venerdì 30 agosto 2013

Goodbye, Tweet! [Extra]

Sono uscito da Twitter, credo per sempre.
Il motivo? Twitter non si è rivelato essere quella splendida piattaforma di democrazia virtuale in cui mi ero registrato nel settembre 2011 (dunque prima di avere un profilo Facebook), nè il social network "alternativo" e geniale di cui avevo parlato anche qui sul blog
Al contrario di ogni ottimistica previsione, Twitter potrebbe essere il regno dei miei cuggini. Elio insegna che tutti abbiamo un cuggino, e perfino io, figlio di figli unici, ho passato la vita a inventarmeli: gli aneddoti che vedono protagonisti cuggini belli, colti, intelligenti, forti, ricchi e astuti hanno tempestato e continueranno a tempestare le vite di tutti noi, ed Elio ha anticipato di esattamente dieci anni l'essenza dell'utente medio di Twitter. Perchè è un mondo, quello dell'uccellino azzurro che cinguetta, dove tanti miei cuggini si piccano di sapere tutto e zittiscono con arroganza gli altri. Uno specchio falsato con cui mostrarsi al mondo ironici, politicamente corretti, simpatici, coltissimi, esterofili, liberali, poliglotti, superiori. 
Su Twitter più che in qualunque altro social network (ma solo per motivi di spazio) tutti si sforzano immensamente di farsi vedere migliori di quanto sono in realtà: così è facile imbattersi in losche universitarie fuori corso che- incuriosite dalla dicitura "comics writer" del tuo profilo -ti domandano se hai mai pensato di scrivere una graphic-novel sulla situazione iraniana. Tu rispondi che preferiresti lavorare con contratto a tempo indeterminato a RAI3, scrivendo sceneggiature per Un posto al sole, al che loro replicano con un <<Non so neanche cosa sia Un posto al sole!>>. In realtà lo sanno bene, anzi benissimo, visto che Twitter è pieno di gente che scrive di essere ad una conferenza sul femminicidio, quando in realtà piange, maxi-coppa di gelato alla mano, di fronte a Un posto al sole. Se però fosse vero che loro non conoscono le soap, i talk show e tante altre cafonate, non sentirebbero l'urgenza di sottolineare una certa lontananza da tutto ciò che risulta troppo popolare e che impedisce loro di imporre il proprio (presunto) spessore intellettuale.
Questo snobismo insostenibile, ipocrita e inutile mi ha spinto a chiudere il mio account, dopo quasi due anni. Tempo perso che d'ora in poi cercherò di impiegare meglio.
Magari guardando Un posto al sole.

lunedì 26 agosto 2013

Outsides EP [Suggestioni uditive]

JOHN FRUSCIANTE, "Outsides EP" (Record Collection, 2013)

