lunedì 24 giugno 2013

[Recensione] L'uomo d'acciaio

Partiamo subito dal presupposto che Zack Snyder sia un cane.
"Cane", cinematograficamente parlando, è l'aggettivo di cui si può fregiare un regista convinto di fare chissà cosa ma le cui uniche capacità sono due e due soltanto: la prima, rubare senza alcuna logica a destra e a manca, spacciando i propri furti per "omaggi" e sfruttando budget milionari; la seconda, dare ad un pubblico simile a un branco di scimmie ammaestrate (composto, in questo caso, da nerd e persone che non si intendono minimamente di cinema) esattamente il film che vogliono, che si aspettano e di cui parleranno per i restanti sei mesi. 
Partiamo dal presupposto che tutti, nel 2006, si scagliarono contro il buon Bryan Singer e il suo Superman Returns, additandone i palesi difetti e le orribili scelte di cast e sceneggiatura. E fu allora che io, assieme a molti altri, pronunciai la fatidica frase <<Peggio di questo, non potranno mai fare nulla con Superman>>. Lo avessi mai detto! 
Per uno strano scherzo del destino, oggi pomeriggio, non solo ho sentito la mancanza del Superman di Richard Donner, ma addirittura del Returns di Singer. Alla fine del primo tempo, ho addirittura preso in considerazione la fuga precipitosa dal cinema. Ebbene sì: L'uomo d'acciaio, reboot su Superman voluto e prodotto da Nolan e diretto da Snyder è uno di quei film che- a meno che non si soffra di disturbi psico-emotivi -invoglia all'evasione dalla sala cinematografica che lo ospita. Sarà che, da amante del cinema e da serio lettore di fumetti, considero il 90% dei cinecomics merda, sarà che, in generale, pretendo che un film di 145 minuti abbia qualcosa da dire, sarà il caldo, ma a me più che d'acciaio è sembrato di merda questo uomo. Al di là delle citazioni, al di là della contaminazione (si va dalla fantascienza all'horror, passando per il fantasy), al di là di un casting paurosamente sbagliato, al di là di un montaggio che io ho visto come una forma di irrispetto nei confronti di Malick, il film è brutto alla radice. Io non so quante volte è stato buttato giù dal seggiolone chi ci vede la lezione di Nolan. Io non so come si possa definire un "gran film" una pellicola in cui Clark Kent blocca un'emorragia irreparabile con il seguente scambio di battute:

SUPERMAN- Hai una brutta emoraggia interna. Ora la blocco!
LOIS LANE- Come pensi di fare?
SUPERMAN- Io faccio cose che gli altri non fanno.

Passano trentadue secondi e lei è innamorata, completamente guarita e in un altro continente (di dialoghi come questo ce ne sono a bizzeffe). E poi troppo sentimentalismo, di quello pessimo, di quello copiato male da un film di Zemeckis prodotto da Spielberg (il che è tutto dire). Però qualcuno potrà dire che gli effetti speciali sono belli: sì, e allora? Al di là del fatto che- lo ripeto -c'è un furto dietro l'altro (da Avatar a Il signore degli anelli), sarebbe stato impossibile ottenere brutti effetti speciali con 225 milioni di budget. 
Ma fondamentalmente chi se ne frega?
Chi se ne frega di un film dove c'è uno stronzo espressivo quanto un comò con un mantello rosso e una tuta blu con una "S" ricamata sopra?
Lasciamo che dei poveri pezzenti segalitici sprechino fiumi di inchiostro sopra questa porcheria. Se amate il cinema e vi piace Superman come eroe in calazamaglia avete due scelte: o riguardate il film del 1979 o vi comprate qualche fumetto. Basta sprecare tempo con certe schifezze: tanto sono giocattoloni che guadagneranno comunque quattrini e avranno comunque il loro pubblico, che inneggerà al sequel, alla bravura di Snyder e alla fedeltà al fumetto. Perchè ormai non conta se un film fa schifo o meno: l'importante è essere fedeli al fumetto. E da amante dei fumetti vi dico: prendete la fedeltà e ficcatevela nel culo.
Buona visione.

P.S.: nonostante tutto, L'uomo d'acciaio ha un lato positivo, e cioè la colonna sonora del maestro Hans Zimmer. Lo so che è come mettere una sinfonia di Beethoven in un cinepanettone, ma a conti fatti è davvero l'unico aspetto positivo di un film che non ne ha altri. Quindi, voglio mostrarvi una cosa e svelare un segreto: invece di spendere dai 7,50 ai 10 euro, andate su iTunes o in un negozio di dischi e fatevi un bel regalo. Questo:


P.P.S.: L'uomo d'acciaio è un errore cinematografico totale, ed è per questo che neanche la locandina si salva, come dimostra la foto da me scattata fuori dal cinema. Trovate l'errore, con tanti complimenti alla Warner Brothers:




mercoledì 19 giugno 2013

Kanye West, "Yeezus" [Suggestioni uditive]

KANYE WEST, "Yeezus" (Def Jam, 2013)

★★★



















Ammetto che ultimamente mi trovo fin troppo spesso a parlare di musica, ma del resto non è colpa mia se proprio a giugno i Boards Of Canada fanno capolino dopo otto anni di latitanza o se i Beady Eye tornano all'attacco con un disco di poco migliore del mediocre esordio o se tantomento i Sigur Ròs e Kanye West decidono di far uscire, nello stesso giorno, i rispettivi nuovi album. Non me ne vogliano dunque i kanye-maniaci se ieri ho dato la precedenza alla band islandese, ma l'ho fatto solo per una questione di genere: il rock, al contrario dell'hip-hop, gode di pessima salute e una buona recensione non può che rincuorare gli amanti dei chitarroni. 
Una delle cose che da sempre amo di più dell'opera di Kanye West è che è impossibile confondere un disco con un altro, per il semplice fatto che ognuno di questi è nettamente inseribile in un contesto specifico: ad esempio, l'esordio (capolavoro) The College Dropout (2004) è un disco ricco di venature soul e di basi in stile motown, mentre il "sequel" Late Registration (2005) già strizza l'occhio ad una maggiore pulizia del suono e a fastosi arrangiamenti orchestrali. Il genio postmoderno di West si manifesta, in tutto il suo splendore, quando nel 2007 esce Graduation, dove testi sempre più introspettivi vengono filtrati attraverso sintetizzatori, campionamenti e basi di musica elettronica che ancora oggi, dopo sei anni, continuano a meravigliare. Con 808s & Heartbreak (2008), invece, il rapper fa un passo (anzi, anche due o tre passi) indietro, sposando un elettropop che odora già di stantio e che non replica- giustamente -il successo dei suoi predecessori. Due anni dopo è il momento più rivoluzionario, e con My Beautiful Dark Twisted Fantasy West tocca il livello più alto della sua carriera, dando alle stampe un dei più bei dischi di sempre dove il rap, la musica sinfonica, il soul e l'elettronica si combinano e vanno a costituire il tappeto sonoro sul quale passano in rassegna testi che riguardano ormai la collettività, come in un grande romanzo sociale contemporaneo. Gli ultimi anni sono trascorsi all'insegna di progetti ottimi (Watch The Throne, nato dalla collaborazione con Jay-Z) e mediocri (Cruel Summer, frutto di un lavoro collettivo diretto e prodotto dal nostro Kanye), e mentre la figura pubblica del rapper di Atlanta è arrivata a somigliare un po' a quella di un "marchettaro" musicale (le pupe, il periodo da stilista, la Kardashian, ecc.), la sua musica si è semplificata sempre di più, arrivando a quello stato osseo, minimale con cui si presenta nel nuovo Yeezus.
In un mondo come quello del rap, dove la cultura religiosa è spesso di fondamentale importanza, è già bizzarro vedere un disco il cui titolo altro non è che una storpiatura in slang del nome "Jesus": siamo dunque di fronte ad un album non tanto blasfemo, quanto laico. I testi tornano a parlare dell'autore, sebbene senza quella spontaneità linguistica che aveva contraddistinto un capolavoro come Graduation. La rinuncia a tempi troppo lunghi si palesa già con l'apertura On Sight (uno dei quattro pezzi scritti e prodotti assieme ai Daft Punk), che dura meno di tre minuti, così come con la successiva Black Skinhead (che tanto aveva fatto parlare di sè durante la presentazione al Saturday Night Live): alla base non abbiamo l'electro-dance, i pianoforti o le ritmiche old-school, bensì una musica che mescola la ripetitività elettronica alle suggestioni industrial. Alla quarta traccia, New Slaves, cantata con Frank Ocean, l'album dà un primo accenno di caduta, ma si riprende con la successiva (e già più lunga) Hold My Liquor, ipnotico e bellissimo gospel sintetizzato dal sapore futurista. Al che riprende l'altalena fra canzoni buone (Blood In The Leaves), in certi casi ottime (Send It Up), e pezzi inutili, usati al solo scopo di riempitivi (mi riferisco, in particolare a I'm In It).
Che dire? La ricerca (sonora, artistica e musicale) c'è. Alla fine, si parla sempre e comunque di un album di Kanye West, genietto musicale che però dimostra di avere imparato un po' troppo bene certi giochetti. Ad esempio, una promozione come quella che è stata organizzata per Yeezus è forse troppo esagerata per un risultato tutto sommato modesto, così come pomposa e megalomane è la produzione (Rick Rubin è bravo, ma per il risultato e il genere di lavoro in studio svolto sarebbero bastati e avanzati i Daft Punk); d'altro canto, mancano delle collaborazioni di buon livello. E' vero, come sempre i grandi nomi piovono dal cielo, ma alla fine anche un giovanotto che sa il fatto suo come Kid Cudi dimostra di avere poco da dire in Guilt Trip. E poi tutte quelle seghe mentali sul lavorare in Europa, prendere ispirazione al Louvre, far scrivere a Bret Easton Ellis la sceneggiatura del video che poi è solo una parodia del film American Psycho tratto dall'omonimo romanzo, ecc.; insomma, tutti aspetti che, messi assieme non giustificano un album come Yeezus, frutto di un lavoro tutto sommato buono, che sta piacendo e continuerà a piacere, ma per il quale forse si poteva aspettare un po' di più e fare molto di meglio.

