci aiutarono in nulla, e tutto ciò che la moglie e i creditori trovarono in casa fu una borsa con novanta euro, che mia madre naturalmente prese insieme allo stemma di famiglia, il guardaroba di mio padre e il suo. Dopo aver caricato tutto su un camion di traslochi, si diresse verso Colle di Val d'Elsa. Il funerale fu organizzato agilmente, giacchè il monumento e la cappella in chiesa erano, purtroppo, tutto quanto rimaneva dei miei vasti possedimenti; perchè mio padre aveva venduto fino all'ultima porzione della proprietà a un certo Pacini, un avvocato. Ricevemmo quindi soltanto un gelido benvenuto nella nostra casa- che era diventata un luogo miserabile e squallido.
Mia madre decise che la miglior soluzione sarebbe stata di riparare presso la sua famiglia a Fontasciano, ed è là che arrivammo con una lussuosa berlina blu che portava scolpito un immenso stemma di famiglia dei Bellini sul retro: quindi, nonostante le divergenze passate, la mia mamma venne considerata subito dai parenti e dal resto del borgo come una persona di notevole ricchezza e di grande distinzione. Per un certo tempo, Anna Rita dettò legge a Fontasciano. Dava ordini ai servitori in qua e in là e insegnava loro ciò di cui avevano molto bisogno, vale a dire un po' di distinzione fiorentina. E il “Sbelluccio Ferrucci”, come io venivo chiamato dai parenti più colti, era trattato come un piccolo Lord; aveva per sé una cameriera e un paggio, e l'onesto nonno Marcello pagava loro lo stipendio. Mamma sistemò il nuovo alloggio con grande economia e considerevole gusto e mai, nonostante la povertà, venne meno la dignità che le era dovuta e che tutto il vicinato le tributava. D'altra parte, come si poteva rifiutare rispetto a una gentildonna che aveva vissuto a Poggibonsi, aveva frequentato la società più elegante ed era stata persino (come ella stessa dichiarava solennemente) presentata a Palazzo Comunale? Questa situazione le dava il diritto- che sembra essere largamente esercitato in Italia da quei nativi che lo posseggono -di guardare dall'alto in basso con disprezzo tutte le persone che non hanno avuto occasione di lasciare la penisola e di vivere per qualche tempo a giro per l'Europa. Inutile soffermarsi sulle malelingue di Fontasciano riguardanti i motivi che avevano portato la signora Bellini e il suo diletto figliuolo a ricorrere all'aiuto di quella famiglia Bacherozzi che anni prima era stata rinnegata: la televisione e i giornali della domenica non ci forniscono forse ogni settimana più freschi romanzi e pettegolezzi più interessanti? Basti dire che l'insopportabilità dei toni e degli argomenti rese impossibile qualsiasi tipo di convivenza e fu proprio mio nonno a congedare me e mia madre, non prima di aver donato lei la cospicua cifra di novantamila euro. Andammo ad abitare ad Agrestone e, tenendo conto della scarsità della nostra rendita, ci tenevamo su bene. Della mezza dozzina di famiglie che formavano la congregazione di Agrestone, non c'era nessuno che avesse un'aria tanto rispettabile quanto la mamma, la quale, benchè sempre vestita a lutto in memoria del defunto marito, badava che i suoi abiti fossero fatti in modo da dare alla sua bella persona il maggior risalto possibile. Ritengo che passasse almeno sei ore di ogni giorno della settimana a tagliarli, guarnirli e modificarli perché fossero sempre alla moda. Confesso che la mia camera all'Agrestone era molto piccola, ma noi ne tirammo su tutto il profitto possibile. Ho ricordato già l'albero genealogico della famiglia che era appeso nel salotto, mentre la mia cameretta ospitava alcuni dipinti sopravvissuti agli sperperi paterni e la camera da letto di mia madre finiva con l'assumere il ruolo di grande magazzino della moda del tempo. Al momento del pranzo, Massimo il domestico suonava regolarmente una grande campana e avevamo per bere una coppa d'argento per uno, e mia madre affermava, non a torto, che avevo dinanzi a me una bottiglia di chiaretto degna di qualsiasi altro signore del Granducato. Infatti, era così: per me e mia madre, la cantina riserbava sempre e soltanto le bottiglie più prestigiose. E il nonno Marcello, nonostante le dispute in famiglia, si accorse di questo fatto un giorno in cui venne per sua disgrazia ad Agrestone all'ora di pranzo e gustò quel nettare. Bisognava vedere come tesseva le lodi di quella bevanda e le smorfie che faceva! Era uno degli individui più simpatici, semplici e di buon carattere che mai siano vissuti, e passava volentieri qualche ora con mia madre quando era stanco della nonna Anna Emilia e della casa. Gli piacevo, diceva, molto più di qualcuno dei suoi tanti nipoti, e alla fine, dopo un paio d'anni, acconsentì a farmi rientrare a Fontasciano. Quanto a mia madre, però, mantenne risolutamente il giuramento e non volle mettervi più piede.