½



A John Frusciante ha fatto bene uscire dal gruppo. Gli ha fatto bene soprattutto la prima volta, nel 1994, quando pubblica Nianda LaDes And Usually Just A T-Shirt, suo primo album solista e capolavoro di art-rock chitarristico di fine millennio.
A John Frusciante ha fatto male disintossicarsi. Gli ha fatto male perchè un album come Smile From The Streets You Hold, una cronaca personale scandita in diciassette brani di suoni avanguardistici e testi pensati come armi di liberazione dall'eroina, non ha di certo arrecato lustro alla sua carriera solista.
A John Frusciante ha fatto bene filtrare con l'elettronica (To Record Only Water For Ten Days è ancora là a dimostrarlo, nonostante siano passati dodici anni), circondarsi di musicisti che non si chiamano John Frusciante (Shadows Collide With People), fondare un gruppo (gli Ataxia, che vantano un disco meraviglioso come Automatic Writing), esagerare (solo nel 2004 ha inciso e pubblicato cinque album, fra cui il bellissimo DC EP e A Sphere In The Heart Of Silence, il disco in collaborazione con Josh Klinghoffer), dimostrare che alle volte basta una chitarra acustica per fare un buon lavoro (Curtains).
A John Frusciante ha fatto male essere uno dei pionieri dell'e-music, degli mp3 e degli Wav: il suo quarto album (From The Sounds Inside) si è rivelato un fallimento totale.
A John Frusciante ha fatto bene reinventarsi e approcciarsi al concept-album, visto che The Empyrean (2009) rappresenta uno dei punti più alti della sua produzione.
A John Frusciante ha fatto male uscire dal gruppo una seconda volta, dal momento che tutti si aspettano una grande opera di chitarra solista e lui se ne viene fuori con PBX Funicular Intaglio Zone, un dischetto crossover senza alcuna pretesa, preconfezionato, inutile, breve e ciò nonostante palloso all'inverosimile.
Outsides EP arriva in seguito a questa fase di smarrimento artistico: si apre con Same, strumentale di oltre dieci minuti molto ben riuscita e che ricorda le migliori improvvisazioni chitarristiche di fine anni novanta. Questo bel momento di art-rock lascia spazio a Breathiac, un vuoto e insulso plagio del miglior Squarepusher condensato in due minuti e quaranta. Le cose non migliorano con Shelf, che sembra arrivare dagli scarti degli scarti ritrovati in soffitta di Aphex Twin: a ben poco serve quella chitarra che, a intervalli regolari di due minuti, cerca faticosamente un ruolo fra bassi distorti, pianoforti elettrici e ritmi super-veloci. Se infine siete giapponesi, troverete la bonus track Sol, ibrido electro-jazz-classico che non solo vi farà pentire di essere nati nel paese del Sol Levante, ma che confermerà ulteriormente che questo Outsides frusciantiano non è originale, non è incomprensibile, non è bello, non è avanguardia del XXI secolo, non è indie, non è art, non è IDM, non è alternative: no.
E' soltanto inutile.




giovedì 22 agosto 2013

Il facocero [Trame]


PREMESSA

Cosa c'è di meglio di uno scritto invernale da pubblicare su Trame in pieno agosto? Nulla.
Ritrovato assieme ad altri tre, è il primo di un ciclo di racconti onirici. Gli altri conto di pubblicarli via via qui sul blog, ma intanto ecco Il facocero, scritto nel gennaio del 2005. Buona lettura.