martedì 18 giugno 2013

Sigur Ròs, "Kveikur" [Suggestioni uditive]

SIGUR ROS, "Kveikur" (EMI, 2013)

★★★★





















Negli ultimi anni, il pubblico dei Sigur Ròs si è notevolmente intamarrito. Ulula, urla, brandisce gli smartphone al posto degli accendini: è sintomo di frustrazione, una frustrazione dettata anche solo dal fatto che ventenni immersi in magliette di dubbio gusto e con Camper puzzolenti ai piedi non sanno cantare in islandese. Chi sogna un palco dove Chris Martin finisce la voce dopo quattro canzoni ed è il pubblico a dover intonare stornelli britannici di bassa lega non ha speranze di comprendere l'essenza del rock contemporaneo, e può dunque saltare a pie' pari questa recensione. Perchè i Sigur Ròs sono il rock contemporaneo.
Partiamo subito col dire che l'Islanda è attualmente il paese da cui arriva la migliore concentrazione di musica del mondo. Mentre la triste retrograda middle-class musicale nostrana sbava pensando al ritorno in studio dei Black Sabbath e sostiene che il vero rock d'autore del momento lo facciano i Muse, i Sigur Ròs pubblicano Kveikur, loro settimo album in studio. Ad un anno esatto dal più recente capolavoro Valtari, a cinque dal passo falso (che tuttavia scalò le classifiche meglio di tutti gli altri) Með suð í eyrum við spilum endalaust, e a quattordici dall'esordio Vonn, la band capitanata dal cantante e chitarrista Birgisson è ancora in grado di meravigliare e, soprattutto, di evolversi. Infatti, con i nove brani di Kveikur (che si distingue, con i suoi 48 minuti di durata, per la sua brevitas) la band torna ad affrontare- anche se partendo da spunti differenti e a undici anni da () (è il loro disco più bello nonchè l'album rock più importante degli ultimi vent'anni, e se non lo conoscete potete solo vergognarvi) -quel continente inesplorato che noi siguròsiani definiremo "del Post".  Tutto, già nel singolo Brennistein pubblicato a marzo, è pienamente "post-": musica post-rock, post-ambient, ma anche, grande novità, post-metal. Così, la durata media dei brani si abbassa, aggirandosi sui quattro, cinque minuti, e il suono diventa più cattivo, più pesante, più oscuro (a momenti, fin troppo). Se () era il manifesto di una terra misteriosa dove, a momenti, si aprivano scenari di inattesa e rilassata bellezza, Kveikur esplora il lato oscuro di quella stessa terra, spalando detriti sotto cui si celano segreti inquietanti e orrorifici. La copertina fa paura, le canzoni fanno paura, annullando tutto quello che fanno questi gruppetti deathblackfuckingsatanickillingmetal scandinavi che da vent'anni fanno casino e, detto in tutta sincerità da uno che non ha problemi di mente, hanno rotto il cazzo. E anche se i Sigur Ròs migliori rimangono quelli più meditativi di Valtari e che ai concerti pretendono ancora un religioso silenzio nonostante il pubblico peggiori di anno in anno, Kveikur convince, trovando in Brennistein, Yfirboro, Rafstaumur e nella title-track dei meravigliosi punti di forza, che danno ulteriore lustro a quello che è sound sempre avanti e che non trova ancora la dovuta comprensione non tanto per colpa della band, quanto per colpa di ascoltatori bovini, prigionieri di ascolti ormai sbagliati.

lunedì 17 giugno 2013

Sognando i sognatori [Ombre elettriche]

Breve premessa giustificatoria

Decido di partecipare ad un concorso di critica indetto dall'autorevole settimanale di cinema FilmTv. Titolo dell'iniziativa è Il migliore del millennio: consiste nello scegliere il film italiano che si reputa essere il migliore uscito fra il 2000 e il 2012 e parlarne, con totale libertà contenutistica, in uno spazio che non superi le cinquecento battute. Il premio in palio? A fine agosto potrebbero pubblicare, fra le altre, la mia nota critica sulla rivista. 
Ho scelto The Dreamers di Bertolucci, che è uscito esattamente dieci anni fa e che rappresenta uno dei punti fermi della mia crescita non solo di spettatore, ma anche di individuo. Così, per giorni, mi sono abbandonato ad un flusso di pensieri, ricordi e visioni riguardanti questo film: le righe che seguono (dalle quali ho poi tirato fuori il pezzo per la rivista) altro non sono che la traduzione in linguaggio scritto delle mie personalissime impressioni scaturite dalla visione decennale dell'opera. Mi scuso dunque con chi leggerà se certe parti gli appariranno un po' sibilline e l'aspetto più critico troppo condizionato dai valori di una soggettività della quale non avrei saputo fare a meno.
Buona lettura.