Proprio il giorno in cui tornai a Fontasciano si può dire, in un certo senso, che cominciassero i miei guai. Mio cugino, Daniele, un grosso mostro di diciannove anni (mi odiava e, ve lo posso garantire, lo ricambiavo con tutto il cuore), mi insultò a pranzo rinfacciandomi la povertà di mia madre, e fece ridere alle mie spalle tutte le ragazze della famiglia Bacherozzi e della servitù. Andammo così nelle stalle dove Daniele era solito accendersi, di nascosto, una sigaretta dopo pranzo; gli dissi tutto quello che pensavo di lui e ne seguì una lotta che durò almeno dieci minuti, durante i quali mi comportai da uomo e gli pestai l'occhio sinistro, benché a quel tempo io avessi solo dodici anni. Naturalmente egli mi battè, ma una sconfitta fa poca impressione a un ragazzo in quella giovane età, come io avevo già provato molte volte nelle mie battaglie con i monellacci di Agrestone, nessuno dei quali, durante quel periodo della mia vita, era in grado di starmi alla pari. Mio nonno fu molto soddisfatto quando seppe della mia prodezza; mia cugina Elvira portò il cotone e l'alcool per curarmi il naso e quella sera andai a casa con una bottiglia di vino rosso sullo stomaco, non poco orgoglioso di avere tenuto duro per tanto tempo contro Daniele. Da allora tornai quasi ogni giorno a Fontasciano; mio nonno mi comprò un puledro, mi portava con sé a cacciare lepri e uccelli e mi insegnò a tirare a volo. E alla fine fui liberato anche dalla persecuzione di Daniele, poiché suo fratello, Gabriele, ritornò dal Sant'Anna di Pisa e, siccome odiava il fratello maggiore (cosa che avviene di solito nelle famiglie del bel mondo), mi prese sotto la sua protezione. Da quel momento, poiché Gabriele era più grosso e forte di Daniele, io venni lasciato stare, salvo le volte in cui veniva a Gabriele la voglia di frustarmi, cosa che faceva ogni volta che lo riteneva conveniente.
La mia educazione non venne trascurata neppure nelle parti più superflue, e poiché avevo una non comune predisposizione per molte cose, presto superai in finezza la maggior parte delle persone che mi stavano intorno. Avevo orecchio ed una bella voce, che mia madre coltivava con cura, insegnandomi anche a ballare il minuetto con grazia e solennità e gettando così le fondamente del mio futuro successo nella vita. Imparai anche i balli volgari, e io venivo considerato senza rivali sia nella danza moderna che nel liscio. Per quanto riguarda la cultura libresca, ebbi sempre un gusto non comune per leggere tragedie e romanzi, che sono la parte fondamentale dell'educazione di un perfetto gentiluomo e mai lasciavo il paese senza aver acquistato almeno un paio di volumi. Per quanto riguarda, invece, grammatica, greco, latino e inglese, le feci mie sin dalla prima infanzia e dichiarai subito francamente che le avrei approfondite più avanti. Questa mia intenzione la mostrai in maniera abbastanza decisa all'età di tredici anni, quando mia madre spese quel centinaio di euro di tasse scolastiche per la mia educazione, decidendo di iscrivermi al Liceo Classico di Colle di Val d'Elsa, diretto all'epoca dal noto giurista Otello Pennabianchi. D'altro canto, mentre in italiano, latino, greco, inglese, storia, filosofia e geografia ero il primo della scuola, non riuscivo affatto ad eccellere nello studio della matematica e delle scienze, e dopo essere stato fustigato sette volte, senza che questo facesse fare il minimo progresso alla mia algebra, mi rifiutai di sottomettermi di nuovo, trovando la cosa perfettamente inutile, a un'ottava applicazione della frusta. <<Cercate qualche altro sistema, prof.>>, dissi al professore quando stava per scudisciarmi un'altra volta; ma egli non volle, e allora per difendermi gli tirai in testa la lavagna e lo colpii con un enorme tomo di geometria euclidea. A questo gesto i miei compagni si misero a strillare di gioia e da quel giorno il mio percorso scolastico fu solo in discesa. Non ero decisamente lo studente modello, una tipologia che ho sempre teso a denigrare con tutto me stesso. Infatti, ho incontrato nel mondo molti dotti topi di biblioteca, specialmente un'illustre coetanea, ora commercialista con gli occhi cisposi, di nome Monechi, che viveva in un cortile presso le Tre Grazie, a Colle; ebbene l'ho ridotta al silenzio, come sto per dirvi, nella mia aula scolastica; e in questo e nella poesia, e in quella che chiamo filosofia naturale, o scienza della vita, e nell'equitazione, nella musica, nel salto, nel tennis, nella conoscenza dei motori o nelle scommesse calcistiche, nel modo di fare di un perfetto gentiluomo e di un uomo di mondo, posso dire che, per quanto mi riguarda, Sbelluccio Bellini ha di rado trovato un eguale. <<Elisabetta>>, dissi alla signorina Monechi nell'occasione cui alludevo, <<credi di saperne molto più di me perché citi il tuo Aristotele e il tuo Ricardo, ma sai dirmi quale cavallo vincerà a Bagnaia la settimana prossima? Sai correre per mezzo chilometro senza ripigliare fiato? Sai mandare in buca sei palle di fila seguendo la progressione numerica? Se è così, parlami pure del tuo Aristotele e del tuo Ricardo>>. Ma sto divagando dalla mia storia e debbo, in conseguenza, tornare a casa, alla cara vecchia Italia.