IL FACOCERO

Era una notte più nebbiosa che buia e tempestosa, quando il telefono di Sandro Gambadipesce squillò. E fu subito emergenza.
La voce proveniente dall'altro capo della cornetta sopravvissuta ai tardi anni ottanta era roca e angosciata, ma anche estremamente convincente. Sandro doveva scendere dalla sua collina e raggiungere il quartiere del Capannino, dove avrebbe ricevuto ulteriori istruzioni.
Fu un gesto impulsivo da parte sua, ma, sentendosi in pericolo, decise di portare con sé sua moglie e e le loro due bambine. Avvolti nei piumini- soprattutto la bimba piccola -uscirono nel freddo e nella nebbia.
Avevano già camminato per un chilometro, quando, mentre percorrevano la discesa che univa il quartiere residenziale dove abitavano al Capannino, notarono che l'impianto di illuminazione era guasto e che l'intero isolato era avvolto in un'oscurità spettrale. La strada si faceva sempre meno ripida, ma Sandro si fermò quando udì un rumore simile al ringhio di un cane feroce.
<<Cosa c'è?>>, chiese la moglie impaurita, cullando amorevolmente la bambina più piccola e tenendo l'altra stretta per mano. Non fece in tempo a finire la frase, quando dalle tenebre spuntò fuori il facocero.
Era terribile e minaccioso, e dalle ricciolute zanne poste agli angoli della bocca scendevano gocce di bava a non finire. Fu allora che Sandro si dimenticò della telefonata che lo aveva portato fin lì, di quella voce metallica, di quella sensazione sgradevole, e, sospinte moglie e figlie indietro, si dette alla fuga. Il facocero era pesante e in salita faticava non poco, e questo dette un netto vantaggio iniziale ai Gambadipesce.
Rientrarono nel quartiere e imboccarono decine di viuzze parallele, ma nonostante la nebbia il facocero continuava a inseguirli. <<Schifoso ammasso di setole!>> sbraitava, senza riprendere fiato, Sandro. Uno dei primi palazzi di fronte a cui passarono fu quello di Lidia, un'amica di famiglia che in passato era stata candidata a far loro da testimone di nozze. Volle il caso che questa signora sui quaranta fosse solita soffrire di insonnia e che trascorresse anche le notti più fredde nel suo minuscolo terrazzino, a fumare e bere tisane.
Era proprio lì quando i Gambadipesce passarono là sotto, urlando, piangendo e chiedendo aiuto. Lidia notò l'orribile bestia che inseguiva i suoi amici, ma non si scompose e domandò loro, urlando: <<Vi serve qualcosa?>>.
La moglie di Sandro rallentò leggermente il passo e, sorridendo, rispose: <<No, Lidia, grazie! Tutto a posto!>>.
A Sandro tutto questo sembrava assurdo. Non poteva essere così: sua moglie non poteva aver rifiutato l'aiuto di una delle loro più care amiche e vicine. Ma cosa importava ormai? Casa loro distava poche decine di metri e le possibilità erano due: fare un ultimo sforzo e salvarsi oppure rallentare, arrendersi e finire sbranati.
Prevalse l'istinto di conservazione, e complice l'alto cancello che separava il giardino dal vialetto i Gambadipesce riuscirono a tornare in casa. Le bambine erano terrorizzate, e la moglie era entrata in uno stato di trance permanente. Toccò a Sandro mettere a letto le figlie, dopodichè tentò di instaurare un dialogo con la moglie su quanto accaduto: <<Ti rendi conto che potevi farci uccidere tutti? Perchè hai rifiutato l'aiuto di Lidia?>>.
La moglie sembrò quasi uscire dal torpore vegetale in cui sembrava essere sprofondata e tirando un profondo respiro soggiunse: <<Mi sembrava una cosa poco carina disturbarla a quell'ora>>.
Sandro non aveva neanche la forza di litigare: voleva solo riposarsi. Riuscì a fatica a togliersi il cappotto prima di sdraiarsi sul divano, mentre la moglie era già sotto le coperte, in pigiama.
Ed egli era convinto di stare già sognando quando udì una voce di donna chiamare il suo nome. Si destò incuriosito e guardo l'orologio: erano da poco passate le tre e la nebbia sembrava essersi diradata. Preparandosi al freddo, aprì la finestra e guardò fuori. La voce proveniva dal palazzo accanto: si trattava di Domitilla, una ragazza graziosa che faceva sculture meno graziose nel suo piccolo appartamento. Sandro le sorrise.
<<Antonio, quello del piano di sopra, sta male e chiede di te!>>, disse lei.
Sandro chiuse la finestra, raccolse il giubbotto da terra, dove l'aveva lasciato poco prima, e senza né dare spiegazioni né salutare la moglie uscì nuovamente. Rimase colpito quando, arrivato al cancello, notò che i lampioni della sua via non funzionavano più. Si domandò come fosse possibile che, in meno di due minuti, si fossero guastati. Alzò gli occhi al cielo: per fortuna, le poche luci accese nei tanti palazzi là attorno servivano a farlo orientare. Si incamminò senza fretta, ma, non appena svoltato l'angolo, il grugnito del facocero tornò ai suoi orecchi. La bestia era di nuovo lì, di fronte a lui. Lo fissava e grugniva; lo aveva aspettato e non lo avrebbe più fatto andare via.
Sandro fuggì, inseguito dal facocero, ed entrambi sparirono nella notte, inghiottiti dall'oscurità dei vialetti.


martedì 13 agosto 2013

L'amore ai tempi dell'Ikea [Extra]


Nonostante il caldo, il vuoto, la solitudine dettata dalle (altrui) ferie d'agosto, l'angoscia opprimente e un profondo senso di inadeguatezza, neanche in queste afose giornate rinuncio al mio livre de chevet. Si tratta di quel volume cui si è tanto legati da tenerlo sempre sul comodino (chevet), così da rileggerne qualche passo prima di addormentarsi. I tomi che finora hanno conquistato la “medaglia d'oro del comodino” sono perlopiù agiografie rock, qualche romanzo russo e francese, la Dinastia dei paperi di Don Rosa e l'autobiografia di Ingmar Bergman.