SOGNANDO I SOGNATORI
ossia 2003-2013: DIECI ANNI DI "THE DREAMERS"
ovvero "THE DREAMERS" E LA REALTA' OLTRE LO SCHERMO

"Essere al cinema vuol dire sognare ad occhi aperti, tutti insieme, lo stesso sogno. Che è il film."
                                                                                                                                       Bernardo Bertolucci

A lungo ho sognato di fare il bagno come i sognatori. Il problema è che quando si arriva a farlo nella realtà o c'è qualcuno di troppo o la vasca è troppo piccola. 
Ma il cinema non pone i problemi che ci pone ogni giorno la vita. Forse è anche per questo che io, come Matthew, Theo e Isabelle in The Dreamers, ma anche come Groucho Marx e tanti altri, considero il cinema come un qualcosa di qualitativamente superiore alla vita. Trame, personaggi, colori: il cinema non solo ci mostra come dovrebbe essere l'esistenza, ma ci insegna come essa andrebbe vissuta. Per molto tempo, e ogni tanto anche adesso, vorrei ritrovarmi sotto quella pioggia meravigliosa con i capelli bagnati, Eva Green che mi bacia e Queen Jane Approximately come colonna sonora che esce fuori dai vicoli o scende direttamente dal cielo. Ma il fatto che io non abbia mai baciato Eva Green, che quando sia stato a Parigi (ormai più di cinque anni fa) non sia mai piovuto e che una delle mie canzoni preferite di Dylan non sia mai scesa dal cielo non significa che io, spettatore e in secondo luogo essere vivente, non abbia mai provato le sensazioni che prova Matthew in quella scena: perchè possono cambiare luogo, ambientazione, attori, colonna sonora, epoca, ma la sensazione di voler rivivere quella manciata di fotogrammi, fosse anche solo per un minuto, rimane. Non si tratta mai di emulazione fallita: i tre giovani cinefili protagonisti di The Dreamers non "mimano" mai un film per gioco, ma lo prendono sul serio, andando a infrangere regole morali e tabù. The Dreamers parla prevalentemente di trasgressione, di punti di rottura: punti di rottura familiari (l'incesto, l'odio verso i genitori), sessuali (l'iniziazione dei protagonisti, che vivono appunto la loro prima volta come penitenza per aver perso ad un gioco cinematografico), storici (sullo sfondo abbiamo il maggio francese). Ecco, è interessante come anche qui, come già successo in Ultimo tango, Bertolucci metta in secondo piano la Storia: apparentemente, The Dreamers, potrebbe anche essere un film sul '68, quando non è così. Non è il racconto della memoria pubblica ad interessarlo, quanto quello di una memoria intima triangolare (i due gemelli e l'americano). E così tutto il film finisce col reggersi su tre punti: il cinema, la storia e l'eros, e questi tre punti sono tutti in contraddizione fra di loro. A Matthew, Theo e Isabelle, infatti, non interessa sapere cosa stia succedendo nel mondo: loro stanno bene nella trincea domestica borghese,  giocano a fare i maoisti mentre fuori c'è la rivoluzione. Al rifiuto della politica attiva, al preferire le parole ai fatti, al costruire rapporti di amore puro, si accompagna una fervente attrazione erotica che viene a crearsi grazie al cinema e che finirà là dove l'amore per il cinema prevale. 
Quando ho visto il film per la prima volta non avevo ancora compiuto quattordici anni, e mi interessava molto di più scoprire le innumerevoli citazioni di Truffaut e Godard (dei quali mi ero letteralmente nutrito per tutte le scuole medie, attingendo alla collezione di VHS di famiglia) e vedere magari le bellissime poppe di Eva Green che entrare nella psicologia dei personaggi. Invece, già due anni dopo, tutto era cambiato: lo vidi durante il passaggio (mutilato e censurato) in prima visione TV e rimasi sconvolto da tutta una serie di dialoghi e comportamenti, e fu proprio grazie al personaggio di Matthew che capii che nella vita non occorre avere qualcuno che ti ama moltissimo, e che può bastare qualcuno che ti ama. Capii più che mai che a Bertolucci non interessava parlare della rivoluzione, quanto usare, sfruttare la rivoluzione e che le rivoluzioni, di qualunque tipo o colore esse siano, sono molto meno importanti del cinema, così come le prove d'amore esistono, perchè sono concrete, l'amore invece no, perchè nessuno l'ha mai visto. Così, l'unica rivoluzione in atto nel film è quella personale, intima, quella che coinvolge e sconvolge i tre protagonisti. Il nichilismo ostentato da questi personaggi, questa volontà  di sincero, genuino autolesionismo demoliscono una realtà che non vale più niente, tirando su un muro fisico e metaforico che li allontana ogni giorno di più da quell'innocenza ormai lontana. Il mondo di The Dreamers è un microcosmo dove l'inesistenza di un Dio e l'annullamento di tutte le possibili forme di gerarchia sociale e familiare sono postulati di preferenza assoluta, che trovano un loro preciso ordine solo nella pratica amorosa e cinematografica: amore e cinema, prove di amore e prove di cinema. La cruda realtà quotidiana è quella che sfonda la finestra di casa alla fine del film sottoforma di un sasso, facendo calare nel caos il triplice giro di vite dei giovani e riportando un caotico ordine storico in un universo che ha goduto di armonia propria fino a quel momento. I fazzoletti, le molotov, le barricate, lo scontro finale con la polizia si impongono come spiriti tangibili dell'ineffabile morte dell'amore, della giovinezza e, sì, anche del cinema, celebrati fino a poco prima in un rito sancito dall'unione di sperma e sangue. Gli stadi evolutivi attraversati dai tre durante il maggio francese portano ad una maturità che non è coscienza di sè, ma solo scompiglio e paura, in un mondo dettato da una casualità che neanche il cinema è in grado di immortalare e restituire ai suoi spettatori. E se Bertolucci faceva dire già in Io ballo da sola (1996) all'anziano ex-sognatore Jean Marais le importanti parole <<Vi amavo tutti, quando eravate vivi>>, solo con The Dreamers possiamo realizzare che chi ha davvero sognato, amato e vissuto in un certo modo è morto e che l'unico modo in cui possiamo ancora condividere le sue esperienze e i suoi ricordi è solo grazie al cinema.




sabato 15 giugno 2013

[Recensione] The Bay

Peccato.
Eppure stava andando tutto così bene. 
Certo, in questi primi sei mesi del 2013 è già uscita tanta spazzatura horror, ma un film come Le streghe di Salem (e in misura minore anche La madre) è riuscito a spazzare tutto via, facendo in modo che, una volta tanto, un vero horror arrivi nelle sale di tutto il mondo. Non potevano lasciare le cose come erano, no? Non potevano far sì che da una parte ci fossero persone come Rob Zombie e dall'altra produttori idioti che vogliono nuovi sequel dei capolavori di Hooper o squallidi remake (elogiati da un pubblico distorto) dell'opera maxima di Raimi? No.
E così, puntualmente, ci vuole l'horror P.O.V., che altro non è che l'acronimo di Point Of View, tecnica  predisposta più al porno che all'horror, nonostante siano generi per molti versi vicini: peccato che, mentre i film a luci rosse P.O.V. sono quasi tutti molto piacevoli da vedere, opere come i vari Paranormal Activity, Paranormal Entity, REC e compagnia bella sono da evitare come la peste bubbonica. Sin da quando uscì REC 2 mi venne da fare subito un paragone fra questo nuovo corso di cinema di paura con ciò che aveva rappresentato Twilight per i film sui vampiri: per quanto lo trovi detestabile, Twilight è stato il male minore, così come Paranormal Activity per gli horror P.O.V.; d'altro canto, i veri problemi iniziano a sorgere quando ad Hollywood si pensa ad opere come Cappuccetto rosso sangue o i sequel di Paranormal Activity. E come spesso accade il "peccato" artistico non è tanto quello originario, quanto quello che scaturisce dall'originario. Ma questo nessuno lo vuole capire, e così si continua a far girare film in P.O.V., anche ad un regista come Levinson, che arriva nelle sale italiane con The Bay.
The Bay tocca già nella trama le corde sbagliate, cercando di unire elementi di film "bio-catastrofici" (mi viene in mente l'ottimo Contagion di Soderbergh) alle atmosfere degne di Paranormal Entity. E poi, già che c'è, ci butta dentro un po' di gioventù collegiale (la giornalista alle sue prime armi), un po' di politica (quella ci vuole sempre) e un po' di tragedia sociale. Dunque, in sintesi, cos'è The Bay? The Bay è la copia diretta da un immeritato premio Oscar (facile vincere con Rain Man, quando si sa che a Hollywood si vince solo parlando di handicappati ed ebrei, o anche di entrambe le cose se si è dei veri maestri) di quello che, nel 2007, è stato il film di genere P.O.V. definitivo, quello dopo il quale potevano chiudere tutto e non farne altri: sto parlando del meraviglioso Le cronache dei morti viventi di Romero, per il quale non saranno mai troppe le parole ben spese. Sostituite il parassita di The Bay con gli zombie, modificate gli effetti dell'epidemia e allargate un po' l'ambiente dove si svolge l'azione e otterrete una bruttissima copia del film di Romero. 
Così, l'ultima "fatica" di Levinson oltre a far cacare, è pure irrispettosa.