Avevo fatto conoscenza, fin da allora, con la gente più ragguardevole della provincia e i miei modi, come ho detto, erano tali da poter stare alla pari con tutti loro. Forse vi meraviglierete che un ragazzo di campagna, quale io ero, educato tra piccoli proprietari toscani e i loro dipendenti di fattoria e fabbrichetta, potesse arrivare a possedere quel modo di fare così elegante che senza discussione mi viene da tutti riconosciuto. Ma il fatto è che ebbi un valente istruttore nella persona di uno studente rivoluzionario, che aveva fatto il servizio militare sulle Alpi assieme ai rampolli dell'aristocrazia francese, e che mi insegnò il ballo e le belle maniere, nonché un'infarinatura della lingua di quel paese, insieme con l'uso della carabina. Molte e molte volte ho camminato, da ragazzo, per un chilometro e mezzo al suo fianco, mentre egli mi narrava le meravigliose storie delle manifestazioni in Francia, della sinistra extraparlamentare, del compagno Fidel e dei gruppi hard rock delle nostre zone. Egli aveva anche conosciuto il cugino Luca Pisano e alcuni miei parenti e sapeva mille raffinatezze sulle più illustri famiglie del paese. Non ho mai conosciuto un ragazzo che potesse stargli a pari nel gioco del calcio, nel mettere a posto un'automobile, nel guidarla e nel saperla scegliere. Mi insegnava gli sport virili, a cominciare dalla caccia dei nidi, così che considererò sempre Pietrino come il miglior istitutore che abbia mai avuto. Il suo unico difetto era il bere, ma su questo ho sempre chiuso un occhio; odiava anche mio cugino Daniele come il veleno, ma anche su questo punto mi era facile scusarlo. Sotto la guida di Pietrino, all'età di quindici anni, ero un ragazzo molto meglio educato dei miei cugini, e credo che la Natura fosse stata anche più benigna verso la mia persona. Alcune ragazze di Agrestone, come presto racconterò, mi adoravano. Nelle discoteche e alle corse molte delle ragazze più carine presenti dicevano che mi avrebbero voluto avere come cavaliere. Eppure, bisogna che lo confessi, non ero molto popolare. In primo luogo, tutti sapevano che ero povero in canna; e credo che forse un po' di colpa l'avesse, in questo, la mia buona madre che mi aveva fatto troppo orgoglioso. Avevo l'abitudine di vantare, coi miei compagni, la mia nascita e la magnificenza del mio parco macchine, dei miei giardini, delle mie cantine, dei miei domestici, e questo davanti a gente che conosceva perfettamente la mia effettiva situazione. Se c'erano dei ragazzi che osavano pigliarmi in giro, dovevo picchiarli, a costo di morire. <<Difendi il tuo nome anche col sangue, Sbellu>>, mi diceva quella santa donna, con le lacrime agli occhi. Così quando avevo quindici anni non c'era più ragazzo, si può dire, al di sotto dei vent'anni in un raggio di dodici chilometri, che non avessi picchiato per una ragione o per un'altra. Potrei ricordare una ventina di prodezze da me compiute, se questi ricordi di pugilato non fossero argomenti troppo futili per parlarne davanti a gentiluomini e signore.
Fu sempre verso i quindici anni che presi a frequentare Laila, una volgare civetta piccolo borghese che da anni orbitava intorno ad Agrestone; ero un ragazzo ingenuo e passionale e non le nascosi i sentimenti che potevo provare, a quel tempo; così ella non potè fare a meno di accorgersi presto delle mie intenzioni e prese a trattarmi talvolta da bambino, talvolta da uomo. Mi piantava sempre in asso se, nella piazza del paese, vedeva passare il dottorino o addirittura il figlio del fattore. <<Dopo tutto>>, mi diceva, <<tu, Sbellu, hai soltanto quindici anni e non hai un euro al mondo>>. Allora le giuravo che sarei divenuto il più grande imprenditore che si fosse mai conosciuto fuori dal Granducato di Toscana e facevo la scommessa che, prima di aver raggiunto i vent'anni, avrei avuto abbastanza denaro per comprare un feudo sei volte più grande di Agrestone. Naturalmente non ho mantenuto nessuna di queste sciocche promesse; ma non vi è dubbio che esse ebbero molta influenza sui primi anni della mia vita e mi indussero a compiere quelle grandi azioni per cui sono divenuto celebre e che verranno ora ordinatamente narrate.
Voglio riportare, però, almeno un episodio, così che i lettori possano conoscere che razza di tipo era Sbelluccio Bellini e quale coraggio e indomita passione avesse in corpo. Non so se qualcuno dei giovani all'acqua di rose del giorno d'oggi avrebbe osato fare la metà di ciò che feci io di fronte al pericolo. Occorre premettere che in quel tempo l'Italia era in stato di grande eccitazione per la minaccia, che generalmente trovava credito, di un'invasione islamica. Si diceva che fosse stato meditato uno sbarco in Sicilia, e i nobili e la gente del popolo che erano in grado di farlo in tutte le parti del regno mostravano la loro fedeltà arruolando reggimenti di fanti e paracadutisti per resistere all'invasione. Fontasciano mandò una compagnia ad unirsi al reggimento di Siena, in cui era capitano mio cugino Daniele, e ricevemmo una lettera di Gabriele dal Sant'Anna, che raccontava come anche l'università avesse formato un reggimento, in cui egli aveva l'onore di essere caporale. Come li invidiavo entrambi! Soprattutto quell'odioso di Daniele, quando lo vedevo marciare alla testa dei suoi uomini nella sua giabba mimetica ricamata, con il basco amaranto. Lui, quella povera creatura priva di intelligenza, era capitano, ed io, niente! Io che sentivo di avere tanto coraggio quanto Giuseppe Garibaldi in persona, e che sapevo, per di più, che una giubba mimetica mi sarebbe stata tanto bene. Mia madre mi disse che ero troppo giovane per arruolarmi nel nuovo reggimento dei paracadutisti, ma il fatto era, in realtà, che lei era troppo povera e il costo dell'arruolamento avrebbe ingoiato almeno la metà della sua rendita di un anno, mentre avrebbe voluto che suo figlio facesse una figura degna della sua nascita, guidasse la migliore delle fuoriserie, fosse vestito con gli abiti migliori e frequentasse le compagnie più eleganti. Così dunque, mentre tutto il paese risuonava di rumori di guerra, le otto provincie rimbombavano di musiche militari e ogni uomo di merito si recava a rendere omaggio alle truppe della Difesa, io, perchè povero, ero costretto a restarmene a casa, in pigiama, a sospirare in segreto la gloria. Una volta gli ufficiali della Caserma Bandini di Siena diedero un grande ballo a Casetta, a cui, naturalmente, vennero invitate tutte le signore di Colle, che formavano il carico completo (e passabilmente brutto) di un servizio navetta messo a disposizione dal comune. Laila proclamò solennemente che andare chiusa negli autobus le faceva sempre male; così andammo insieme con la Jaguar di mio nonno fino a Casetta, e mi sentivo orgoglioso come un principe, poiché Laila mi aveva promesso di ballare con me tutta la notte. Ma appena arrivati, quell'ingrata civetta mi dichiarò di aver completamente dimenticato il suo impegno; e infatti aveva ballato tutto quel giro con un soldato pugliese. Ho sopportato molti tormenti nella mia vita, ma nessuno pari a quello. Cercò di farsi perdonare la sua trascuratezza, ma inutilmente. Ero troppo sconvolto per riuscire a divertirmi con le altre ragazze, e così restai solo, tutta la serata, in preda al più vivo spasimo. Avrei voluto giocare, ma non avevo denaro, tranne la moneta da due euro che mia madre mi faceva sempre portare nel portafoglio- senza spenderla -come deve fare un gentiluomo. Non avevo voglia di bere, e in quel tempo non conoscevo ancora l'amaro conforto che si prova con questo; ma pensavo di uccidermi, di uccidere Laila, e di fare altrettanto col capitano Tobino. Finalmente al mattino le danze ebbero fine. La maggior parte delle ragazze se ne andò con la prima corriera del giorno; Laila prese posto in macchina, cosa che le lasciai fare senza dire una parola. Dopo mezzo chilometro, ella iniziò a scusarsi, a giustificarsi e a pronunciare strane frasi, come <<A me non importa niente del capitano Tobino!>>, o ancora, <<Con te posso ballare ogni giorno!>>. Il mio umore subì un ulteriore peggioramento quando Laila aggiunse ad una delle sue giustificazioni le seguenti parole: <<Oltre a tutto questo, Sbellu, il capitano Tobino è un uomo e tu soltanto un ragazzo, e non hai neanche un euro!>>. Bestemmiai e dissi <<Se mai lo incontrerò ancora, vedrai chi è il migliore fra noi due. Lo sfiderò a pugni e a coltelli, per capitano che sia. Sfiderò ogni uomo ti si avvicini!>>. Di fronte alla mia romantica presa di posizione, Laila, che quella volta aveva voglia di ridere, continuò i suoi sarcasmi. Dichiarò che il capitano Tobino era già noto come valoroso soldato, che era famoso come uomo di mondo a Roma, e che poteva essere facile da parte di un Bellini qualsiasi parlare, vantarsi e battere compagni di classe e figli di contadini, ma sfidare un capitano dell'Esercito Italiano era una cosa molto diversa.