Ed è sempre in questo periodo che, all'orizzonte, inizia a concretizzarsi l'eventualità di affiancare, al livre de chevet, un livre des chevets, un “libro di comodini”. Questo passaggio si verifica intorno ai primi di agosto, quando l'Ikea annuncia, tramite il sito internet e qualche spot televisivo di buon livello, che il suo nuovo “romanzo” è pronto. Tuttavia, quest'anno, Ikea ha fatto notizia con largo anticipo: basta spulciare qualsiasi giornale in questi giorni e ci si accorgerà di come, nelle pagine di economia, non si parli altro che delle agognate assunzioni all'Ikea di Pisa. Servono a ben poco le ventottomila domande di assunzione recapitate al canale dei Navicelli, visto che i posti disponibili sono poco più di duecento. Il presidente della regione Enrico Rossi si dice felice, e non perchè- da uomo di sinistra quale dichiara di essere -è dalla parte degli aspiranti lavoratori, ma perchè questa maxi-assunzione toscana “fa notizia”. Dunque, da oggi, le regioni più virtuose d'Italia saranno quelle dove il colosso svedese dell'arredamento deciderà di assumere personale.

La cosa che però i giornali di (neo-)economia e i gazzettini popolari locali (ad esempio, La Nazione) non svelano è proprio l'essenza stessa di quello che sarà il livre des chevets di quest'anno: le tendenze, le scelte cromatiche e stilistiche, le idee filosofiche pure, le novità del catalogo Ikea 2014. Solitamente, in questi casi, io sposo la pazienza e l'attesa: attendo quel momento dell'anno in cui gli studenti paventano il ritorno a scuola e i cinefili iniziano a discutere sulle scelte del festival del Cinema di Venezia, dopodiché, il 25 agosto, sogno di inforcare la mia storica bicicletta blu (assente dal maggio 2006) e di coprire senza emissioni di CO2 i centotrenta chilometri (andata e ritorno) che separano casa mia dall'Ikea Store di Sesto Fiorentino per andare a ritirare la nuova copia del catalogo.
Ovviamenti questi buoni propositi non trovano mai una loro realizzazione pratica, e mi ritrovo così a sfogliare l'edizione online del catalogo USA e a fare un paio di constatazioni. La prima è che le tenebrose edizioni 2007, 2008, 2009 e 2010 sono ormai un lontano ricordo: la copertina è piena di bei colori accesi, distanti anni luce da quella predominanza del nero che voleva forse avvicinare gli emo o qualche orripilante adolescente dark all'arredamento svedese. Insomma, la scelta cromatica aziendale continua ad essere ferma sui bei colori reminescenti di quadri impressionisti, e questo non può che essere un bene in una società dove siamo quasi tutti (più o meno consapevolmente) depressi. 
A questo punto, mi perdo in un assurdo gioco di comparazione fra i vari paesi del mondo: noto, ad esempio, che uno stesso sgabello, vuoi per la moneta unica o per le diverse percentuali dell'IVA, costa meno in Germania che da noi. Poi, mi sbizzarrisco coi menù dei celeberrimi ristoranti interni, e scopro che quella pasta al pomodoro che noi credevamo una gentile concessione svedese al nostro gusto compare anche nei self-service di Tel Aviv e Hong-Kong, e che pure gli ingredienti degli appetitosi wraps al salmone sono gli stessi a Milano e Kyoto. Cambia l'alfabeto, dunque, ma la sostanza rimane la stessa.
Grande eccezione in questo universo di uguaglianza è la figura della donna, totalmente assente dai cataloghi dei paesi islamici. Tanto per fare un esempio sbellicante: osservo la pagina del pianificatore d'arredamento “normale”, dove un sosia di Marco Mengoni siede insieme ad un afroamericana su un divano; sorridono e pianificano la loro nuova cucina. Ora osservo la stessa pagina in versione “islam”, e noto che il Mengoni della situazione è seduto da solo e non sorride neanche. 
Meglio ancora è la pagina di una cucina finita, dove un uomo di mezza età serve a tavola (cosa già abbastanza fantascientifica per l'Italia) la moglie e le due figlie. La versione saudita è terribile: stessa cucina, stessi cibi, stesso uomo, ma nessun commensale. Infine, nella doppia pagina che presenta i designer dell'anno vengono lasciati solo gli uomini, negando così il lavoro e perfino l'esistenza di progettiste donne.