venerdì 14 giugno 2013

[Recensione] Star Trek- Into Darkness

A novembre compirò ventiquattro anni, e non sono abbastanza "vecchio" per potermi definire un fan della prima ora di Star Trek, nè abbastanza appassionato a questa storica serie per rientrare in quella schiera che i giornali definiscono "lo zoccolo duro dei fans": tuttavia, conosco molto bene la prima stagione (chiamiamola così, va') televisiva sulle avventure della Enterprise e ho visto, anche se con una certa fatica e in un ampio lasso di tempo, tutti e dieci i film girati fra il 1979 e il 2002, trovandoli perlopiù scadenti e privi dello spirito dell'originale trasmesso dalla NBC. Non considero brutte queste pellicole perchè sono un retromane marcio, come ce ne sono tanti: al contrario, le considero brutte perchè pur essendo film più "moderni" pensati per piacere ad un pubblico più "moderno" risultavano essere già ampiamente superati in tutti i loro aspetti al momento dell'uscita. 
Ma con il reboot del 2009 tutto è cambiato: è cambiato il destino cinematografico di Star Trek, così come è cambiato il destino professionale di J.J. Abrams, produttore, sceneggiatore e compositore divenuto regista nell'occasione dell'orrendo Mission Impossible: III (anche se il suo "Oscar della Merda" lo ha stravinto nel 2011 con Super 8). Abrams ha dimostrato di saper far rivivere sul grande schermo lo spirito di un telefilm iniziato più di quarant'anni prima (nel 1966, per l'esattezza), grazie al lavoro di truccatori, attori e sceneggiatori veramente in gamba. Ed è allo stesso team creativo che dobbiamo la realizzazione di questo sequel, del quale parlare non è di certo semplice. Non lo è perchè Into Darkness, per tanti versi, è nettamente superiore all'episodio di quattro anni fa, mentre per altri è un film che ha ben poco da aggiungere sia alla saga fantascientifica che alla carriera del futuro regista di Star Wars VII.
Il film parte "in quinta", con un inseguimento à la 007 su Nibiru, un pianeta pseudo-tribale dove la ciurma dell'Enterprise si è recata per scongiurare una catastrofe socio-geologica: Kirk & co., infatti, devono neutralizzare un vulcano che potrebbe esplodere annientando ogni forma di vita sul pianeta. Gli aborigeni sono buffi, Spock rischia di morire, viene salvato da Kirk, litiga con Nyota e salva il pianeta. A questo punto Into Darkness può iniziare, supportato dalla superba colonna sonora firmata da Michael Giacchino. Passano altri due minuti e conosciamo il cattivone del film, cioè il signor Khan.
Khan?
Quel Khan?
Khan quello di Star Trek II- L'ira di Khan?
Sì, esattamente lui. Anche stavolta è il più forte di tutti, spacca tutto e vuole conquistare tutto. Ma non vorrei essere riduttivo: è un cattivo vero, non ridicolo, non divertente, non avvicinabile al Loki degli Avengers (tanto per citare il cattivo stupido che troviamo in un certo tipo di cinefumetto). La furbata autoriale di Abrams, la forza di questo secondo capitolo, risiede proprio in Khan, in questo antagonista che per tanti versi ha delle affinità col protagonista, al quale pare contrapporsi ma con cui ottiene un ruolo praticamente da comprimario. Non è un caso se tutta la seconda parte del film si basa sul proverbio, recitato proprio da Kirk, "i nemici dei miei nemici sono miei amici". Ma Khan è cattivo fino in fondo, e non c'è spazio per allearsi, somigliarsi, volersi bene. Così come non c'è tempo o occasione per essere eroici. C'è ben poco di eroico nello scontro fra Khan e Spock: Star Trek non è Spielberg, e i protagonisti non vivono in un quadretto guerrafondaio dove l'eroe è colui che muore al rallentatore avvolto in una bandiera a stelle e strisce e abbracciando la morte. In Into Darkness si muore provando rabbia, la rabbia di coloro che non ce la stanno facendo e che sono costretti, dal destino, a lasciare questa dimensione. E anche se questo film presenta una delle sceneggiature più campate per aria della storia (con "campate per aria" intendo dire "basate quasi esclusivamente sulla botta di culo, sulla fortuna e, nei casi più estremi, sulla coincidenza"), il risultato soddisfa e lascia allo spettatore almeno due o tre certezze:
1) esisterà sicuramente un nuovo Star Trek III in un prossimo futuro.
2) Abrams potrà dirigere usando anche solo la mano sinistra Star Wars VII, ma a condizione che lasci a casa il trio Orci-Lindelof-Burk, la cui formula stilistica priva di strutture logiche lascia il tempo che trova già in un film come questo, e dunque mal si presterebbe al seguito de Il ritorno dello Jedi.
3) gli effetti speciali sono belli ma meno esagerati rispetto alla maggior parte della spazzatura sci-fi che esce ai giorni nostri (mi viene in mente proprio il recente After Earth), ma questo è uno dei grandi pregi di Into Darkness, che mantiene anche sul piano tecnico (nonostante sia stato girato interamente in IMAX) un certo tradizionalismo che di questi tempi non può che fare del bene al cinema di genere.

mercoledì 12 giugno 2013

[Recensione] After Earth

Sempre meno persone vanno al cinema.
Sempre meno persone vanno al cinema per vedere un buon film.
Sempre meno persone sanno che cosa sia un buon film.
Non voglio dire questo perchè i miei gusti sono per forza migliori degli altri, ma per il semplice motivo che- grazie a dio -esistono degli strumenti con cui poter giudicare oggettivamente un film, decidendo se questo è bello o brutto. Mi metto dunque nei panni di un ipotetico bravo e povero studente di cinema (la maggior parte di quelli che conosco sono degli ambiziosi sfaticati con l'aria intellettuale che non hanno una vita sessuale, si lamentano quando devono vedere un film di Lang e meriterebbero di lavorare in miniera per il resto dei loro giorni, quando invece, se le cose vanno davvero male, diventano anche registi; ma se siete interessati alla questione, correte a vedere l'archetipo degli studenti di cinema contemporanei, e cioè Barbie Xanax, su YouTube), che va in sala a vedere After Earth. All'uscita, uno stuolo di trentenni annoiati dall'alienante routine che hanno votato M5S e ora pretendono aumenti di stipendio senza avere mai aperto un libro in vita loro circonda lo studente di cinema, intento a vomitare in un posacenere in ceramica: <<Hai visto che bel film, cazzo? C'è l'azione, ma alla fine parla del rapporto padre e figlio, cazzo! Un po' come quello bellissimo, cazzo... come cazzo si chiamava, cazzo?!>>, un altro interviene esclamando <<La ricerca della felicità, cazzo!>>, e l'altro replica <<Hai ragione, cazzo! Non mi veniva, cazzo! Comunque, alla fine parla di quello, cazzo. E tu pensa che per farlo capire anche meglio Will Smith ha davvero usato il suo figlio, cazzo!>>, dopodichè tutti si abbandonano ad un elogio delle qualità di grande attore di Will Smith. Lo studente è a terra, inerme, che cerca di trovare un lavoro decente nella filmografia di Will Smith. Gli viene in mente solo il primo Man In Black, perchè del resto, signori, quello e basta ha fatto di buono nella sua carriera l'attore di colore più pagato di Hollywood. Se fosse stato basso, rachitico e bianco, Will Smith avrebbe sicuramente fatto il mestiere di Giacomo Poretti in Chiedimi se sono felice: il doppiatore di quelli che tossiscono. Ci può stare che un attore non sia bravo, ma la cosa più grave è che a lui venga associata l'idea di "buon film", e After Earth non ha fatto eccezione. E ovviamente siamo di fronte alla storiella buonista del cazzo, ambientata mille anni dopo la fine del mondo e con padre e figlio simili a venditori ambulanti di borse di Sbucci solo con tute da astronauti del Terzo Millennio che tornano a pascolare sul pianeta in cui ha avuto origine la loro razza. Purtroppo non esistono modi per spiegare a chi apprezza film come questo (e più in generale, i film con Will Smith) quanto  essi siano brutti, inutili, aberranti e quanto quei 100 minuti di effetti sonori, visivi e schianti non eccitino, ma in realtà appiattiscano anche la più lenta di tutte le attività cerebrali. A questo punto lo studente ha due scelte: o tira fuori dalla tasca una pistola e spara agli amanti di "Muccino ft. Will Smith", o se ne va a casa, a scrivere un paragone fra sesso e cinema (del tipo "Come mai non sono stato a casa a farmi una sega?") e a masturbarsi in modo divino, evidenziando che se After Earth fosse un amplesso, sarebbe un amplesso di bassissimo livello, e che dunque- come dicono a Livorno -"è sempre meglio una bella sega di una brutta trombata".

lunedì 10 giugno 2013

Beady Eye, "BE" [Suggestioni uditive]


BEADY EYE, "BE" (Columbia, 2013)
½


<<Bisogna saper scegliere in tempo/non arrivarci per contrarietà>> cantava Guccini in Eskimo: e così, anche per chi come me è stato uno psuedo-fan storico degli Oasis, dopo quel maledetto 28 agosto 2009,  è stato difficile scegliere chi dei due Gallagher continuare a seguire. Da una parte, avevamo l'appeal da animale da palcoscenico grintoso ed elegante di Liam, dall'altra l'introversione (personale e artistica) di Noel, il più maturo e per molti versi anche l'unico più geniale (ha scritto l'80% del catalogo Oasis e ha cantato, con buona pace del fratellino, quella che è forse la mia canzone preferita del gruppo, e cioè Don't Look Back In Anger). Nella mia sterminata incoscienza mi sono affidato a Liam e ai suoi Beady Eye, che già nel 2011 dimostravano una palese incapacità di conciliare lo smisurato ego del frontman con la sua devozione nei confronti di Lennon, l'aspetto più tradizionale di una musica britannica fino al midollo con scelte artistiche orientate verso un sound in grado di scalare, con quell'odiosa aria trasudante di vintage, le classifiche pop internazionali. Il risultato è stato Different Gear, Still Speeding, disco di cui si è parlato anche troppo senza che ci fosse nulla da dire in realtà, visto che si tratta di un lavoro veramente pessimo. A far accrescere la mediocrità dei Beady Eye e della loro musica è intervenuto, nell'ottobre di quello stesso anno, Noel Gallagher, che con il suo debutto solista (Noel Gallagher's High Flying Birds) ha non solo rimarcato le incapacità della band del fratellino, ma anche la sua netta superiorità artistica: infatti, pur non essendo un capolavoro, l'album poteva contare su grandi singoli, sta invecchiando bene e risulta tuttora ottimo. A fronte del successo di critica riscosso da Noel (e dimostrato dal milione di copie vendute, a fronte delle poche centinaia di migliaia dei Beady Eye), quelli che si erano schierati inizialmente dalla parte di Liam, si sono ricreduti e, colti dai sensi di colpa, sono corsi in massa ad acquistare interi box di biglietti del tour di Noel.
Da oggi, Noel Gallagher potrà essere ritenuto più che mai il vero genio dei vecchi Oasis, visto che BE, nuova "fatica" in studio dei Beady Eye, è appena uscito e sta già mostrando tutta la sua inconsistenza. Ora, va detto che in molti hanno puntato il dito sul fatto che BE sia più unitario e migliore rispetto all'opera di esordio: e su questo posso essere d'accordo, visto che da Flick On The Finger fino alla conclusiva Start Enew, i Beady Eye rimangono gli stessi e non saltano all'orecchio bruschi cambi di stile o inattese metamorfosi sonore. Inoltre, Dave Sitek (già con Tv On The Radio, Jane's Addiction e Yeah Yeah Yeahs) è un produttore eccellente, come ce ne sono pochi al giorno d'oggi, quando l'unica cosa importante è fare un pacchettino carino che conquisti le classifiche. Se nell'album precedente il problema era forma e contenuto, qui è solo il contenuto. Dunque basta con la falsa psichedelia post-moderna di Start Anew, basta con le storielline sul rapporto Caino-Abele (l'interminabile Don't Brother Me), basta con questa smania di omaggiare i Beatles a tutti i costi (Second Bite Of The Apple) o ancora peggio di plagiare gli Stones (Shine A Light). Più semplicemente, basta con Liam Gallagher che pretende ancora di comporre, suonare e fare la sua musica con la sua band. 
Ma io dico: i cappellini della Pretty Green erano così belli. Non poteva continuare a fare lo stilista, no?

venerdì 7 giugno 2013

Sweet Home Agrestone [Extra]