Per l'ora di pranzo tornai a casa, dove mi ammalai di una febbre che mi tenne a letto per sedici giorni; e quando lasciai il mio giaciglio ero molto cresciuto di statura, e ancora più violentemente era aumentata la mia passione, che era più forte di quanto avessi mai provato prima. Il mio risveglio era stato brillante, ma in casa mia potevo respirare un'aria bizzarra. Il fatto è che, durante gli ultimi giorni della mia malattia, si era installato ad Agrestone niente meno che il capitano Tobino, che stava corteggiando Laila in debita forma. Scesi in cortile, montai in automobile e in meno di cinque minuti ero nei pressi della cinta muraria che divideva il giardino di Laila dalla strada; aggrappandomi dove potevo riuscii a raggiungere la cima del muro di cinta alto tre metri. Da principio, notai un fuoristrada Iveco targato “EI” e un soldato semplice che lo stava lucidando; decisi di non scavalcare per andare a rompergli le ossa e sgonfiare le gomme al mezzo. Con un'agilità sconosciuta a tutti i miei coetanei non addestrati e senza farmi notare, percorsi il muro di cinta fino al limite della piccola proprietà, e fu lì che, nascosto dietro il tronco di una quercia, vidi Tobino e Laila che passeggiavono per il giardino insieme. Davanti a quello spettacolo, le ossa cominciarono a tremarmi violentemente e mi sentii tanto male che fui sul punto di cadere svenuto sull'erba, vicino all'albero cui mi ero appoggiato; poi raccolsi tutte le mie forze, mi diressi verso la coppia che stava camminando, aprii la lama del piccolo coltello col manico d'argento che portavo sempre nella tasca posteriore dei jeans, ben deciso a trapassare il corpo dei due delinquenti e a infilarli come bestie. Ebbi l'impressione che tutto il mondo mi crollasse sotto i piedi. Avevo un bracciale in falso oro rosa; Laila me l'aveva regalato e lo portavo sempre con me. Lo trassi dal polso e lo gettai in faccia al capitano Tobino, e mi precipitai su di lui col coltello sguainato. Gridando, lo presi per il collo, mentre Laila faceva echeggiare l'aria delle sue grida, al rumore delle quali il soldatino di piombo che avevo notato al cancello e Remo (un avido commerciante padre di Laila) si precipitarono verso di noi. Benchè fossi cresciuto come la gramigna durante la malattia e avessi quasi raggiunto la mia statura definitiva di un metro e ottantatre, ero soltanto un soldo di cacio in confronto all'enorme capitano pugliese, che aveva spalle e polpacci quali non può vantare neanche uno scaricatore del porto di Livorno. Quando gli saltai addosso, diventò prima tutto rosso, poi straordinariamente pallido, si divincolò e afferrò la Beretta calibro 38 nella fondina, allorché Laila, sopraffatta dal terrore, l'abbracciò gridando: <<Euge'!Fermo, lascia stare il bambino! Non lo vedi, è solo un ragazzino?>>.
<<Dovrebbe essere cinghiato, questo pezzo di merda!>>, disse il capitano, <<ma non avere paura, Lailina, non lo tocco, il tuo gigolò>>.
Così dicendo si chinò, raccolse il bracciale che recava le iniziali di Laila e, porgendoglielo, disse in tono sarcastico: <<Quando le ragazze fanno ai ragazzotti simili regali, è necessario che altri ragazzotti si ritirino>>.
Laila iniziò a giustificare il regalo che mi aveva fatto tempo addietro, ma inutilmente; Tobino poi tornò a prendersela col sottoscritto. <<Chiamerò un boia a farti un culo così, guaglioncello!>>, disse, <<e in quanto a te, Laila, ti dico “arrivederci e grazie”>>.
Si tolse il basco con ostentata cerimoniosità, fece un profondo inchino, ed era sul punto di andarsene, quando giunse mio cugino Daniele, che era passato con il resto del reggimento a reclutare alcuni ragazzi di Agrestone. <<Eugenio Tobino, ma cosa urli? Questa ragazza piange, mio cugino con un coltello in mano e te fai l'inchino?>>.
<<Te lo dico io cos'è successo, Dani! Ne ho abbastanza della signorina Laila e dei vostri modi di fare toscani. Non ci sono abituato!>>.
<<Bene, ma qual'è il problema?>>, disse mio cugino con buona grazia, perché era debitore a Tobino di una bella somma, <<Si può sempre sperare che adottiate i nostri modi, oppure che siamo noi ad adottare quelli meridionali>>.
<<Non è usanza meridionale che una ragazza abbia due innamorati, e così, Dani, ti sarò grato se mi pagherai la somma che mi devi, mentre declino ogni pretesa nei confronti di questa ragazzina. Se le piacciono gli studentelli, che se li prenda!>>.
<<Ohé, Eugenio, ma scherzi?>>, disse Daniele.
<<Non sono mai stato più serio in vita mia>>, rispose l'altro.


venerdì 26 aprile 2013

[Recensione] Iron Man 3

Nel 2005, molti lettori di Iron Man impazzirono per la saga di sei numeri scritta da Warren Ellis e intitolata Extremis. Chissà la loro sorpresa nel vedere, otto anni dopo, quella bellissima storia trasposta al cinema. Infatti, il soggetto alla base del tanto atteso nuovo capitolo del Marvel Cinematic Universe riguardante Tony Stark e le sue invenzioni non è altro che quello scritto da Ellis nel 2005. E Iron Man 3 di Shane Black (cresciuto come sceneggiatore nella fucina di Scuola di mostri, autore milionario dello script di L'ultimo boyscout e già dietro la macchina da presa in Kiss Kiss Bang Bang) proprio non delude.
Non delude perchè Tony Stark, stavolta, è davvero in crisi, con la sua villa-officina di Malibu distrutta dai mercenari del Mandarino (Ben Kingsley), la bella Pepper prigioniera del viscido Aldrich Killian (Guy Pearce) e l'amico War Machine (Don Cheadle) "impossibilitato". Potrebbero aiutarlo Maya (la splendida Rebecca Hall), una botanica sua vecchia fiamma, e un bambino fissato con la tecnologia e residente nel Tenneessee. Niente J.A.R.V.I.S., niente armatura: solo l'ingegno e le mani nude per fronteggiare un villain istrionico e pazzoide dietro cui si potrebbe celare qualcosa di ben più grande e pericoloso. 
Ne deriva che Iron Man 3 è, per tanti versi, l'anti-film Marvel per eccellenza: Stark appare finalmente come un personaggio in grado di andare oltre il pagliaccio che compiace nerd insicuri e di convincere tutti, perchè ha perso quella patinatura da commediante che sparava battute a raffica nelle prime due pellicole. Black dimostra che il super-eroe non è tanto "Tony Stark che indossa l'armatura", quanto "l'uomo Tony Stark". Non esiste un dialogo fuori posto o sopra le righe, così come non c'è un momento dove l'effetto speciale "stona" o è di troppo. Come se non bastasse, Iron Man 3 è anche una pellicola ricca di celata e feroce polemica, cosa inusuale per una produzione Walt Disney: ci si burla dell'intervento americano in Afghanistan, così come della mentalità degli stati del Sud-USA (lo scambio di battute sui gratta e vinci sembra arrivare da qualche action-movie di livello di venti anni fa), fino ai brillanti bisticci domestici fra Stark e Pepper. No, non è un film super-eroico, o almeno non presenta un super-eroe al di sopra di tutto e tutti. Potrebbero accusare Black di seguire una moda ispirata alla poetica di Nolan: presentare un super-eroe in crisi, senza maschera, senza le forze, svelarne il lato più oscuro e umano, eccetera. Ma non è così: quella moda è stata seguita- almeno in casa Marvel -dall'orrendo Amazing Spider-Man, che è solo un balocco per adolescenti brufolosi che neanche sanno cosa sia il Cinema. La differenza fra Black e Nolan sta proprio in questo: Nolan ha voluto rendere "serio" un qualcosa che di serio non ha niente (mettetela come vi pare, ma è comunque un film su un tizio milionario mascherato da pipistrello che salta dai grattacieli e combatte il crimine) riuscendoci perfettamente, mentre a Black non gliene frega nulla di tutta questa presunta "serietà". Lui si preoccupa solo di girare un film d'azione formidabile dove il protagonista usa, come arma, un'armatura ultratecnologica. Forse per questo il risultato è così genuino, e Iron Man 3 è uno dei tre film Marvel migliori di sempre.
P.S.: l'ho visto convertito in 3D, ma vi assicuro che renderebbe benissimo anche in 2D.
P.S.: mi raccomando, non lasciate la sala fino alla fine e assistete al miglior finale nascosto di sempre, superiore anche a quello di The Avengers.

lunedì 22 aprile 2013

Spettri, demoni, possessioni e altre amenità [Ombre elettriche]

Il remake de La casa
uscirà quest'estate
La casa 4 è uno
dei prossimi progetti in cantiere
 firmati dal maestro Sam Raimi
Girellando sul web, è facile imbattersi, in questi giorni, su numerose notizie riguardanti un atteso (da chi poi?) remake de La casa di Raimi. Raimi si è detto felice che qualcuno metta mano al rifacimento di un suo capolavoro, ma che, dal canto suo, sta già preparando La casa 4 e di un ben più misterioso L'armata delle tenebre 2, prodotto e voluto dalla Marvel. Insomma, l'universo delle presenze demoniache creato da Raimi è vivo e vegeto, e come il suo principale autore se ne stanno interessando anche altri registi. Non è dato sapere se ci troveremo al cospetto di un remake all'altezza dell'originale (anche perchè è un'impresa ardua), ma una cosa è certa: spettri, demoni e posseduti tornano alla ribalta in una nuova ondata di orrore. Di tutto ciò che li ha preceduti ne parleremo qui sotto, in una folle e colossale rassegna di trenta titoli da vedere, rivedere o da non considerare nemmeno. Ci scusiamo se molti film sono stati lasciati fuori o se, in certi casi abbiamo tirato un po' troppo via (col ridurre Shining a mero film di spettri non volevamo certo mancargli di rispetto), ma tempo e spazio sono ciò che sono. Come sempre, la nostra è solo una guida, e ci limitiamo solo a renderla il più possibile di buona qualità (non troverete aborti senza capo nè coda tipo Legion). Buona lettura.

5 CAPOLAVORI SPETTRALI

1- SHINING (1980) di S. Kubrick
Quello che è considerato da molti il miglior film horror di tutti i tempi, è un autentico capolavoro giustamente rimasto nella Storia. Tratto da un romanzo di King, è- al di là di tutte le letture psicoanalitiche e filosofiche -un film sui fantasmi che infestano un albergo (l'Overlook Hotel). Da vedere, rivedere e stravedere. Un film praticamente perfetto. 




2- THE FOG (1980) di J. Carpenter
Il 1980 è un buon anno per il cinema horror di fantasmi, visto che anche il Maestro gira un piccolo capolavoro. L'apparizione si lega, in questo caso, ad una nave di pirati fantasma. La sfida per Carpenter stavolta è: fare paura con un po' di nebbia finta. Esperimento riuscito in pieno, anche se lievemente sottovalutato.






3- IL SESTO SENSO (1999) di M. Night Shyamalan
<<Vedo la gente morta>>, frase stupida e inquietante, al servizio di un'opera di cui spesso si parla troppo bene evidenziandone solo i lati più buonisti e hollywoodiani. In certi punti è un "film-puttana", facile a vendersi e preconfezionato per un pubblico da prima serata televisiva. Peccato che tutto precipiti nel terrore più genuino da un certo punto in poi, salvando il film e rendendolo un'opera aperta, semplice e facilmente accessibile a qualsiasi tipo di pubblico.




4- THE OTHERS (2001) di A. Amenàbar
Esempio intelligente e raffinato di film spettrale del nuovo Millennio, si basa, fondamentalmente, su Giro di vite di Henry James, del quale ricalca la trama e l'intreccio. Un film unico in un panorama già povero di idee. Ha avuto il merito di piacere poco agli amanti dell'horror perchè lo consideravano troppo "drammatico" e "impegnativo" e il merito di piacere poco agli amanti del cinema impegnato perchè lo consideravano troppo "horror".





5- FANTASMI (1979) di D. Coscarelli
Uno dei più grandi successi commerciali del cinema di fantasmi, nato come opera a basso costo, si impone come capostipite di una fortunata serie di film arrivata fino al 1998. Classico e "statico" per tanti versi, rivoluzionario e sperimentale per molti altri, rappresenta nel genere dei film di spettri ciò che Un lupo mannaro americano a Londra avrebbe rappresentato per il genere dei licantropi.





5 TIPI DI FECI SPETTRALI

1- THE GRUDGE (2004) di T. Shimizu
Co-produzione nippo-americana fortemente voluta da Sony Pictures, è un remake "alleggerito" e pensato per gli appassionati cerebrolesi di The Ring di un film intitolato Ju On: Rancore, uscito l'anno prima e sempre diretto da Shimizu. Il regista prende in mano una pala e si mette a raschiare, visto che il fondo è stato raggiunto già al primo minuto di film.




2- THE RING (2002) di G. Verbinski
Uno dei peggiori registi del mondo si appropria di un horror nipponico (Ringu) e dà il via ad una vera e propria mania collettiva dove, a trionfare, è un horror mediocre e schizoide, tutto giocato sulle natiche di Naomi Watts e su una stronza bambina insopportabile. Non fa paura, ma dà fastidio. Adatto a quei lobotomizzati che hanno ringraziato Verbinski per La maledizione della prima luna.






3- PULSE (2006) di J. Sonzero
Ennesimo remake di una pellicola giapponese (stavolta è toccato a Kairo), scritto dal sovrano in declino Wes Craven, vorrebbe essere una critica alla civiltà dell'informatica, ma è solo un gran guazzabuglio comunemente definibile "merda".








4- NAVE FANTASMA (2002) di S. Beck
Prodotto, fra gli altri, da Zemeckis, è un horror marittimo dalla trama interessante ma messa in scena in maniera pietosa. Attori incapaci, effetti scontati e colpi di scena prevedibili come non mai.







5- DARK WATER (2005) di W. Salles
Ovvio remake di un film giapponese ispirato a un romanzo di Suzuki, è ricchissimo a livello figurativo e sonoro (musiche di Badalamenti), oltre a vantare un cast di interpreti discreti. Peccato siano tutti buoni aspetti al servizio di un film vuoto e inutile.








5 OPERE DEMONIACHE

1- LA CASA (1981) di S. Raimi
C'è poco da dire riguardo questo immenso capolavoro, esordio di Raimi e tuttora ricordato come uno dei suoi tre film migliori. Non ha perso, dopo trentadue anni, la sua bellezza originaria. A luglio uscirà il remake, mentre Raimi pensa a un paio di sequel da dirigere personalmente. Oltre ad aver diretto i due successivi, Raimi permise che registi italiani e americani proseguissero la serie (conclusa nel 1990 con La casa 7).



2- IL SIGNORE DEL MALE (1987) di J. Carpenter
Anche se a distanza di tempo rimane uno dei film meno compresi e più "difficili" di Carpenter, vanta una delle più originali idee di sempre: il demone è, in questo caso, il male assoluto, rimasto per secoli nascosto nella cripta di una chiesa di Los Angeles sottoforma di liquido verdastro. L'ennesimo capolavoro di uno dei più grandi registi di sempre.







3- L'ARMATA DELLE TENEBRE (1993) di S. Raimi
Se da una parte siamo davanti al terzo capitolo de La Casa, dall'altra si prospetta un film completamente nuovo e diverso, visionario e quasi fantasy in certi punti. Sessant'anni di cinema gotico racchiusi in poco più di un'ora e mezza di film. Semplicemente epico.







4- DRAG ME TO HELL (2009) di S. Raimi
Dopo la sbornia ultramilionaria della trilogia di Spider-Man, Raimi torna- per fortuna -a fare ciò che gli riesce meglio: un gran bell'horror. Firma uno dei tre horror più belli degli ultimi quindici anni, oltre al più feroce e politico film della sua carriera.







5- HELLRAISER (1987) di C. Barker
Capostipite di una fortunata saga (nove film), presenta il personaggio di Pinehead, demone antropomorfe nato su un romanzo dello stesso Barker. Spesso confuso con un film di assassini seriali sulla scia di Nightmare, Venerdì 13 o Halloween, Hellraiser è un personalissimo film sulle forze demoniache (i Cenobiti, in questo caso) che ha conservato, nel tempo, un forte attaccamento al film originale: tant'è che siamo davanti ad uno dei pochi casi di saga horror che dopo nove pellicole continua a presentare una certa continuità.




5 DEMONI DA SOPPRIMERE

1- LA CASA 5 (1990) di C. Fragasso
Non poteva che esserci lui, Claudio Fragasso, in cima alla classifica del peggio. Quando questo apocrifo sequel apocalittico de La casa uscì, molti giornali ne parlarono bene, ma forse i critici capivano meno di adesso: il film è un vero schifo e di Raimi non c'è neanche l'ombra.






2- JENNIFER'S BODY (2009) di K. Kusama
Film imbarazzante, che sfrutta barbaramente il titolo di una bella canzone delle Hole e mette, al di sopra di qualunque cosa possa ricordare lontanamente un'idea di trama, il corpo di Megan Fox, bella quanto cagna nel recitare questa farsa cannibal-demoniaca girata come un lungo spot di assorbenti. Inavvicinabile.






3- GIORNI CONTATI (1999) di P. Hyams
Dopo aver dimostrato una cocente incapacità in qualunque tipo di film (se si escludono Conan il barbaro, i primi due Terminator e Predator), Schwarzy non rinuncia al film demoniaco: ne viene fuori un mostruoso pastiche dove le scene d'azione sono mal bilanciate con quelle di paura. Non diverte, nè fa paura: semplicemente, disturba.






4- PARANORMAL ACTIVITY (2007) di O. Peli
Uno dei pochi casi cinematografici degli ultimi dieci anni. Con pochi soldi e una telecamera digitale, Peli gira un film destinato a incassare 190 milioni di dollari e ad essere prodotto da Spielberg (che ha cambiato il finale, peggiorandolo ulteriormente). Presto dimenticato e presto abusato. Dario Argento lo ha definito "una scemenza pazzesca che non fa neanche paura". Difficile dargli torto.







5- DEVIL (2010) di J. E. Dowdle
Tratto da un soggetto di Shyamalan e basato sull'intreccio di Dieci piccoli indiani, è un film di presenze demoniache esasperato sia nella forma che nei contenuti, pretenzioso ma privo di qualunque tipo di spessore artistico o cotenutistico.







5 POSSESSIONI DA POSSEDERE

1- L'ESORCISTA (1973) di W. Friedkin
Film di un'importanza storica capitale, non è in cima alla lista per "luogo comune", ma perchè, obbiettivamente, merita la prima posizione. Per quanto datato in numerosi suoi aspetti, mantiene ancora intatte la grande forza delle sue immagini e una trama ricca di spunti e analisi sociali e religiose. Sono fioccati i sequel, i prequel e i remake, ma mai belli quanto questo primo capitolo.



2- ROSEMARY'S BABY (1968) di R. Polanski
Incredibilmente avanti a tutto, Polanski firma un film divenuto leggenda, nonchè una delle sue migliori pellicole orrorifiche. Capolavoro a tutto tondo, continua ad essere un punto di riferimento per piccoli e grandi autori.








3- IL PRESAGIO (1976) di R. Donner
Film funestato da una lavorazione "maledetta", è una summa dell'horror britannico degli anni '70. Premio Oscar a Jerry Goldsmith per la splendida colonna sonora. Vede, nei panni del protagonista, un Gregory Peck immenso, che varrebbe da solo l'intero film.








4- CARRIE- LO SGUARDO DI SATANA (1976) di B. De Palma
Primo adattamento per lo schermo di un'opera di King (il controverso romanzo del 1974 è tuttora uno dei suoi capolavori), è diretto in maniera impeccabile, fotografato divinamente e meraviglia per la sua fedeltà al libro. Non a caso, King ne rimase entusiasta e continua a definirlo la miglior trasposizione cinematografica di un suo romanzo.






5- AMITYVILLE POSSESSION (1982) di D. Damiani
La componente esorcistica sposa perfettamente quella splatter in questo b-movie di ottima fattura confezionato da Damiano Damiani come sequel di Amityville Horror (1979). Sei sequel e un remake hanno portato la saga fino agli anni 2000, senza però emulare il successo e la qualità dei primi due film.








5 POSSESSIONI DA ESORCIZZARE PRIMA POSSIBILE

1- IL MAI NATO (2009) di D. S. Goyer
...








2- L'ESORCISTA: LA GENESI (2004) di R. Harlin
Qualcuno ha deciso di prendere un regista incapace e di affidargli un maldestro prequel del capolavoro di Franklin. Decisione azzardata, esito fallimentare.









3- REC (2007) di J. Balaguero e P. Plaza
Un film di cui si è parlato molto, troppo e mai a ragione. Dalla premiere veneziana alle tristi vittorie in festival minuscoli, Rec è l'ennesima variazione sul tema (stilistico) di The Blair Witch Project, solo che molto più maldestra e insulsa dei suoi predecessori. Ha avuto due sequel, uno più mediocre dell'altro.







4- AMITYVILLE DOLLHOUSE (1996) di S. White
Capitolo sette (e ultimo?) della saga lanciata da Amityville Horror e dimostrazione che una delle regole d'oro del genere è: non usare mai l'artificio della bambola assassina. In questo caso, un'intera casa di bambole assassine non può che peggiorare le cose, specie se siamo davanti ad un film per cui le parole si trovano male.








5- THE POSSESSION (2012) di O. Bornedal

Esempio recente di capolinea del genere. Non bastano la produzione di Sam Raimi e un finale degno di nota a fare di The Possession un film riuscito: anche se, almeno su Bornedal come regista, non è ancora detta l'ultima parola.