Pagine del catalogo Ikea di questo tipo destano scalpore da anni, e i nostri quotidiani hanno spesso usato simili notizie come inutili riempitivi.
Inutili perchè a ben poco serve parlarne, specie in un paese come il nostro, dove neanche siamo preparati a meritarsela la filosofia dell'Ikea.
Inutili perchè quelle giornaliste che scrivono dei lacrimevoli e commoventi articoli su La Repubblica hanno la casa tappezzata di mobili Ikea, vanno matte per la focaccina bio del ristorante interno, e come livre de chevet esibiscono qualche insulso romanzetto sulle donne islamiche vessate, scritto magari da una giovane e ricca figlia di ambasciatore saudita naturalizzata inglese.
Inutili perchè l'unica cosa che l'italiano medio conosce del Medio Oriente sono i resort di Sharm El Sheikh e i nomi di qualche compagnia aerea stampati su magliette di calcio italianissime.
Così, non sentitevi in colpa se- come il sottoscritto -in questo assolato e noioso mese di agosto rimanete attratti più del solito dalle cose banali e inutili. 
Non resta che cercare motivi di sdegno fra le vere pieghe dell'esistenza: basta aspettare il 25 agosto e trovarne di nuovi fra le pagine di un mobilificio svedese.

domenica 4 agosto 2013

[Recensione] Wolverine- L'immortale

La miniserie di Wolverine ambientata in Giappone e realizzata da Claremont e Miller (Frank Miller) è uno dei migliori fumetti mai scritti sul mutante più famoso del mondo. Uno dei migliori, e non il migliore, a mio gusto. 
Ovviamente, quando nel 2009 la 20th Century Fox annunciò il sequel di X-Men le origini- Wolverine e lo stesso Hugh Jackman (per chi non avesse visto i film precedenti, è l'attore che interpreta Wolverine) dichiarò che il soggetto sarebbe stato basato su quella miniserie, provai piacere e pensai <<Accidenti, la storia è ottima>>. Non potevo sapere che il film non lo sarebbe stato.
Wolverine-L'immortale non solo è una trasposizione maldestra, ma è indubbiamente il peggiore film sui mutanti al mondo. 
La sceneggiatura è insulsa, melensa, pallosa, allungata nelle parti sbagliate. 
La regia è... è... è come dire: "Enrico Oldoini ha finalmente deciso di girare un film su Wolverine".
La colonna sonora fa schifo.
Gli effetti speciali- cosa gravissima, visto l'enorme peso che hanno per questi cinefumetti -sono brutti.
Il cattivo Silver Samurai sembra una versione nipponica dell'Uomo di Latta del Mago di Oz.
I dialoghi e le frasine ad effetto fanno pena.
Insomma, Wolverine-L'immortale è davvero il peggiore film di X-Men e affini della storia?
Sì, senza dubbio.
E' il peggiore cinefumetto Marvel?
No, assolutamente. Non lo è perchè Wolverine- L'immortale risulta sgradevole ma mai troppo pesante, noioso ma non stressante, inutile ma non orribile, mediocre ma non pessimo. Insomma, per dirla sinteticamente, non somiglia nè al recente Uomo d'acciaio nè ai più scadenti film Marvel (I fantastici 4 o Ghost Rider, per citarne due dei moltissimi): tuttavia, è lontano dalla sufficienza.
Tanto lontano.
Quindi, passi per Hugh Jackman che dimostra ancora- dopo sei film -di riuscire a tenersi stretto il suo personaggio più celebre; ma per il resto, alla Marvel, dovrebbero iniziare a pensare con maggiore lungimiranza a certe produzioni. Tanto per dirne una: hanno consultato tanti registi (fra cui Aronofski), e allora perchè proprio Mangold? Perchè l'uomo che ha funestato il cinema con Kate&Leopold? Perchè far girare una pellicola dove l'azione è tutto ad un completo incapace che non sa reggere neanche il ritmo di un inseguimento per le strade di Tokyo? O forse perchè pur di girare la storia di uno con gli artigli e i muscoli avrebbe lavorato a gratis?

Una piccola nota cinefila a margine. Quando Logan indossa il kimono mi è tornata in mente una penosa scena di un altro film. Questa: