mercoledì 17 settembre 2014

Mud [Recensione]

Breve intermezzo stagionale
(per la recensione, saltare la parte scritta in corsivo)

In più di due mesi di astinenza dalla sala, si sono accumulate un bel po' di riflessioni sulle condizioni del nostro cinema, ma le salto a pie' pari e vado per brevi punti.
1- Non sono andato ad alcuna arena estiva che riproponeva film già usciti a metà prezzo perchè, bene o male, avevo già visto tutto. 
2- Ho perso il conto della quantità di film brutti usciti fra luglio e agosto, e mi sento male già solo a leggere buona parte della programmazione di ciò che ci aspetta in questo post-Venezia 2014. 
3- L'unico film che mi pento di non essere andato a vedere in questa estate mai arrivata che sembra avere deluso tutto lo stivale? Anarchia- La notte del giudizio di James De Monaco. Il primo capitolo mi aveva letteralmente esaltato e, a detta di amici fidati (con "fidati" intendo quel genere di spettatori che non svengono ogniqualvolta un uomo in calzamaglia compare sullo schermo), questo secondo non è stato da meno. 
4- Allo stesso modo, mi sono promesso di recuperare l'ambizioso e (voglio sperare) meraviglioso Boyhood di Richard Linklater e l'orrorifico Liberaci dal male, diretto da quello Scott Derrickson che con Sinister, lo scorso anno, aveva  già mostrato un talento davvero lodevole.
5- I film che non vedo l'ora di vedere sono: Pasolini di Abel Ferrara, Birdman del redivivo Inàrritu, The Homesman di Tommy Lee Jones, Sin City 2: una donna per cui uccidere di Rodriguez (e credo anche del "poero" Miller), Guardiani della galassia di James Gunn e A Pigeon Sat On A Branch Reflecting Of Existence di Roy Andersson, che ha vinto il 71° Leone d'Oro riconfermando un'idea che ho da ormai parecchi anni, e cioè che in Scandinavia si producono- ormai da un pezzo -i migliori film al mondo. 
Confidando che il cinema continui ad esistere e che io continui ad andarci e ad amarlo, auguro a chiunque legga una buona lettura e un buon (nuovo) inizio di stagione.
*
**

Arriva in sala con un bel ritardo Mud di Jeff Nichols: in concorso a Cannes 2012 e uscito negli Stati Uniti nell'aprile del 2013, è arrivato nel Belpaese solo lo scorso agosto, per merito di Movies Inspired. E per quanto sia ormai già "datato", ci ricorda che il 2014 è l'anno di Matthew McConaughey, qui di nuovo statuario, bruciato dal sole, con chiodi a forma di croce piantati sul tacco degli stivali e una calibro 45 infilata in un vecchio paio di jeans sdruciti. Robinson Crusoe fluviale per necessità, fuorilegge romantico senza tempo ed eterno sognatore, tanto bugiardo sul proprio passato quanto sincero e schietto riguardo i sentimenti che prova per la bella Juniper (Reese Witherspoon), Mud diviene rapidamente il modello ispiratore dei due quattordicenni Ellis (uno straordinario Tye Sheridan) e Neckbone (Jacob Lofland), entrambi già prede delle prime turbe adolescenziali ma ancora intenti a giocare ad essere Tom Sawyer e Huckleberry Finn sulle sponde del fiume Arkansas. La loro missione è tirare giù da un albero un barcone e aiutare Mud a riconquistare Juniper, l'amore della sua vita, quello per cui ne vale sempre la pena. A margine, tutti gli elementi che rendono epica e avvincente questa magnifica fiaba sudista: ci sono i redneck cacciatori di taglie e la famiglia di cowboy venuti dal Texas in cerca di vendetta, la polizia corrotta e una famiglia che si sta irrimediabilmente sgretolando. C'è il fiume, splendidamente calato nella fotografia di Adam Stone e grande co-protagonista del film, con tutti i suoi segreti, le sue perle, i suoi mocassini acquatici e i suoi pescioloni. Ci sono Michael Shannon- a cui Nichols non ha rinunciato neanche per questa terza prova da regista -e un Sam Shepard che, assieme a McConaughey, iscrive di nuovo a lettere cubitali il proprio nome nel libro del grande cinema. C'è un saluto muto, tenero ma anche un po' amaro fra un principe e la sua principessa, incallita fumatrice prigioniera di un castello che ha le fattezze di un motel di provincia. Ci sono le case galleggianti dei pescatori fatte a pezzi dalla "legge", ma le leggi- per dirla con le parole finali di un ragazzino di quattordici anni cresciuto un po' prima del tempo -"sono tutte stronzate": segno evidente che le lezioni di vita di Mud hanno funzionato.
E segno anche che Jeff Nichols, classe 1978, è davvero uno dei pochi giovani talenti del cinema americano (assieme a Derek Cianfrance e David Lowery) su cui scommettere tutto e vincere.

mercoledì 10 settembre 2014

Tom Petty & The Heartbreakers, "Hypnotic Eye" [Suggestioni uditive]

Tom Petty & The Heartbreakers,
Hypnotic Eye (Reprise Records, 2014)














<<Strana la vita!>> deve avere esclamato Tom Petty quando, a fine luglio, ha visto debuttare al primo posto di Billboard 200 la sua ultima fatica, Hypnotic Eye.
Il cantante di Gainsville (Florida) ha sulle spalle sessantaquattro anni, di cui quaranta spesi come musicista professionista accanto ai suoi Heartbreakers. All'attivo, una ventina di album, molti fiaschi clamorosi, qualche successo sporadico e alcuni capolavori (Full Moon Fever, MCA 1989). Senza contare poi le collaborazioni prestigiose e la militanza nella superband Traveling Wilburys. Tuttavia, un disco come Hypnotic Eye- così "classico" ma al contempo così avanti rispetto a tutto ciò che ci viene propinato da tanti inutili fenomeni del mainstream e dell'alternative rock -Tom Petty non lo aveva mai registrato.
Dodici canzoni per neanche cinquanta minuti di durata. Il blues di Mojo (2010) viene lasciato da parte, ed è il R&R standard a farla da padrone, specie in brani quali American Plan B, All You Can Carry, Forgotten Man e You Get Me High. La chitarra di Mike Campbell è pura gioia dell'udito, sia quando si scatena che quando si abbandona a momenti languidi quali Sins Of My Youth, una pagina di rara bellezza per un album rock. Ma attenzione: sto tessendo le lodi di Mike Campbell, ma in Hypnotic Eye non c'è un musicista a sbagliare un colpo. Gli Heartbreakers sono al massimo della forma e dell'ispirazione? Parrebbe proprio di sì, e una ballata del livello di Red River è lì a confermarlo.
Tom Petty, ultrasessantenne spaccacuori sudista, ha inciso con ogni probabilità il suo album migliore oggi, nel 2014, e ha lasciato tutti a bocca aperta. E' tornato al garage dei primi due dischi per farne uscire un'opera di primaria importanza che non è e non vuole essere retrò, ma moderna come un quadro di optical-art (basta posare gli occhi sulla copertina), solida come una roccia e piena di elettricità e di energia positiva. Inoltre, ha messo la firma su uno dei più bei dischi rock usciti dall'inizio dell'anno.
Cosa si vuole di più? 

sabato 6 settembre 2014

The Allman Brothers Band, "The 1971 Fillmore East Recordings" [Suggestioni uditive]

The Allman Brothers Band,
The 1971 Fillmore East Recordings (Universal, 2014, 6 Cd+ Book)
★★★★★















"Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire; è un'opera che provoca incessantemente un pluviscolo di discorsi critici su di sè ma continuamente se li scrolla di dosso": così scriveva, su l'Espresso del 28 giugno 1981, Italo Calvino, intento ad invitare gli italiani alla lettura dei grandi classici. Vale lo stesso per la musica? Direi proprio di sì, specie se ci troviamo di fronte all'uscita di quella che è, senza ombra di dubbio, l'edizione (quasi) completa e definitiva di un'opera tanto essenziale quanto leggendaria: sto parlando del cofanetto The 1971 Fillmore East Recordings degli Allman Brothers Band, scrigno del tesoro uscito il 29 luglio per Universal e contenente tutti i concerti del 12 e 13 marzo e del 27 giugno 1971 tenuti dalla band georgiana nello storico locale di New York.
Non conoscere l'originario At Fillmore East (Capricorn, 1971) è un reato culturale non da poco: di fatti, si tratta di un disco di importanza capitale nella storia della musica, famoso per innumerevoli motivi. Ne elenco alcuni: è il primo doppio album live uscito nel mondo; fa parte dei cinquanta dischi scelti per la conservazione nella Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti; occupa la 49sima posizione nella classifica dei migliori 500 dischi di sempre e la terza in quella dei 100 migliori live di tutti i tempi (entrambe stilate da Rolling Stone); è stato inserito nell'autorevole saggio di Tom Moon 1001 Albums You Must Hear Before You Die (2005); è famoso per avere ottenuto almeno tre ristampe deluxe ufficiali e una miriade di altre non autorizzate. 
Come se non bastasse, questo "dischetto" è opera degli Allman Brothers, che di certo non necessitano di presentazioni: padrini del sottogenere Southern Rock, stregoni di magiche jam in cui rock, blues e jazz vanno mescolandosi sapientemente, musicisti di prim'ordine (è l'unico gruppo che vanta quattro chitarristi ad essere stati presenti, simultaneamente, nella 100 Guitarists Of All Times) che hanno regalato (e continuano a regalare, nonostante i numerosi cambi di formazione e le tragedie che hanno sempre segnato le grandi band "a conduzione familiare" del vecchio Sud) momenti di musica straordinaria a tutto il mondo.
Per l'appunto, si dà il caso che nel box-set preparato e prodotto dal grande Bill Levenson (un'autorità nel campo dell'archivistica e già al lavoro con gli Allman sull'edizione deluxe di Brothers And Sisters uscita nel 2013), trovino spazio esclusivamente canzoni bellissime e mai uguali le une alle altre. Il primo show del 12 marzo, ad esempio, offre materiale del tutto nuovo (Statesboro Blues e una You Don't Love Me di quasi diciassette minuti) e risulta essere un concerto di livello altissimo, ma è con la In Memory Of Elizabeth Reed del secondo cd che già emerge totalmente il genio di Duane Allman. 
Già, Duane Allman, detto Skydog. Quello che spesso risulta soltanto un nome che segue quello di Jimi Hendrix in una famosa classifica di chitarristi. Quello che <<Sì, mi pare di averne sentito parlare ma ora non mi viene in mente nulla di suo...>>. Quello che a diciannove anni era turnista ai Muscle Shoals Studios in Alabama e che è morto a neanche venticinque anni in un incidente motociclistico. Quello che era alla guida della band quando si tennero i concerti al Fillmore East. Quello che, sulla terra come in Paradiso, non conosce rivali, specie se si tratta di suonare con un anello slide attorno al dito. Quello che scrisse e registrò i primi due album degli Allman unendo le lezioni di Muddy Waters e John Coltrane con la musica tradizionale sudista e facendo stare dietro al microfono quell'altro mostro sacro di Gregg, fratello minore. 
Il cd 2 si chiude con due perle (una Whipping Post esagerata di venti minuti e una Hot'Lanta secca ed efficace), e spalanca le porte ai due concerti del 13 marzo: quello pomeridiano (cd 3) fila via che è una bellezza, ma quello serale (cd 4 e cd 5) è roba da far venire i brividi. C'è la superlativa One Way Out (poi confluita in Eat A Peach), una Stormy Monday da urlo, la più bella Whipping Post di sempre, una Mountain Jam "alternativa" e un'esaltante Drunken Hearted Boy, suonata con Elvin Bishop, ospite sopraggiunto sul palco a notte fonda. Il cd 6 ospita un concerto di tre mesi dopo (27 giugno), passato alla storia come evento di chiusura del Fillmore East e già presentato come secondo disco di Eat A Peach- Deluxe Edition (Mercury Records, 2006): bello, piacevole, ancora migliorato nel suono e- almeno per chi scrive -ulteriore novità assoluta che emerge dal box.  
Ascoltare questi concerti, per me ventiquattrenne nel 2014, è semplicemente il massimo. La bellezza delle canzoni, il modo in cui queste vengono suonate, il livello di coinvolgimento a cui Duane, Gregg e tutta la band- nella sua formazione originale -spingono l'ascoltatore appassionato di rock sudista (come il sottoscritto) sono qualcosa di fuori dall'ordinario. Perfino le belle fotografie di Bob Johnson e Twiggs Lindon contenute nel volume "di accompagnamento" testimoniano un momento unico nella carriera della band (per carità, non voglio togliere nulla agli Allman più country capitanati da Dickey Betts o alla formidabile e recente formazione con Warren Hayes e Derek Trucks alle chitarre) e sono in grado di sprigionare una forza espressiva unica. Infine, non ci sono abbastanza parole per lodare il lavoro pluriennale svolto dai tecnici del suono della Universal al fine di regalare al pubblico ore di musica di questo livello. Ogni volta che parte una nuova versione di Trouble No More, sopraggiunge la consapevolezza di trovarsi ad ascoltare la versione migliorata di un capolavoro che, per quarant'anni, non ha mai smesso di essere perfetto, sacro, insuperabile. Fate pure girare sul piatto chi volete,  ascoltate quanti concerti di jam rock vi pare: ritornerete sempre e comunque a queste canzoni e a questa incendiaria miscela southern-rock che non perderà mai la sua forza originaria.

mercoledì 3 settembre 2014

HammerFall, "(r)Evolution" [Suggestioni uditive]

HammerFall,
(r)Evolution (Nuclear Blast, 2014)
½
















Gli HammerFall sono stati, per un breve periodo, uno dei miei tre complessi preferiti in assoluto. Tuttavia, dai tempi di Chapter V: Unbent, Unbowed, Unborken (Nuclear Blast, 2005) cerco di leggere tutto ciò che li riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni ascolto delle loro nuove opere. E pensare che andare a sentire in cuffia One Crimson Night (loro primo album dal vivo) da Ricordi a Firenze fu per me d'obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Un'ora e un quarto di autobus per centoquindici minuti di musica (in realtà, riuscii ad ascoltare solo i quattro brani iniziali del primo disco) che sapevo per certo di non potermi permettere. Ma erano altri tempi.
Oggi Ricordi è chiuso già da qualche anno e io "tiro giù" con una certa facilità (r)Evolution, ultima fatica della band svedese. 
Lo so, non è bello, non è romantico, ma capita anche ai migliori di noi di doverlo fare.
Parte Hector Hymn's e io giro la manopola che regola il volume totalmente verso destra. <<Senti là che roba!>>, penso entusiasmandomi e godendo di quell'atmosfera che mi rimanda al mai troppo amato Crimson Thunder (2002) e al capolavoro assoluto Glory To The Brave (1997). Lo stesso succede anche con la title-track. Bushido è il singolo di lancio, lo avevo già ampiamente ascoltato e detestato: ancora non posso saperlo, ma è l'inizio della fine di questa rivoluzione mancata. Brani quali Ex Inferis, Live Life Loud o la ballata Winter Is Coming risultano piatti da subito, mi regalano lo stesso brivido-zero che provo appoggiandomi a un manifesto di un automobile sapendo di poterlo trovare identico in tutti i cartelloni di una città.  Origins è power metal di provincia, del tutto indegno di una band del calibro degli HammerFall, così come erano stati indegni tutti i pezzi incisi negli ultimi anni (Infected rimane uno degli album metal più brutti di sempre) e così come sono inascoltabili i riempitivi Tainted Metal e Evil Incarnate. La chiusura "old-skool" Wildfire non lascia dubbi: la band di Joacim Cans e Oskar Dronjak sa ancora suonare splendidamente del power pulito ed efficace con canzoni la cui durata si aggira sui quattro, cinque minuti. E su questo non ci piove. Ma in (r)Evolution sono le idee a mancare, e non la tecnica. Dietro la console torna il talent scout nordico Fredrik Nordstrom (ho scordato la dieresi sulla ultima "o", perdono), che viene affiancato al produttore e cantante americano James Michael per portare a termine l'ennesimo impacchettamento da trenta e lode targato Nuclear Blast. Eppure non basta. E non basta richiamare il leggendario copertinista Andreas Marschall (autore che lavorò sui primi tre album del gruppo) per invogliare i fans- delusi con ogni probabilità da almeno sei anni -ad acquistare e ascoltare (r)Evolution
E' proprio vero che a volte anche le grandi storie d'amore finiscono.