All'inizio c'erano solo tre o quattro palazzi, e intorno solo cantieri, cemento e qualche rimasuglio floreale. Bastava fare pochi metri per affacciarsi sugli enormi campi che circondavano tre quarti del perimetro del quartiere. Era il dicembre del 1995 e la nostra nuova casa era praticamente pronta per essere abitata: a parte un paio di amici, non lasciavo nulla di importante nella mia vecchia abitazione, e in questa zona nuova, sconosciuta fino a poco tempo prima anche a buona parte dei colligiani, mi sentivo un po' come un piccolo sovrano. E poi eravamo passati da un appartamento di due camere, un bagno e un garage ad una casa grande il doppio, il che bastava e avanzava come motivo di vanto nei confronti dei miei ex-compagni di giochi, rimasti prigionieri di orrendi palazzine stile anni '70. 
Al contrario di Celentano ne Il ragazzo della via Gluck, io abbracciavo il cemento, non piangevo, non provavo invidia nè nostalgia e accettavo la realtà per quello che era. Dai vetri nuovi di zecca della mia "fortezza" non vedevo niente all'infuori dei camion delle ditte che avrebbero costruito il quartiere (l'ultimo palazzo è stato concluso meno di quattro mesi fa). Sono cresciuto in mezzo al rumore dei macchinari da cantiere e non so come ho fatto a non impazzire nel triennio 1995-1998, anni in cui sono stati costruiti altri quattro grandi palazzi attorno al mio.  Ho visto sorgere la "piazzetta" e la "pistina", testata personalmente con le mountain-bike da noi bambini del quartiere, ho visto nascere quattro vie, ho visto crescere gli alberi del piccolo parco e ho visto sistemare le sculture in marmo di Mauro Berrettini all'interno del "boschetto", ho visto edificare- fra le polemiche dei benpensanti arricchiti e forse convinti di vivere a Gstaad -due case popolari, ho visto innalzarsi giorno per giorno il piccolo "grattacielo" e un altrettanto piccolo "centro commerciale", alle cui fondamenta si trovavano dei garage privati il cui accesso, anni fa, era "facilitato" per noi adolescenti nella stagione degli amori, ho visto aumentare il numero degli abitanti del quartiere dai centoventi del '95 agli attuali tremila. 
Mentre i quartieri extraurbani delle grandi città italiane sono cresciuti come prolungamenti di un hinterland già compromesso, la mia periferia è nata dal nulla e sul nulla, un po' come succede in Svezia con le periferie pure. A tenere insieme questa struttura parallelepipeda c'è solo un manto di asfalto, una strada satellitare che porta da via Bologna a via Milano, da via Milano a via Firenze, da via Firenze a via Genova e da via Genova le opzioni sono due: o di nuovo via Bologna o la libertà. Da quando ho l'automobile, guardo in maniera diversa questa strada, che altro non è che una semplice arteria, ampia e composta da tre rettilinei con lunghe file di lampioni poste ai suoi lati: insomma, è quel tipo di strada che, se la si osserva in un'immagine fissa, non fa pensare ad alcun luogo preciso. Che sia un'assolata giornata estiva o una nebbiosa e tetra notte invernale, non riesco a credere che sto attraversando un luogo che nel medioevo chiamavano Florentia di Gracciano, famoso per le sue distese di campi e fiori. La strada che faccio ogni giorno è satellitare perchè non sembra appartenere alle comuni classificazioni etnico-geografiche terrestri. Così, inconsapevolmente, mi ritrovo a vivere in una sorta di metafisica della periferia provinciale, esente da ogni stucchevole riferimento storico-artistico fatto di archi romanici o gotici, colonnini, chiesette, piazzette, portici e statuette. L'oscurità che circonda questa strada azzera i dintorni: dunque il mio quartiere potrebbe essere circondato da laghi, mari, deserti, montagne. Guardo le panchine in marmo e i cestini volutamente arrugginiti e penso che i concetti di "oriente" e "occidente", di "nord" e "sud" vengano inesorabilmente a mancare, uccisi da questo alone di "Mondo Asfaltato 2.0". I fruitori domenicali dell'arte vanno ad ammirare le sculture donatelliane che circondano la chiesa di Orsanmichele, senza essere disturbati dal fatto che su di esse, quando cala la sera, si rispecchiano le luci di un grande negozio di intimo posto di fronte: ma a loro basta emulare la sindrome di Stendhal, fare foto da modificare con Instagram e taggarsi su Facebook in un determinato luogo. Tutte cose che nel mio quartiere non verranno mai a fare, visto che si tratta di un non-luogo, e i non-luoghi mal si prestano al tag fighetto di chi fa il week-end lungo. Alla fine, vivo davvero in una parte della provincia dove già alle soglie del 2000 trionfava un international style ostico, antistorico, antinaturalistico e antipatriottico. Forse è anche per questo che quando fu edificata la prima delle due discusse case popolari, nel 2001, i nuovi arrivati marocchini, tunisini ed egiziani si ambientarono subito molto bene. Basta  consultare Google Street-View per accorgersi di come le periferie di Rabat, Tunisi e Il Cairo non siano poi tanto diverse dalle nostre: solo che, al contrario di quello che si può supporre, i tg nord-africani non mostrano mai piramidi, moschee, obelischi e altra paccottiglia che viene relegata nei pacchetti all-inclusive di noi "occidentali", e a questo prontuario di luoghi comuni vengono preferite le immagini delle periferie di più recente costruzione , un po' per orgoglio modernista, un po' per recondito desiderio di occidentalizzazione. Del resto, l'imprenditore leghista che pretende l'appartamento ultramoderno dalle forme geometriche "molto minimal con spazi molto vuoti" verrebbe colto da un malore se sapesse che proprio i musulmani hanno ricercato per primi un'arte dove lo stesso fregio veniva ripetuto per decine e decine di metri, senza minimamente accennare all'iconografia umana. 
Un tramonto all'Agrestone
Per arrivare in macchina al mio quartiere passando dalle vie d'accesso principali occorre o attraversare  vecchie zone residenziali volute dalla borghesia cattocomunista locale dei magici anni '80 o svoltare ad un'ampia rotatoria trafficata a qualunque ora del giorno e della notte; ed è sostando a questa rotatoria che dall'abitacolo dell'automobile si può scorgere la fauna del posto. Dal lato opposto al nostro, arriva ad alta velocità- gomito fuori dal finestrino anche a gennaio -un tipo con occhi convergenti e piercing ovunque,che ci delizia coi pezzi di Radio M2O sparati a tutto volume, in un tripudio di bassi; la sua macchina (solitamente un modello che ha meno di dieci anni) è ricoperta di adesivi da pseudo-rally e spoiler. Di fronte a noi, una famiglia di marocchini occupa una Fiesta di quarta mano e, se è estate, rotea quasi impercettibilmente la testa al ritmo di cassette consunte di musica maghrebina; le casse gracchiano, il tubo di scappamento emana un fumo degno di una "braciata" del primo maggio e l'auto riparte a fatica, procedendo a 30 chilometri orari. Se invece osserviamo lo specchieto retrovisore, possiamo scorgere il muso del SUV di qualche contadino arricchito: se questi ha passato i cinquanta, giocherella con una moneta da due centesimi raccolta poco prima alla casa dell'acqua ripetendo mentalmente il motto <<2 centesimi oggi, 2 centesimi domani...>>, mentre, se è più giovane, avrà il viso dello stesso colore degli interni in radica della sua automobile e penserà a <<quei mentecatti maghrebini di merda>> che magari, pur nella loro miseria, condividono con lui un condominio. 
Un capodanno all'Agrestone
Anche muoversi a piedi per un quartiere come il mio necessita di almeno un minimo di preparazione: non tanto per la presunta delinquenza (siamo fermi ai lampioni rotti) che, di quando in quando, le cronache locali e le ridicole liste civiche evidenziano, quanto per il vuoto che viene a riempire queste "missioni serali". Dal momento in cui decido di uscire a piedi per il quartiere, compio una sola scelta programmatica: il non adottare alcun programma. Può sembrare folle, forse triste, ma non è assolutamente così; anzi, sono notti appaganti, spoglie di ogni obbiettivo, cariche di un fascino interstellare tutto loro. Si tratta solo di microspostamenti ripetuti ma piacevoli nella loro ripetività, visto che la presenza di una meta guasterebbe il tutto, che poi è quanto succede in quei brani techno il cui autore pare aver assorbito i princìpi dei princìpi del suono e si perde in lunghi minutaggi fatti di cellule ripetute, come in un estenuante "copia e incolla". Il quartiere viene così attraversato in lungo e in largo, compiendo spesso giri privi di senso logico e oggetti come il distributore di sigarette automatico o i tavoli della Coca-Cola posti fuori dal bar assumono, di notte, un aspetto diverso da quello diurno e molto più attraente. E visto che nove abitanti su dieci sono ignoranti e hanno paura dei ladri, degli zingari e dei comunisti, nessuno ama uscire la sera dopo le 22:30, il che è tutto riguadagnato per chi, come me, non ha mai messo piede nell'oratorio ricavato anni or sono in uno dei vani del centro commerciale, o per tutti coloro che non hanno mai partecipato al famigerato torneo estivo al "campino", o ancora per quelli che la domenica mattina non hanno l'urgenza di svegliarsi per andare a suonare la chitarra in chiesa e per intonare <<Resta-con-noi-o-mio-signore>>. Mi dispiace, ma disprezzando in toto il cattolicesimo, detesto gli atroci canti da scout rionali e le messe beat che si tengono nel quartiere, così come trovo deplorevole, nelle rare mattine in cui mi sveglio di buon'ora, incrociare anche solo lo sguardo di quei tristi individui che non escono praticamente mai, se non per dedicarsi con una devozione che odora lontanamente di pederastia alla vita in parrocchia e che, nelle afose serate estive, mentre il parroco è a caccia di dodicenni sulle spiagge della Thailandia, decidono di "evadere" dal loro modo di essere e di darsi alla pazza gioia, ballando sui tavoli di qualche finto pub irlandese (<<perchè anche gli irlandesi sono cattolici>>), urlando nei microfoni di qualche karaoke e assumendo grassi animali e carboidrati anche dopo la mezzanotte.  
Il Drago delle Esperidi di Berrettini
Cammino e cammino, perfino nelle notti più fredde di dicembre. Sosto di fronte al Drago delle Esperidi  del Berrettini: sedici metri di lunghezza per una scultura che è stata pensata per invogliare al gioco ma che si è ritrovata ad essere letteralmente ricoperta di frasi sgrammaticate e vuote. Proseguo pochi metri più avanti e trovo le "quattro panche d'autore" sulle quali anch'io ho lasciato, a suo tempo, il (di)segno e la Civetta, a simboleggiare una sapienza che nella realtà non esiste. Alla fine, in quel microcosmo asfaltato che è il quartiere, anche le sculture del Berrettini assumono un valore metafisico: eliminando la componente umana, eliminano il disordine. La metafisica non è mai disordinata, e anche laddove c'è ammasso di oggetti (tipo i sedici metri di tasselli marmorei del Drago) quella che a noi sembra casualità nasconde un  misterioso ordine sovrannaturale. Sbagliano i vecchietti che siedono sulle "panche d'autore" e che in luglio si fanno mangiare vivi dalle zanzare a dire <<A me queste statue paian buttate lì a caso>>, perchè il caso non dovrebbe esistere nella metafisica, così come nella metafisica non dovrebbero esistere le domande. Nessuno sembra essersi mai domandato il perchè compaiono i mobili o i manichini nella valle di De Chirico: e dunque perchè chiedersi il significato del Fiore verde, una delle sculture più astratte presenti all'Agrestone?


Chissà che ruolo darebbe all'Agrestone Carlo Cassola se fosse ancora vivo e dovesse riscrivere oggi il suo romanzo più famoso (La ragazza di Bube, uscito nel 1960 e ambientato proprio a Colle). Proprio lui che, ne La visita (Einaudi, 1982), avrebbe lasciato scritto <<Amo la periferia più della città. Amo tutte le cose che stanno ai margini>>. Magari Mara Castellucci non passerebbe le notti insonni ad angosciarsi sul destino del suo amato Bube, perchè, abitando in quartiere che- con la sua altezza di 241 metri sul livello del mare -garantisce un segnale ottimo, potrà inviare quanti SMS vuole; oppure sarà proprio durante una spesa veloce alla rosticceria Il Girasole che incontrerà Stefano. In fondo, la collina sulla quale sorge il quartiere non somiglia affatto ad un'eremitica meta vacanziera di ricche signore che vanno a ritrovarsi nei monaci buddisti, e ricorda piuttosto una riproduzione in scala H0 delle hills che circondano Los Angeles, con le luci arancioni della città che si stagliano alte nel cielo, oltre la cortina verdastra di smog. E magari proprio allora Mara capirà che il mondo è ancora un posto meraviglioso dove vivere. 
Una nevicata all'Agrestone


giovedì 6 giugno 2013

Boards Of Canada, "Tomorrow's Harvest" [Suggestioni uditive]

BOARDS OF CANADA, "Tomorrow's Harvest" (Warp, 2013)

★★★★★





















Per tutti coloro che si intendono di elettronica, Warp è sinonimo di originalità, eccellenza ed esclusività. Il suo non è di certo un catalogo ricchissimo, ma vanta forse i migliori nomi della IDM, oltre ad avere il merito di aver scoperto moltissimi grandi musicisti in ventiquattro anni di attività e di avere addirittura dato fiducia ad artisti famosissimi che mostravano ormai una certa penuria di idee (mi riferisco, in particolar modo, all'ultimo periodo di Brian Eno, che proprio grazie alla casa discografica di Sheffield ha avuto modo di tornare a sperimentare seriamente e senza vincoli). Seguo la Warp dal 2007, e trovo che sia molto più di una semplice casa discografica: soprattutto nei primi anni '90, essere sotto contratto con la Warp voleva dire appartenere ad un vero e proprio movimento; firmare per loro era come firmare un manifesto, e coloro che godevano di questo privilegio non erano semplici d.j., ma molto di più. 
Così, quando nel 1998 i fratelli scozzesi Sandison (fissati con i documentari del National Geographic degli anni '70 e con ben sette album auto-prodotti dalla loro etichetta Music70 fra il 1986 e il 1997 a nome Boards Of Canada) fanno ascoltare le demo di Music Has Right To The Children ai discografici, la Warp è la prima a metterli sotto contratto e a regalare al mondo uno dei più bei capitoli di musica Ambient di fine millennio. E così oggi, a distanza di quindici anni dall'uscita di quel capolavoro e a ben otto anni dalla pubblicazione di The Campfire Headphase (disco "minore" del duo che contiene tuttavia la superlativa Dayvan Cowboy), i Boards Of Canada sono rispuntati fuori dal nulla. E' successo sì e no a fine aprile, quando alla Radio BBC1 è stato annunciato un codice criptato da segnare su un apposito sito che permetteva l'accesso ad un video promozionale su YouTube e al pre-order su iTunes del nuovo album, Tomorrow's Harvest. A chi è fermo alle trovate disneyane degli One Direction questo potrà apparire assurdo, ma fidatevi: per i fratelli Sandison, veri isolazionisti nella vita di tutti i giorni così come nell'arte, è assolutamente normale. I Boards Of Canada hanno sempre detestato interviste, apparizioni tv e addirittura l'attività live, tant'è che dal 2001 sono assenti dal palco. Ma questo non significa che questo silenzio di otto anni si sia risolto con un disco fatto per meri bisogni alimentari. Anzi, Tomorrow's Harvest è un capolavoro di qualità sopraffina, la stessa che ha fatto di Geogaddi (2002) una pietra miliare della Downtempo e dell'IDM. Brani come il singolo Reach For The Dead o Split Of Infinities ci fanno lasciare il "campeggio" disegnato dalle ritmiche frammentarie e dai bassi soffusi del penultimo album, avvicinandoci ad una realtà impensabile, oscura, molto meno rassicurante di quella che si era potuta prospettare nei pezzi di otto, dieci anni fa. Pur non essendo nella maniera più assoluta un'opera "passatista", Tomorrow's Harvest abbraccia nuovamente quel pessimismo onirico e isolazionista tipico del vecchio Twoism (1995), solo che stavolta è un sentimento di matrice molto più umana e profonda: basta raffrontare le copertine. Twoism vedeva degli alieni vestiti da umani guardare la terra; Tomorrow's Harvest, grazie anche a pezzi quali Jacquard CaswayCome To Dust e Cold Earth, al contrario, rende l'ascoltatore l'unico alieno, e gli fa indossare occhiali speciali con cui specchiarsi nella natura che lo circonda. La conclusiva Serena Mertvykh non è poi tanto "serena", ma segna solo il passaggio dalle tenebre ad una condizione terrena molto poco rassicurante. Il documentario girato dagli scozzesi, stavolta, supera pienamente la realtà dell'oggetto. E il superamento pare essere riuscito magistralmente, viste le critiche internazionali più che ottime con cui è stato accolto l'inatteso ritorno dei Boards Of Canada. 

lunedì 3 giugno 2013

The Veils, "Time Stays, We Go" [Suggestioni uditive]

THE VEILS, "Time Stays, We Go" (Audioglobe, 2013)
★★




















Obiettività.
Ho bisogno di obiettività.
La parola chiave del momento, per me, è obiettività, specie se sono a scrivere dei The Veils e del loro nuovo album. 
La medicina migliore quando devi parlare male di un gruppo alla cui musica sei molto legato è l'obiettività.
Odio l'indie rock nel 96% delle sue incarnazioni, e disprezzo chi parla solo di band sconosciute ritenute capaci di produrre capolavori solo perchè band sconosciute. Odio l'indie perchè, parlando di cultura musicale, le mie radici affondano nel metal e nei musicisti classici vissuti fra Settecento e Ottocento: così, non ho mai capito certe sub-culture e loro non hanno mai capito me. Anzi, più che di comprensione parlerei direttamente di disprezzo. 
Ma non divaghiamo e parliamo della band del signor  Finn Andrews.  Ho sempre giudicato i neozelandesi Veils un gruppo non indie, o almeno così è stato fino al 2009, anno della pubblicazione di Sun Gangs, il terzo album che li ha allontanati dalla purezza alternative degli esordi e li ha inesorabilmente scaraventati nel calderone della figaggine da sfigati indie-rock. Ho smesso di interessarmi del tutto a loro dopo aver assistito ad un pezzo di un loro live: era dal concerto in Eurovisione dei Coldplay la scorsa estate che non vedevo uno spettacolo così mediocre. 
Tuttavia, quando ho saputo dell'uscita di Time Stays, We Go non ho saputo resistere, e complici le ottime recensioni (britanniche) sono andato a sentirlo. E sono sincero: a me tutti questi due o tre riff uno uguale all'altro che si ripetono all'infinito (<<perchè è il testo la cosa importante>>, come dicono tutti gli indie-fan), tutte queste chitarrine pallose, queste vocine sempre più "del cazzo" (peccato perchè la voce di Andrews riusciva a rendere salvabili anche i pezzi peggiori dei loro primi dischi), questi organetti falsi e suonati con Garage Band (quello per iPad, nemmeno per iMac) hanno veramente rotto i coglioni. Va bene, Another Night On Earth mi piace e per un attimo mi ha fatto quasi andare indietro nel tempo, immergendomi in quei meravigliosi golf a righe che andavano di moda anni fa. Through The Deep, Dark Wood è una ballata che può contare su una melodia accattivante e una solida base strumentale. Ma per il resto siamo nell'oblio sonoro più totale.
Per carità: siamo sempre un passo avanti rispetto a Sun Gangs (qui, se non altro, si può percepire una lontana volontà di un ritorno al sound dei primi due album), ma dopo quattro anni potevano lavorare meglio. Che prendano spunto dal passato, visto che di passato questi indie-rocker "vintagisti" sembrano viverci. Pensare che quando ascoltai per la prima volta i Veils pensai che fossero un gruppo dal quale potersi aspettare molto, ma erano i tempi di Nux Vomica (2006). Così come quando pescai, nel cesto delle offerte del Mercatone, il bellissimo esordio The Runaway Found (2004), che è una delle più belle creature di rock alternativo degli anni 2000. Ma ripeto: erano altri tempi, altri ascolti, altri momenti.
Peccato.

domenica 2 giugno 2013

[Recensione] Una notte da leoni 3

Con Una notte da leoni 2 (2011) Todd Phillips aveva toccato, senza "se" e senza "ma", il punto indiscutibilmente più basso della sua carriera registica. Scrivo questo perchè Una notte da leoni è stata una delle poche realtà interessanti nel campo della commedia di intrattenimento ad avere preso forma negli anni 2000, e mi è dispiaciuto vederla rovinata da un sequel neanche lontanamente all'altezza dell'originale. E visto che Phillips conosce bene i mezzi con cui far ridere in maniera sensata e non con le scoregge, nessuno si poteva aspettare una cafonata del livello del secondo film. A due anni esatti dal secondo capitolo, ecco dunque arrivare, per direttissima, il terzo e ultimo atto della goliardica saga di Alan, Phil e Stu (ah, e Doug, dimenticavo...). Ovviamente le aspettative sono basse, anzi bassissime: e invece, al contrario di ogni previsione, Una notte da leoni 3 convince, spiazza e- sebbene in misura minore rispetto al primo o anche ad altre perle phillipsiane -diverte.
Mentre il primo film era perfetto per quanto riguardava la dose di comicità e il secondo invece ne era drammaticamente sovraccarico, il terzo ne presenta un quantitativo notevolmente ridotto, ma solo per motivi legati alla trama, che si fa qui meno allegra e più cupa. Intanto, il film si apre con un Alan che sta male e che rifiuta le medicine, e quando suo padre muore di infarto la situazione degenera: la madre decide di farlo ricoverare in un centro psichiatrico in Arizona, dove lo dovranno accompagnare i suoi fidi amici. Peccato che durante il viaggio nel deserto i quattro leoni vengano intercettati da una squadra di malavitosi, convinti che Alan custodisca il segreto di mr. Chow (che intanto è evaso da un carcere di massima sicurezza). Doug, ovviamente, viene rapito, e gli altri tre iniziano una peregrinazione che li porterà prima in Messico, e poi di nuovo a Las Vegas, per chiudere definitivamente tutti i conti lasciati aperti col passato. E voi vi chiederete <<E la notte da leoni dov'è?>>. C'è anche quella, fidatevi...
Fra momenti spassosi (la giraffa, il funerale del padre, l'incontro amoroso al monte dei pegni) e delle buone scene di tensione, il protagonista indiscusso di tutto il film è Alan, che dall'inizio alla fine dà il meglio di sè. Gli altri hanno perso parecchio smalto (soprattutto Stu), così come Chow (ormai ridotto a odiosa e inutile macchietta) e le mogli dei protagonisti. Tuttavia, l'essenza di fondo della saga rimane intatta, grazie ad una pellicola che raggiunge e supera abbondantemente la sufficienza, aiutata anche dalla consueta colonna sonora di livello, tipica ormai di ogni pellicola "directed by Todd Phillips".

Il monologo dell'industriale [Trame]


PREMESSA

Questo surreale e strampalato monologo l'ho ritrovato scritto- in caratteri piccolissimi e quasi incomprensibili -su due pagine di un vecchio "diarietto". Come spesso succede, mi ero completamente dimenticato di averlo scritto, e la data mi ha veramente spiazzato: 6 luglio 2004. Quasi nove anni fa? In effetti, celate fra l'apparente non-sense e i numerosi punti-e-a-capo, ritrovo solo oggi le numerose passioni letterarie (Joyce) e musicali (Iron Maiden) di allora, e penso <<Ebbene sì. Quasi nove anni fa...>>.
Buona lettura.

IL MONOLOGO DELL'INDUSTRIALE

Non si vede un tubo. Mai vista una nebbia così. Non è nebbia?E' Golia che fa l'aerosol?
Studio come un matto per loro, ma se la nostra ditta non vuole usare la nostra idea produttiva, diamo le dimissioni e mettiamoci in proprio. Ma è immorale e da anni stiamo spiando il nemico, da duecento lunghi anni, e la nostra industria è ridotta a zero. In tanti mi parlano di onestà. L'onestà è un sogno che diventa peccato. La verità è che non ci sono più valori in cui credere.
Sono anni che lavoro per la PFPT e non mi sono mai lasciato sfuggire un sacchetto di carta. 
Le donne mi annusano e sono costrette alla totale anestesia. 
La gente ama pulirsi le orecchie e il naso durante il servizio pagamento. 
Mi vengono i crampi a stare a sedere. 
Abbiamo spie ovunque, anche  a Roma ed Alessandria, Alessandria d'Egitto. E i tg non parlano d'altro. I nostri negozi vendono stecchi e penne di tacchino.
Quando girano le riviste hot per gli uffici le tolgo a tutti e poi mi ritiro nello studio, a leggerle per conto mio. Colleziono elastici e giornali. 
Sento puzza di imbroglio da parte di tutti. Alle cene molti amici si portano accette e coltelli, e sventrano il ristorante. Tanto, dicono loro, siamo una grande azienda e possiamo permettercelo. Che schifo di industria è la nostra. 
Amo masticare i calzini, specialmente oggi che c'è quest'aria irrespirabile. 
Mai visto niente del genere. 
Non si vede un tubo. Mai vista una nebbia così. 
Non è nebbia?
E' Golia che fa l'aerosol?
Ma vaffanculo. E pensare che i gatti dormono con un occhio aperto: c'è scritto in questo libro. Lo scrittore è un americano, di nome McDonnell. O è inglese? Boh.
E' il primo libro che la nostra azienda produce, collaborando con una casa editrice americana. E' lungo cinquecentosessantuno pagine. Che cavolate racconta, questo McDonnell sulla vita degli animali. E' uno scrittore di cui so ben poco: ha scritto molti libri sull'egittologia e sulla vita degli indiani d'America e pure un saggio sulla meditazione. Non so altro.
Fatto sta che ora c'è anche da fare lo spot a questo libro. Chiamatelo fantastico!
Inizia con un gatto che sta su un pianoforte e osserva le mani tagliate di un essere umano suonare una tastiera infinita. Se ne va da questa casa, mentre due frati passano lungo la strada: e il gatto non si accorge che i frati sono morti. Nella casa davanti alla strada, un uomo affila alla ruota senza penumatico della bicicletta un rasoio e intanto guarda silenzioso la ragazza legata sulla sedia del suo soggiorno. Solo dopo averla mangiata e averne dato i resti a quel gatto, si corica, in compagnia della sua compagna più fedele: una mucca.
Insomma, questo volume è una boiata letteraria sulla vita degli animali domestici. Lasciamo perdere il libro, ci penserò dopo.
Dopo devo andare a comprare un disco ad un mio amico. Che gli compro?
Sono indeciso fra l'ultimo singolo di Ed Hunter e il vecchio album di Ed Hunter. Opterò per il caro Ed Hunter.
A più tardi.