venerdì 31 gennaio 2014

[Recensione] I, Frankenstein

Mia nonna sa cucinare molto bene il cinghiale in umido.
Sa cucinarlo bene perchè lo ha visto fare molte volte, sa con che tipo di carne ha a che fare, conosce le spezie e gli altri ingredienti con cui rendere questa ricetta eccezionalmente buona e sfiziosa. Però sa anche un'altra cosa: che prima di aggiungere tutte queste cose, il cinghiale va fatto marinare. Altrimenti saprebbe di merda.
Il cattivo cinema, al contrario della buona cucina, è povero di nonne attente e doviziose che conoscono bene le basi di ciò che portano in tavola. Ed è questo il motivo per cui secondo me Stuart Deattie, sceneggiatore australiano da poco passato alla regia, non ha mai visto un film sul personaggio di Frankenstein. Forse ha letto del personaggio, ma- badate bene -nemmeno nel romanzo di Mary Shelley (a leggerlo, quel libro, ci pensò il buon Kenneth Branagh nel 1994), bensì in un fumetto di tale Kevin Grevioux. Così, con l'aiuto dei produttori di Underworld (altra saga-stronzata che ai suoi tempi poteva arricchire, al massimo, qualche cenciaio fiorentino a cui avanzavano metri di pelle nera), va in porto questa ennesima versione cinematografica sul Prometeo Moderno. Peccato che in questo ridicolo action-fanta-horror ogni scena non sia nè moderna, nè tantomeno post-moderna (anche se uno degli intenti, vista l'ambientazione, vorrebbe essere quello), ma solo desolante. Il fatto poi che I, Frankenstein sia ridicolo, stupidamente scritto, mal recitato (Aaron Eckhart in primis è un cane) e assolutamente caciarone è soltanto un surplus. Tutto deve somigliare ormai per forza ai cinefumetti, ma dobbiamo avere la consapevolezza che, con simili premesse, il cinema di intrattenimento non andrà da nessuna parte: già Stephen Sommers con l'orrendo Van Helsing aveva dimostrato di non essere in grado di fare niente, nè un buon action-movie, nè un buon fantasy, nè tantomeno un buon film horror. E anche questo Deattie non è che sia messo tanto meglio in quanto ad idee: I, Frankenstein non ha lati positivi. E' soltanto un dimenticabile blockbusterone dove esplode tutto e che dopo venti minuti rompe i coglioni. 
Però la società civile mi ricorda che molto probabilmente questo senso di noia è un mio problema: d'altronde, sono io quello che ancora si sente dire, con un velato disprezzo, <<A te piacciono i film lenti>>.

giovedì 30 gennaio 2014

[Recensione] Nebraska

Nella vita la sensibilità è importante. 
Purtroppo, non sempre siamo liberi di diventare sensibili, perchè sensibili si nasce, vi si è predestinati- come insegna Jep Gambardella/Toni Servillo all'inizio de La grande bellezza (speriamo vinca l'Oscar, alla faccia di chi gli vuole male!) -e, in certi casi, può anche diventare una condanna molto dura, una condanna che necessita di una certa "preparazione". 
Il cinema è un tipo di intrattenimento che, in quanto forma d'arte, gioca molto con la sensibilità di chi ne fruisce, eppure se si è persone sensibili (oltre che di buon gusto) le vie di accesso a film meravigliosi, poetici e profondi sono alquanto facilitate: e Nebraska, ultima fatica di Alexander Payne candidata a cinque statuette, è indubbiamente un film bello, toccante e delicato.
Non mi vergogno, anzi, sono felice nell'ammetterlo: a me Nebraska ha commosso. E non di certo perchè ho chissà quale sensibilità deposta sul fondo dell'anima, ma semplicemente perchè questo gran bel film viene a ricordarmi perchè amo tanto il cinema. Mentre mi scorrevano di fronte agli occhi le immagini immortalate nel meraviglioso bianco e nero di Papamichael, mentre il vecchio, alcolizzato, meraviglioso Woody (Bruce Dern) attuava la sua ennesima fuga per andare a ritirare il suo biglietto della lotteria vincente, mentre il figlio David (Will Forte), stanco e inconsapevolmente schiavo delle stesse cose del padre, decideva di assecondarlo, mentre accadeva tutto questo in luoghi che distano da casa mia 8015 chilometri, ero consapevole di essere lì con quelle persone, di partecipare al rafforzamento del loro rapporto (un rafforzamento silenzioso, poetico e mai retorico o banale come sanno essere certi filmetti on-the-road ricoperti di melassa), al loro dolore, alla loro gioia, alla loro malinconia. 
In un certo tipo di contesto ci vergogneremmo ad ammetterlo, ma somigliamo un po' tutti al personaggio di Woody: prima o poi, a prescindere da qualunque sia la nostra condizione umana e sociale, ci fermiamo a sognare una fuga dal nulla, architettandola e fantasticandoci sopra un bel po'. Al contrario di molti altri road movies (penso a Thelma e Louise di Scott come al capolavoro Una storia vera di Lynch), la destinazione qui non ha alcun peso (basta la consapevolezza di venire da una parte della strada e di essere diretti nella direzione opposta, come insegna la prima scena del film): contano solo l'impressione di aver ottenuto la fuga e il senso di appagamento nell'avere qualcosa da lasciare ai posteri. Come un furgone e un compressore.

venerdì 24 gennaio 2014

[Recensione] The Wolf Of Wall Street

Esistono ormai molti film sul denaro e molti modi diversi per realizzarne uno. E' chiaro che nel recensire l'ultima fatica di Martin Scorsese, The Wolf Of Wall Street (già candidata a cinque premi Oscar), è facile estrarre fuori dal cilindro paragoni con il vecchio Wall Street di Stone, una buona pellicola ricca di pregi, il minore ma pur significativo 1 chilometro da Wall Street e i più recenti e maldestri Wall Street- Il denaro non dorme mai e Margin Call (chissà perchè più la crisi miete le sue vittime e più le opere di denuncia si fanno garbate?). 
In realtà, un film a cui The Wolf Of Wall Street può essere tranquillamente comparato è Yuppies 2 di Oldoini: dopo che i Vanzina avevano mostrato- con un occhio davvero rivolto ad una certa realtà milanese -i rampanti professionisti del primo film, nel secondo questi yuppies trentenni figli della classe media vogliono entrare davvero dentro il potere, il potere vero, quello che non è astratto, quello che ogni giorno fa girare i miliardi e decide la vita, la morte e gli altri aspetti che coinvolgono il resto del mondo. Oldoini, da autentico autore di film cialtroni, si premurava di mostrare allo spettatore il "lato A" di questo mondo, senza però raccontare che per ottenere un potere di quel tipo le mani bisogna sporcarsele, e tanto. Tuttavia, è stato meglio così. Perchè Jordan Belfort (Di Caprio, ovviamente, da Oscar) è quel tipo di personaggio negativissimo che non può che rimanere simpatico, un uomo che sa come non ci sia alcuna nobiltà nella miseria e che sceglie di essere ricco oltre qualunque misura. Arriva a Wall Street in autobus, con una moglie "acqua&sapone" che gli dà il bacino di buon lavoro: in realtà, il lavoro va malissimo perchè è il 19 ottobre 1987, destinato a passare alla storia come "il lunedì nero" (il preludio a ciò che viviamo oggi). Belfort è costretto a reinventarsi, arruola uno stuolo di vecchi amici presi dalla strada e vicini di casa sfigati e, sfruttando quel poco che ha imparato in borsa, fonda quella che è destinata a diventare la più importante società di top rider della borsa americana. 
Il protagonista e anche il film vanno oltre: The Wolf Of Wall Street è un film eccessivo in tutto, lungo, sfarzoso, girato benissimo da uno dei più grandi registi di tutti i tempi, interpretato meglio (oltre a Di Caprio, segnalo Jonah Hill), montato divinamente, accompagnato, anzi, sorretto (perchè dai tempi di Mean Streets il soundtrack riveste un'importanza troppo primaria per parlare di mero accompagnamento) da una colonna sonora meravigliosa e fuori dal tempo (non c'è una canzone di Sandy Marton o dei Queen, grazie a dio). E gli eccessi vanno avanti per tutto il film: le droghe (chi ha i soldi veri si droga, come insegna all'inizio il broker anziano interpretato da Matthew McConaughey) sono presenti in una quantità che farebbe invidia al Johnny Deep di Blow, l'abbondanza di nudi integrali maschili e femminili fa dubitare della provenienza geografica della pellicola, il numero di parolacce che escono di bocca dai personaggi è spaventoso (un record per quanto riguarda la parola "fuck", stando a quanto si legge su Wikipedia), le risate abbondano indisturbate e solo sul finale si adagiano sul tappeto del dramma. I personaggi di contorno sono grandiosamente sgradevoli, perchè è chiaro che tutto ciò che gira intorno ad un losco figuro del calibro di Jordan Belfort (il vero Jordan Belfort appare alla fine del film in una piccola parte) è comunemente definibile "merda", merda incarnata in persone che il potere o lo leccano o lo desiderano a loro volta. 
E mentre Scorsese (che da bravo uomo di cinema ha litigato anche stavolta coi produttori che volevano tagliare il film di un'ora) gira il suo ennesimo filmone su ascesa e caduta di un grande personaggio come solo lui sa girare (ricorda molto, per struttura e durata, quel capolavoro di Casinò), tutto conferma le tesi di certi spettatori: la finanza è un circo nella giungla (scimmie e nani convivono benissimo nella società di Belfort, infatti) dove il biglietto può costare molto caro e dove tutto va avanti in un tripudio di cattiveria umana e testosterone alimentato da chili di cocaina.  E se gli avvoltoi, o meglio i lupi mannari di Wall Street sono avanzi di galera protagonisti di uno show continuo e ininterrotto, i loro complici più diretti e allo stesso momento le loro principali vittime risultano essere gli spettatori, ebeti totali, rincoglioniti "poveri ma onesti" che alla fine del film fissano, come cavie da esperimenti, Jordan Belfort, ancora una volta unico vero vincitore della partita.
Ah, è una storia vera.

Il giglio infranto (Capitolo III) [Trame]


IL GIGLIO INFRANTO
Capitolo III
Julian era al primo giorno di scuola estiva. Questa era ubicata in un palazzo che sorgeva molto vicino alla Sinagoga di Firenze. “Che strano... Nonna odiava gli ebrei- pensò -e vado a scuola vicino alla sinagoga...”. La professoressa Franca Saracini era nata a Rignano sull'Arno e si era trasferita a Firenze ai tempi dell'università, che aveva concluso a venticinque anni con una laurea sul Paradise Lost di Milton (correvano voci secondo le quali ella lo sapeva a memoria in lingua originale). Ora di anni ne aveva cinquantacinque, e buona parte di questi l'aveva spesa in Gran Bretagna, ad insegnare italiano nella fredda Newcastle. Odiava l'America e gli americani, con la loro lingua e la loro cultura, e qualsiasi cosa arrivasse dagli USA; tuttavia, in quella calda mattina di fine giugno, non sembrò particolarmente infastidita dal pesante accento dell'Iowa di Julian. Lo invitò a sedersi e gli offrì del caffè (espresso, ovviamente); il giovane rimase stupito da due aspetti in quella conversazione: l'inglese della Saracini era praticamente perfetto e la professoressa stava fumando, proprio davanti a lui, una lunga sigaretta (dalle sue parti fumare era considerato un vizio “da vecchi”, e quella donna non era poi chissà quanto vecchia). Gli fu spiegato che, per meglio integrarsi con gli altri compagni, avrebbe iniziato la lezione rispondendo ad una serie di domande poste dagli stessi coetanei, riuniti tutti in cerchio dentro l'aula.
Un quarto d'ora più tardi Julian Grant era sempre seduto, circondato stavolta da adolescenti come lui, di età compresa fra i quindici e i diciotto anni. Sudava molto, ma, almeno a giudicare dall'odore che aleggiava in classe, non era l'unico. Ripassò mentalmente, in maniera veloce, il conciso discorso della professoressa: “Ognuno di loro ha preparato una domanda da farmi; bene, cercherò di rispondere a tutti...”. Indossava una t-shirt e orrende scarpe da ginnastica che magari dalle sue parti erano anche giudicate eleganti. Pregò che non sorgessero problemi per la lingua, anche se gli era stato assicurato che a quella sede solo i migliori allievi di lingua inglese della città potevano avere accesso. La prima domanda fu posta da una quindicenne quattrocchi, brufolosa e con un seno enorme:
-Nel tuo carattere qual'è il tratto fondamentale?- al che Julian si grattò una tempia col dito indice della mano destra, capendo perfettamente il quesito e rendendosi conto che non era semplicemente una micro-intervista scolastica, ma qualcosa di ben più profondo. Deglutì e rispose:
-Una mescolanza di genuina felicità e di lieve timidezza.
-Qual'è la qualità che apprezzi di più nei maschi?- chiese appunto un ragazzo dalle labbra sporgenti e le ascelle cariche di sudore.
-La sincerità, il senso dell'amicizia.
-E nelle donne?- soggiunse una rara bellezza locale.
-Non saprei...- disse indugiante, puntando quella splendida sedicenne che lo stava tenendo inchiodato sulla sedia-Forse il sentimento materno...-
La classe scoppiò a ridere. In particolare le ragazze erano divertite dal fatto che l'americano vedesse in tutte le femmine, anche nelle sue coetanee adolescenti, una giovane madre. Julian non diventò rosso e riuscì a nascondere il suo sottile senso del disagio dietro ad una fragorosa risata. Poi l'intervista riprese con un: -Quale capacità vorresti avere?-.
-Quella di scoprire se davvero siamo soli nell'universo o se Dio ha creato anche altre forme di vita...- e stavolta nessuno rise e tutti presero appunti.
-Quale difetto, invece, ti dispiacerebbe di più avere?-
-La bugia...l'esser bugiardo o anche solo il diventarlo mi terrorizzano-.
-Il tuo hobby preferito?-
-La pesca-.
-Qual'è la più grande felicità per un essere umano, secondo te?- domandò la splendida ragazzina di prima.
-Non avere nemici- affermò Julian Grant con una sicurezza mai uscita fuori precedentemente.
-Quale posizione vorresti raggiungere nella vita?-
-Mi piacerebbe lavorare al negozio di tagliaerba di mio zio Blake, poco fuori Des Moines...- e chissà cosa pensarono, nell'udire questa semplice aspettativa, quei giovani italiani con la testa che era solo in grado di recitare parole come “Liceo”, “Università”, “Specialistica”, “Carriera”, “Dottore”, “Casta”, “Massoneria”, e compagnia bella.
-Dove vivresti più volentieri?-
-Credo nel Tennessee. Adoro quella regione-
-Il tuo colore preferito?-
-Il giallo-
-Fiore?-
-Orchidea nera...-
-Animale?-
-Orso bruno-
-I tuoi libri preferiti?-
-Scheletri di King, Angeli e Demoni di Dan Brown e Meridiano di sangue di Arthur Miller. Ah, e la Bibbia, ovviamente...- e nessuno volle indagare su quell' “ovviamente”.
-La musica che ascolti di più?-
-Gli Slipknot. Sono dell'Iowa anche loro, sapete?- ma nessuno rispose, neanche un giovanotto grassoccio che non aveva fatto domande e che indossava proprio una felpa del celebre gruppo di Des Moines.
-Quale scrittore americano ami di più?
-Hemingway-
-Quale figura storica stimi di più?-
-Lincoln e Gesù Cristo...-
-Quale figura storica disprezzi di più?-
-Io non disprezzo nessuno-
-Il nome che preferisci?-
-Margareth-
-Qual'è il difetto che tolleri di più?-
-Il razzismo- rispose Julian tranquillamente. Una ragazza mulatta dette un sordo colpo di tosse e tutti gli alunni si lanciarono veloci ma eloquenti occhiate; tuttavia la micro-intervista proseguì.
-Il tuo piatto e la tua bevanda preferiti?
-Pesce di lago e coca alla vaniglia.-
-La stagione che preferisci?-
-L'autunno, o meglio l'inizio dell'autunno.-
-L'ultima domanda: qual'è il tuo motto?-
Julian si asciugò il sudore sulla fronte passandoci sopra la mano per ben due volte, poi rispose con un lungo sorriso:
-Show must go on!-
-Bene, abbiamo finito- esclamò la Saracini scattando in piedi. La professoressa era rimasta in disparte a leggere un quotidiano per tutta la durata dell'intervista. Si complimentò sbrigativamente con i suoi alunni e porse a Julian Grant un orario delle lezioni che avrebbe seguito per il resto del mese. Il giovane buttò un'occhiata veloce al foglio, ma il suo sguardo era indirizzato in realtà verso la ragazza che tanto lo aveva messo in imbarazzo con quella domanda sull'universo femminile. La vide uscire dall'aula con una borsa celeste a tracolla, e fu in quel momento che giurò a se stesso che non avrebbe mai lasciato Firenze senza averla avuta.


Kurt Breckt era consapevole di essere completamente ubriaco. E la cosa non gli dispiaceva affatto. Barcollava nel tentativo di camminare, un po’ reggendosi alla spalla sinuosa della sua ragazza, un po’ reggendola a sua volta, visto che la bionda e procace Angela non era meno ebbra di lui. Aveva perso il conto di quello che avevano bevuto dopo il terzo Long Island e in quel momento non aveva una chiara percezione di ciò che gli stava davanti.
Lui e Angela erano arrivati da Amburgo due giorni prima e, per essere due fidanzati ventiduenni alla loro prima vacanza all’estero in coppia, fino a quel momento si erano comportati abbastanza bene. Ma quella sera, dopo essere usciti con un gruppo di tedeschi in vacanza come loro, avevano leggermente esagerato. Mentre rideva sguaiatamente e cercava di ricordare quando si erano separati dagli altri, vide, attraverso una specie di nebbia, lui e Angela che attraversavano una strada e passavano in mezzo ad un gruppo di alberi. Angela gli passò le braccia intorno al collo e lo baciò con passione; lui, pur ricambiando, con la coda dell’occhio si guardò in giro, e, tra i fumi dell’alcool, notò, in mezzo agli alberi, un ampio spiazzo con al centro una fontana.
Far girare i pochi ingranaggi del suo cervello liberi dal rum e occuparsi contemporaneamente di una ragazza ubriaca e focosa non era esattamente semplice, ma Kurt, con la schiena appoggiata ad un albero, alla fine riuscì a capire dov’erano finiti: i Giardini della Fortezza da Basso. La sua geografia di Firenze non era perfetta, ma da quanto ricordava dalle cartine, il loro albergo era poco lontano. E visto il modo in cui Angela cercava di infilare le mani sotto la sua camicia, era una fortuna che la distanza fosse poca.
Accarezzando delicatamente la guancia della ragazza le sussurrò:- Ti ho già detto che ti amo?
- Non serve…lo so già!- gli rispose, baciandogli languidamente il collo.
Il giovane accostò la bocca all’orecchio della fidanzata e sussurrò:- Il nostro albergo è qui vicino. Mi sembra il posto migliore dove concludere la serata…
Angela sorrise maliziosamente:- Ottima idea!- e lo accarezzò in modo lussurioso.
A Kurt venne voglia di prenderla lì, all’aperto, sotto le stelle. Tanto il parco sembrava completamente vuoto. Ma aveva sentito troppe brutte storie sull’Italia; anche nella sbornia si ricordò del famoso “Mostro di Firenze”, e decise che, con un letto a poche centinaia di metri, non valeva la pena di correre il rischio. Ma prima di dirigersi verso l’albergo, c’era una piccola questione da sistemare: era impossibile bere quanto lui quella sera senza pagare un piccolo prezzo.
- Dammi un minuto, piccola.- disse – Devo…beh, devo cambiare l’acqua al canarino!
Angela rise:- Sbrigati! E non maltrattarlo, stasera mi sento animalista!
Ridendo a sua volta, Kurt si addentrò nel boschetto; dopo pochi passi, sparì nell’oscurità.

Kurt inciampò tre o quattro volte prima di trovare un punto che gli piacesse. Si appoggiò con la spalla sinistra ad un albero e, con una certa fatica, si tirò giù la cerniera dei jeans. L’idea di una Angela eccitata che lo aspettava lo spingeva a sbrigarsi, ma i suoi canali sembravano in piena inondazione, e ci misero un bel po’ a finire di svuotarsi.
Tra questo, i pensieri erotici e la sbornia, nessuna parte del suo cervello era rimasta disponibile a concentrarsi sullo scricchiolio di rami spezzati ed erba calpestata dietro di lui. Era ancora preso dal tentativo di richiudere la lampo quando qualcosa di grosso si stagliò alle sue spalle nell’oscurità. Non vide una forma fendere fulmineamente l’aria, ed aveva ancora la testa abbassata quando questa gli venne staccata dal corpo.

Angela si era trascinata fino ad una panchina e vi era crollata sopra; l’eccitazione era scomparsa insieme a Kurt; si sarebbe probabilmente riaccesa con il suo ritorno, ma per il momento era subentrato lo sfinimento. Non si rese neanche conto di quanto tempo il ragazzo ci stesse mettendo per fare pipì: crollò presto in un sonno pesantissimo.

Aprì gli occhi ancora intontita: sul momento credette che a svegliarla fosse stato il delicato tocco di Kurt; bastò un’occhiata per capire che non era stato il suo ragazzo. La nebbia regnava ancora sovrana nella sua testa, e non riuscì ad identificare l’enorme forma irregolare che torreggiava su di lei, ma vide che si muoveva, e che due protuberanze si erano tese dietro la sua schiena, come a raccoglierla. La sola cosa che la sua mente riuscì a distinguere prima di collassare furono due grandi cerchi, nella parte superiore della figura, che nella luce della luna rilucevano dei colori dell’arcobaleno. Poi fu solo buio.
La gente dormiva, e non c’era nessuno in giro in quella zona, nessuno a Firenze che sentisse l’urlo di Angela Liszt.
Julian Grant si trovava in Italia da poco più di quarantott'ore, e già stava inseguendo una donna. Un estro donnaiolo era risaputo essere uno dei tratti fondamentali della famiglia Grant, tant'è che Othis B. Grant, vissuto ai tempi della Guerra di Secessione, disertò proprio a causa della figlia di ricchi proprietari terrieri che, fuggiti dall'Unione, ripararono a Filadelfia; il bisnonno Louis, invece, era un incallito collezionista di amanti, tant'è che divorziò quattro volte e riprese altrettante mogli, di cui l'ultima a settantasei anni. Fu con l'arrivo della nonna, Maureen Farrell, irlandese e fervente cattolica, che la famiglia Grant subì una brusca sterzata in direzione di una certa morale: e infatti anche i genitori di Julian erano la tipica coppia sposata da American Dream, e a lui tutto ciò non arrecava alcun problema; meno convinto di queste teorie patinate e cariche di ipocrisia e falsità risultava però il fratello maggiore, William, che appena raggiunse la maggiore età si battezzò con rito protestante (da questo fatto derivò una delle più furiose liti che lo stato dell'Iowa ricordi) e, nel giro di alcuni mesi, partì verso ovest alla ricerca di donne e divertimento.
Julian aveva in mano alcuni elementi a suo favore, il che lo rassicurava enormemente già in partenza: la ragazza parlava un inglese eccellente e, inoltre, si era mostrata curiosa di conoscere aspetti lievemente più profondi del giovane rispetto agli altri compagni di classe. Insomma, egli aveva avvertito la domanda sull'universo femminile più come un invito ad uscire allo scoperto, a vedere di cosa potesse essere capace nei confronti del gentil sesso. Già dal secondo giorno di scuola, il martedì, egli si fece trovare con un bicchiere di caffè in mano a dare il buongiorno a quella deliziosa ragazza, e lei rispose ogni volta con risatine, occhiolini e lievi rotazioni degli occhi. Passarono circa dieci giorni dal loro primo incontro, e Julian Grant già accompagnava a cena fuori Serena Costantini. In una mail indirizzata al fratello la descrisse nel seguente modo:
L'ho notata appena ho messo piede nell'aula, e ti assicuro che è la più bella ragazza che abbia mai incontrato. Ha gli occhi verdi ed i capelli castani, ed è alta poco meno di me. Una cosa di lei che sicuramente non ti piacerebbe è il fatto che non ha le tette grandi, ma ti assicuro che per me, in questo momento, è l'ultimo dei problemi.
La mail continuava con una descrizione della città, della scuola e di altri piccole e grandi esperienze di cui Julian era stato protagonista fino a quel momento; ma William era troppo occupato e non poté rispondergli.

giovedì 23 gennaio 2014

Iced Earth, "Plagues Of Babylon" [Suggestioni Uditive]

Iced Earth
Plagues Of Babylon (Century Media, 2014)

★★★

















Sono più di dieci anni (cioè dall'uscita e dal conseguente acquisto del mini-Cd The Reckoning) che mi interesso a cosa fanno gli Iced Earth, una delle più significative band heavy metal statunitensi di sempre; ed è spesso capitato che mi sia ritrovato ad ascoltare album fatti col cuore ma anche molto discutibili. Ad esempio, i recenti concept album Framing Armageddon (2007) e The Crucible Of Man (2008) potevano aver avvicinato alla band di Tampa gli appassionati di un metal meno grezzo e più "elaborato" e vicino al gusto epic, ma allo stesso tempo non avevano minimamente convinto lo zoccolo duro dei fan. La successiva uscita dalla band del cantante Matt Barlow e l'arrivo del più giovane canadese Stu Block aveva portato a Dystopia (2011), un album discreto dove il gruppo tornava a fare un classico heavy metal maideniano (non era un caso la presenza della brutta cover di The Trooper) senza proseguire saghe, sotto-saghe e pseudo-saghe. 
Oggi Stu Block è ancora là, e pure il fondatore e leader Jon Schaffer, l'uomo che ha preferito suonare in una band metal piuttosto che insegnare storia nelle scuole. E il nuovissimo Plagues Of Babylon testimonia come l'intesa fra il chitarrista e il cantante si sia rafforzata rispetto a tre anni fa, e di come gli Iced Earth siano ancora perfettamente in grado, dopo undici album in studio, di centrare alcuni bersagli. Quali? Per prima cosa, il bersaglio della coerenza: brani come Among The Living, The Culling o The End? suonano solidi, freschi e carichi di una rabbia sanguigna tutta loro, che torna a riabbracciare il trash metal con cui gli Iced Earth, che all'epoca si facevano chiamare Purgatory, esordirono nel lontano 1986. E cosa dire della stupenda ballatona If I Could See You? Una canzone di grande pregio e uno dei migliori pezzi del genere mai inciso dal gruppo, che dai tempi di Melancholy sa di essere molto a proprio agio con testi strappalacrime e atmosfere romantiche. 
Cosa non salvo di questo Plagues Of Babylon? La presenza di troppe canzoni di cui si poteva fare a meno: Chtulu (a me piace Lovecraft, però ultimamente, fra social-network, cinema e musica, ha rotto un po' il cazzo), Parasite, Spirit Of The Times (cover dei Sons Of Liberty, che sono un progetto parallelo di Schaffer) e Peacemaker sono davvero di troppo. E poi, mi dispiace, ma le performance vocali di Block talvolta appaiono un po' troppo "sopra le righe" e lontane da quel timbro che da sempre associo alla band floridana. Mi piacevano poco tre anni fa e continuano a piacermi poco anche ora.
Per il resto, nulla da dire, se non che per i fan di Symphony X e Volbeat c'è una piccola sorpresa. Buon ascolto.

martedì 21 gennaio 2014

[Recensione] Il capitale umano

Pochi film usciti negli ultimi tempi possono fare affidamento su un soggetto interessante come quello offerto da Stephen Amidon col suo romanzo Il capitale umano (Mondadori, 2008). Anche "adattando" la trama e l'azione alla Brianza bigotta, razzista e spietatamente ricca (ma meno ricca di una volta), le idee e i contenuti rimangono gli stessi. Un fuoristrada investe un ciclista, e attorno a questo spiacevole incidente si costruiscono- scandite in "capitoli" e andando a ritroso -le vicende di due famiglie, quella aristocratica dei Bernaschi e quella medio-borghese e rampicante degli Ossola: il nucleo della prima è composto dallo speculatore Giovanni (Gifuni), dalla accomodante e "accomodata" moglie Carla (Bruni Tedeschi) e dallo stupido figlio liceale Massimiliano (Pinelli), quello della seconda dall'immobiliarista in rovina Dino (Bentivoglio), dalla sua seconda moglie Roberta (Golino) e dalla sensibile figlia Serena (Gioli), a sua volta legata al Bernaschi Junior.
Peccato che Paolo Virzì sia un mediocre in un mondo di pessimi, perchè da un soggetto simile ci si poteva davvero tirare fuori un gran buon film. Peccato anche che gli attori italiani non ce la facciano: vero che non siamo in un film di Neri Parenti (Gifuni, Bentivoglio, l'esordiente Gioli e il ritrovato Gigio Alberti sono veramente la forza del film), ma le interpretazione della Golino, di Lo Cascio e della Bruni Tedeschi abbassano notevolmente la qualità della pellicola e i toni del dramma (la scena di sesso fra la signora Bernaschi e il romantico professorino di provincia farà rimpiangere la mitica accoppiata Moretti-Ferrari in Caos calmo). A questo proposito, so che sto per scrivere una banalità, ma la scrivo ugualmente: basta con questi attorucoli da due soldi che arrivano dalla televisione e si portano dietro le incapacità che comporta il fare televisione oggi. Certo, anche negli anni '60 succedeva, ma Tognazzi e Volontè non venivano dalla casa del Grande fratello, ma da una televisione diversa e d'avanguardia, perchè questo era la RAI di allora. 
Il finale morbido, bipartisan e piacevole è la riprova che in Italia nessuno ormai riesca a fare un cinema popolare che non sia anche un cinema populista (peccato, perchè il quartetto La bella vita, Ferie d'agosto, Ovosodo e Baci e abbracci con cui il regista livornese aveva aperto la carriera lasciava ben sperare), e che la critica pura e velenosa verso chi ha il potere (e il personaggio di Giovanni Bernaschi, una merda d'uomo che "ha scommesso sulla rovina di questo paese e ha vinto"- per citare un dialogo del film -, è uno di quelli verso cui indirizzare critiche molto precise) non va di moda. Una regia generalmente di poco gusto e pensata più per la televisione che per il cinema testimonia come il cinema di Virzì sia al servizio di produzioni incapaci di dare al film perfino un ottimo apparato tecnico. <<Tanto chi se ne frega?>>, dicono loro. <<Il 70% degli spettatori sono persi fra le cazzate del mondo, a comprare macchine e telefonini e al cinema ci vanno solo il pomeriggio di Natale. Il 30% restante che va a vederlo tanto è formato dai soliti quattro o cinque comunisti di merda...>>. 
Insomma, caro Virzì, hai una casa di produzione, hai i soldi, trombi (?) la Ramazzotti, perchè non lasci questi ottimi soggetti in mano a chi ha un po' più spina dorsale di te nel mostrare certe terribili verità dell'Italietta di oggi? Verità che, alla fine, non sono nulla di nuovo rispetto a ciò che il grande Lucio Fulci (un vero regista e un maestro) mostrava, col sorriso, già nel lontano 1975 in Il cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza.

sabato 18 gennaio 2014

[Recensione] Lo sguardo di Satana- Carrie

Esattamente quarant'anni fa, nel gennaio del 1974, la casa editrice Doubleday pubblicò la prima edizione di Carrie di Stephen King. Sulle prime, le vendite non furono eccezionali, ma dopo l'uscita della prima edizione economica, il romanzo andò letteralmente a ruba, vendendo oltre un milione di copie.
Non voglio scrivere del come e del perchè Carrie rimane una delle opere basilari di King, quasi un "abbecedario" con cui potersi avvicinare alla letteratura horror, nè ho deciso di "scomodare" il film di De Palma risalente al 1976, con Sissy Spacek nel ruolo della protagonista: sono entrambe grandi opere che non meritano di essere disturbate per recensire questo nuovo Lo sguardo di Satana di Kimberly Peirce, un film che pure nella sua fredda e moderna bruttezza pone alcune questioni.
Il film parte bene, anzi, benissimo: belle musiche di Beltrami e una Julianne "Giulianona" Moore perfetta nel ruolo della fanatica signora White. Ecco, il "buono" finisce tutto nel giro di un quarto d'ora e lo spettatore si ritrova davanti alla versione orrorifica di Una spia al liceo, con attricette tutte "belline" e "perbenino" che però non sanno fare il loro lavoro. Così, quell'aria minima da film horror serio e sfrontato viene meno nell'arco di venti minuti, per colpa anche di dialoghi che sembrano uscire dal diario di terza media di una bimba(minkia) invece che da un libro del "Re del Terrore". Dopo appena un'ora, il sangue e l'eros si mescolano, ma sono robetta da poco, nulla di paragonabile- come quantità -a quanto faceva vedere De Palma quarant'anni fa (il cinema in America va indietro, si sa); e poi subentrano gli effetti speciali, unica spesa "giustificata" dei trenta milioni di budget investiti dalla MGM. La Grace Moretz si sfoga e facendolo viene ridotta a insignificante copia sanguinolenta di qualche mutante uscito da un (brutto) film della Marvel. 
Potrei riaprire la mia consueta polemica sul cinema di genere, ma mi limiterò a rivangare il mio pensiero di sempre: lasciatelo fare a chi ne è capace. Capisco la smania della signora Peirce (che aveva assestato un gran bel colpo con l'esordio Boys Don't Cry) di dirigere un horror, ma proprio non ne è capace, non ha il mestiere di certi "grandi minori" emersi negli ultimi quattro, cinque anni. Ma la vera condanna di questo Carrie 2.0 non è tanto la regia, quanto la sceneggiatura, il contenuto: ribaltando totalmente gli intenti sia del romanzo che del primo film, il nuovo Sguardo di Satana è il classico filmetto cerchiobottista senza anima, incapace di prendere una presa di posizione solida, vera, antipopolare. <<Deve fare paura?>>, si chiedono i produttori, e si rispondono da soli <<Sì, ma non troppo, e senza offendere, senza essere sgradevole, senza disturbare nessuno, ecc.>>.
Insomma, senza essere cinema.

venerdì 17 gennaio 2014

[Recensione] The Counselor- Il procuratore

Per Cormac McCarthy l'umanità è essenzialmente malvagia. Ce lo ha sempre dimostrato, senza remore, in quasi tutti i suoi libri. Si dà il caso poi che una buona fetta delle sue opere abbia avuto delle trasposizioni buone (Child Of God di James Franco), ottime (The Road di John Hillcoat) e addirittura eccezionali (Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen): e forse è proprio per questi eccellenti esiti che l'autore premio Pulitzer de La strada (2007) si è convinto, ad ottant'anni suonati, a scrivere The Counselor, la sua prima sceneggiatura cinematografica. 
A mettere in scena la tragica e fredda (per quanto riscaldata dal rovente sole del confine fra Texas e Messico) storia di cinque pezzi di merda (tre uomini e due donne) ci pensa Ridley Scott, che dopo i recenti fasti di Prometheus (costato 130 milioni di dollari) e una sfilza di film mediocri collezionata negli ultimi anni (pensate anche solo ad Hannibal, Robin Hood, Un'ottima annata o Il genio della truffa) torna dietro alla sua macchina da presa con un thriller anomalo, crudo, difficile, grottesco e arricchito, nello script, dalle bellissime parole di McCarthy. E l'adattare a dei grandi attori (Fassbender e Bardem sono una certezza ormai, ma anche la Diaz si trova molto a suo agio nel ruolo dell'assatanata dark-lady) una bella sceneggiatura riesce molto bene. The Counselor è un film disturbante ma, soprattutto, cinico: non riesce ad avere pietà per nessuno dei suoi personaggi perchè nessuno di loro la merita. Sono tutti delinquenti "a loro modo", viaggiano in automobili di lusso per le baraccopoli di Juarez, portano i loro ghepardi domestici a cacciare conigli nel deserto, e hanno soltanto paura dei propri sentimenti. L'unico personaggio che all'apparenza potrebbe sembrare positivo è quello della Cruz, ma in realtà anche lei è complice, anche lei si trova a suo agio nel gioco sporco dell'innamorato- ma non per questo meno malvivente -Procuratore. La verità che Scott e McCarthy fanno venire a galla è che queste persone siano addirittura peggiori di quello che fanno e di ciò che dicono.
Sono passati ventidue anni da Thelma and Louise: il deserto texano c'è sempre, anche Brad Pitt (lanciato proprio in quel film e pagato, all'epoca, seimila dollari) ha ancora il suo cappello bianco da cowboy, ma è l'europeo Ridley Scott a vedere un America di confine meno rurale e romantica rispetto a  quella dove fece morire le sue splendide eroine vent'anni fa. Non è un paese per vecchi, e il sogno americano finisce col coincidere con quello del Procuratore: Dio, patria, amore, famiglia e sangue. Tanto sangue.

5 film del 2013 visti tardi da vedere, recuperare, avere [Album]

PREMESSA

Butto un occhio all'archivio del blog, e noto con stupore che la rubrica Album non vede un aggiornamento dall'ottobre del 2013 (mese in cui recensii Dead In Tombstone). <<Strano>>, mi sono detto. Perchè io di film in home video ne vedo tantissimi e ne compro abbastanza, e proprio lo home video, spesso e volentieri, rappresenta per me l'unico strumento grazie a cui recuperare (assieme allo streaming e, saltuariamente, alla televisione) titoli più o meno recenti, oltre che il mezzo con cui vedere opere mai uscite in sala o addirittura inedite nel nostro paese (Hobo With A ShotgunGuilty Of Romance o Dead In Tombstone sono stati recensiti da me proprio in quest'ottica). 
Così, per recuperare questi due mesi di "astinenza" da Album e per segnalare alcuni film che non sono finiti nella classifica sulla stagione 2013, ho deciso di recensire 5 diversi titoli, fra cui 1 pubblicato direct-to-video.

THE RAID- REDENZIONE di G. Evans (Indonesia, 2011) [inedito in sala]

Film indonesiano del 2011, uscito negli USA nel 2012 e arrivato in Italia il 4 dicembre 2013 in DVD e Blu Ray grazie alla Eagle Pictures, The Raid non si segnala di certo per la trama: una squadra speciale di poliziotti viene spedita ad uccidere il capo-mafia di Jakarta, residente nell'attico di un grattacielo che pare sia inespugnabile; ogni piano, infatti, è difeso e praticamente "comandato" da un criminale diverso, il cui compito ultimo è difendere il proprio superiore, che a sua volta coordina il piano di sopra. Evans gira tutto il film influenzato dai grandi autori (si pensi agli occidentali Walter Hill o John Carpenter come agli orientali John Woo o Tsui-Hark) e insegna- a chiunque -come girare un film di azione tratto da quattro righe di sceneggiatura e innovativo in ogni singolo fotogramma. Nessun blockbusteraio degli ultimi dieci anni (nemmeno i blockbusterai travestiti da grandi autori) ha mai girato un film così perfetto sul piano tecnico. E nonostante il milioncino di budget (ne ha incassati quindici nelle sale dei paesi in cui è uscito) si mangia a colazione le trovate dei vari Fincher e Nolan, bravi ma le cui spettacolarità non hanno neanche l'ombra di un combattimento di The Raid. Un film incredibile, che vale- da solo e visto anche in un 11'' -cinque Batman Begins.

STOKER di Park Chan-Wook (USA, 2013)

Primo film "occidentale" di Park Chan-Wook (coreano che coi tre indispensabili Mr. Vendetta, Oldboy e Lady Vendetta si è assicurato un seggio d'onore nel pantheon dei grandi registi), Stoker nasce da una lavorazione travagliata e "graziata"dalla mano di Ridley Scott produttore. E' la malata storia di India Stoker (Mia Wasikowska), giovane attratta dalla violenza brutale e solita masturbarsi sotto la doccia ripensando ad un omicidio a cui ha assistito (tanto per fare un esempio. Un film disturbante e coraggioso, che mostra meno di quanto potrebbe e riesce comunque a far capire benissimo come certi animi umani siano marci alla radice: per sopravvivere basterà trovare i mezzi con cui tenere a bada la propria indole (la caccia ad altri esseri viventi, nel caso di India). Stoker è un grande dramma che vuole dare fastidio e lo dà, portando avanti la storia di una ragazza carina e gentile che scopre come la violenza faccia parte di lei. Le critiche hanno fatto ridere: "lento", "noioso", "mal recitato", "mal scritto". Ecco, ribaltatele e otterrete un film dove tutto funziona e dove la regia è oggettivamente potente, studiata e originale. Farvelo "andare bene" o meno è un problema che si pone successivamente: non a tutti può piacere un film che ci ricorda che, alla fine di tutto, l'essere umano è composto di sangue, merda e acqua. Ecco: Stoker serve a questo, a ribadire che siamo tutti delle macchine mobili e che come tutte le macchine possiamo avere dei malfunzionamenti. Un capolavoro che va visto e rivisto almeno tre volte.

LA NOTTE DEL GIUDIZIO di James De Monaco (USA, 2013)

Passo a parlare di un film "difficile": "difficile" perchè vedendo i nomi dei produttori (Bay su tutti) ero un po' prevenuto e "difficile" perchè i cultori dell'horror (sempre più simili a nerd incompetenti che non mettono piede in un cinema dai tempi di Ghost Rider) lo hanno prevalentemente stroncato. A mio avviso, invece, La notte del giudizio di James De Monaco è un film pieno di pregi. Intanto, ha questa trama di un futuro prossimo dispotico (2022) dove, negli Stati Uniti, per una notte all'anno tutti possono commettere crimini a proprio piacimento; poi, al mattino, tutti amici come prima. Una trama simile per me vale già il film, che ha anche il pregio carpenteriano di svolgersi quasi totalmente in un interno "assediato", un pregio dovuto non solo a motivi di risparmio economico, ma anche ai contenuti sociali della pellicola. Si pensi a come le quattro mura disegnano- nel cinema come nella vita -una sorta di distinzione fra noi e il mondo esterno e infondano in coloro che le abitano la falsa consapevolezza che, all'interno, tutto possa essere lecito. Ci sentiamo protetti fin quando le pareti non vengono meno (è qui che sta la grandiosa idea di Von Trier di rappresentare, in Dogville, un paese totalmente senza mura) e le situazioni fra i vari personaggi si modificano, ribaltandosi pressochè del tutto. Ma La notte del giudizio ci dice anche di più, e mostra come fattori quali i soldi, la natura borghese e la possibilità di nascondere il marcio non limitino la crudeltà: anzi, la accentuano e la amplificano. Dunque non siamo di certo di fronte ad un capolavoro, però passiamo meno di due ore senza spengere il cervello neanche per un secondo. De Monaco sbaglia, certo, ma sbaglia col cuore e fa sì che La notte del giudizio non sia più di quello che è: diverte e inquieta attraverso uno sviluppo narrativo mai banale. E riesce anche ad andare oltre al film di genere, nella sua rappresentazione di come l'uomo si comporterebbe in una determinata situazione. La ricerca visiva e la ricerca narrativa vanno di pari passi e fanno più che mai de La notte del giudizio un film da vedere.

SINISTER di S. Derrickson (USA, 2013)

Forse è nato sulla scia dei vari Insidious, ma- al contrario delle produzioni Wan -questo Sinister ha una anche una trama (non è poco), e non solo due mostri di merda fatti al computer. Derrickson è un bravo regista di mestiere e non un genio della macchina da presa (lo aveva ampiamente dimostrato con Hellraiser 5-Inferno e pure col più tiepido Ultimatum alla terra, remake dell'omonimo cult-movie degli anni '50), ma la sua "mano" è perfetta per questo bell'horror dove ritroviamo un Ethan Hawke da Oscar nei panni di questo scrittore sicuro di sè e del proprio lavoro che viene però messo alla prova da entità a cui non può e non vuole credere. La trama è ridotta all'osso? Può darsi, ma in quanto ad idee di messa in scena Sinister ne ha da vendere: con poche e classiche inquadrature riesce a fare davvero paura e a risultare ben studiato e montato. I colpi di scena sono ben dosati e il finale è strepitoso. Ne consegue che è un piccolo grande film senza la pretesa di raccontare il mondo, e che Derrickson è uno di quei nomi da seguire: un talento che solo ora si è manifestato al 101% e che potrebbe regalare ancora ottime sorprese.

ELYSIUM di D. Blonkamp (USA, 2013)

E' incredibile: la gente guarda blockbuster indigeribili, e li guarda volentieri. Poi arriva Blonkamp (il giovane talento sudafricano che ci ha dato District 9) con Elysium e in molti- non dico tutti, perchè il film ha incassato e non poco -hanno da ridire. Non sto a ripetere la trama, che potete trovare su Wikipedia molto ben esposta, ma mi limiterò a dire che, pur non essendo bello come District 9 (perchè è comunque un progetto su commissione e perchè, a mio avviso, ci sono un po' troppe esplosioni), Elysium è uno dei film migliori dell'anno appena trascorso. Peccato che ci si debba solo vergognare delle critiche che gli sono state mosse: tutti concordi nell'elogiare il lato tecnico, la bravura di Blonkamp nel dirigere le scene d'azione, la creatività degli scenografi, il virtuosismo degli addetti agli effetti speciali, l'efficacia del cast, ecc. ... "però peccato che nei contenuti sia appesantito dalla logica marxista". Come "peccato"? La trama del film, per chi lo avesse visto senza accorgersene (anche se ce ne vuole, parliamoci chiaro), è una semplice allegoria di ciò che viviamo noi oggi ambientata nel futuro; e questo non solo è un bene e non un peccato, ma dimostra che il marxismo funziona oggi come centocinquant'anni fa perchè vive di realtà. Dunque inutile fingere che Elysium non sia un film rivoluzionario nei contenuti: lo è eccome, e per fortuna. Ed è altrettanto inutile accogliere con un certo buonismo parrocchiale e giudicare "moderata" una pellicola che mostra come il 10% della popolazione globale si goda il mondo riempiendo il 90% restante di tante piccole cazzate: anche nel futuro di Elysium una discreta fetta di "popolino" si illude di poter stare al pari di chi comanda perchè comunque arriva a desiderare e ad avere determinati prodotti, quando in realtà questi non contano nulla e non sono importanti quanto la salute (e l'operaio Matt Damon se ne accorge a proprie spese). Il contenuto marxista fa vivere questo film, che altrimenti sarebbe soltanto un discreto prodotto fantascientifico con qualche bella sparatoria. E poi Blonkamp sa obbiettivamente girare un film benissimo, e non risulta nè pacchiano nè bombarolo: anche lui, con appena due lungometraggi, ha dimostrato tranquillamente di poter competere con personaggi  à la Nolan (la cui trilogia dell'Uomo Pipistrello vale per me molto meno di District 9 ed Elysium). E se la domanda è <<Elysium può piacere solo ai grigi intellettuali di sinistra?>>, la risposta sarà <<Non necessariamente>>. Il mondo è infatti pieno di stupidi che non sanno niente o di subdoli che preferiscono, comodamente, fare finta di non vedere: per questo, potrà piacere a molta più gente.







mercoledì 15 gennaio 2014

[Recensione] The Butler- Un maggiordomo alla Casa Bianca

Si può provare fastidio nell'andare a vedere un film insulso?
Si può e, secondo me, si deve. In troppi tendono a dover per forza scovare qualcosa di piacevole anche nei film più insulsi (e non solo nei film purtroppo). Questo succede perchè riconoscere i fallimenti, dire <<Ho sbagliato ad andare a vedere questo film, a fare questa cosa...>> non va propriamente di moda,  e lo spazio dell'indignazione deve essere ormai ristretto ai salotti televisivi o ad arene politiche banali e chiassose. 
Tuttavia, provare indignazione di fronte ad un film falso (oltre che insulso) rimane per me una sorta di obbligo intellettuale del quale non mi vergogno e che non reputo di certo una "forzatura". E un film falso come The Butler- Un maggiordomo alla Casa Bianca di Lee Daniels non esce di certo tutti i giorni. Perchè falso? Perchè è il classico film che "rivaluta" (Eisenhower= Kennedy= Johnson= Nixon= Ford= Carter= Reagan, tutti bravi, tutti santi uomini nella stessa maniera, tutte persone che amano molto il proprio lavoro), maschera (un imbarazzante Robin Williams prova a rendere Eisenhower un Patch Adams vestito da presidente degli Stati Uniti invece che da clown), finge che Cecil (F. Whitaker) sia, in realtà, la figura politica più importante del mondo, l'uomo che ha determinato scelte importanti, la persona che contava più degli stessi presidenti a cui portava il caffè: ma, in realtà, questo racconto è "bevibile" per gli spettatori che sono o disinformati o dotati dei famosi "presciutti" intorno agli occhi. Le banalità finto-progressiste con cui poi il film si conclude scaraventano definitivamente Butler nell'Olimpo della merda, e con lui una storia che non è "semplice"- come scrivono garbatamente certi quotidiani locali -, bensì idiota. 
Da un punto di vista tecnico, Daniels si sforza di essere uno Spielberg a budget ridotto: peccato che la fiaba dello Zio Tom maggiordomo buono dei potenti valga l'ultimo pelo del culo di un qualsiasi bel film di Spielberg (non che siano poi tanti). E sinceramente non trovo, nei contenuti di Lee Daniels, la profondità e anche un po' la rabbia che ci si potrebbe aspettare da un autore di colore che aveva promesso un film "di denuncia": anzi, Butler potrebbe essere un film diretto da qualunque becero regista americano in cui ogni due inquadrature deve comparire la bandiera a stelle e strisce che sventola anche in assenza di vento. Poco da aggiungere, se non che il film irrita per i primi novanta minuti e fa dormire per i rimanenti venti, e che Whitaker è il Denzel Washington dei poveri.
Su Corriere.it leggevo che "sta dividendo la critica": e meno male. Anche perchè, a sentire gli spettatori, è un film che insegna (cosa? le cazzate) e commuove. Viene proprio da dare ragione a quei grandi pessimisti cosmici che affermano che i gusti della gente peggiorano di mese in mese.

martedì 14 gennaio 2014

Il giglio infranto (Capitolo II) [Trame]



IL GIGLIO INFRANTO 
Capitolo II

Il  momento si stava avvicinando. Il tempo era passato, e così le generazioni. Avevano iniziato in due soltanto; ormai erano migliaia, e il sottosuolo era il loro regno. Nel buio, vedeva i suoi figli numerosi come le luci nel cielo che aveva visto la prima notte che era giunta in quel mondo; e, nell’oscurità, sentiva la loro fame. Le piccole creature sotterranee e quelle appena maggiori che sottraevano di nascosto alla luce non bastavano più. Loro bramavano gli esseri più grandi, gli strani animali con due sole zampe che brulicavano all’aria aperta come loro nel sottosuolo. Ne sentiva l’odore; erano così tanti: una riserva di cibo quasi infinita per i suoi figli.
Con suoni che solo loro potevano udire, dette i primi ordini: dovevano sapere cosa li aspettava lassù. Dovevano conoscere meglio le creature che controllavano quel mondo, prima di strapparglielo.Nei mesi successivi gli abitanti di Firenze si accorsero di qualche piccolo cambiamento. Molte persone che per tutta la vita avevano combattuto contro infestazioni di topi, soprattutto gente che possedeva case vicino all’Arno, notò che il numero dei roditori si era ridotto, e che continuava a diminuire. Entro la fine di marzo erano quasi scomparsi. Molti lo trovarono strano, ma nessuno si preoccupò troppo: i subdoli invasori pelosi non erano certo molto amati.Poi toccò a cani e gatti: con l’avvicinarsi dell’estate il numero di randagi calò sempre più velocemente, per poi lasciar spazio alla scomparsa degli animali domestici. Firenze venne tappezzata di avvisi di ricompense e si elaborarono teorie di tutti i tipi, incluse la presenza di un laboratorio clandestino che usava gli animali come cavie o di una setta satanica che li usava per dei sacrifici. Ma nessuno, in fondo, si preoccupò troppo. E, mentre in superficie la popolazione continuava la sua vita, sciamando avanti e indietro per le strade, sotto i loro piedi qualcosa cresceva. Mentre gli uomini di sopra non vedevano e non sentivano nulla, nel sottosuolo qualcosa cresceva. Cresceva, e si moltiplicava.Le nuvole di un luglio afoso e caldo non sorgevano più dai monti e dalle foreste, quasi fossero solo sogni da contemplare attraverso i finestrini del grande aereo su cui aveva viaggiato il diciottenne Julian Grant. Era in viaggio da circa due giorni: partito dalla sua Des Moines, aveva raggiunto Atlanta, per poi cambiare aereo e arrivare a Roma, dalla quale si era diretto alla volta della stazione di Santa Maria Novella, Firenze, tramite un treno di dimensioni talmente piccole che il giovane temeva di aver sbagliato e di esser finito sui servizi ferroviari delle poste. Non ebbe nessun problema, nonostante gli aborigeni non tendessero a parlare molto la sua lingua e talvolta potesse apparire difficile chiedere spiegazioni anche a chi di dovere. Un grande cartellone della stazione fiorentina segnava i 39°(ed erano appena le dieci del mattino) quando Julian scese dal vecchio treno e, con una valigia e uno zaino, si diresse verso l'uscita. Pensò che l'Italia, per ora, al di là di qualche paesaggio, non infondesse poi maggiore allegria rispetto al suo paese. <<Taxi!>>. Montò e non ci volle molto a capire che il tassista non sapeva una parola di inglese; Julian si era tenuto pronto un discorso in lingua italiana, ma ora non esisteva verso di farglielo tornare in mente, e dunque si limitò ad estrarre dalla sua agenda un biglietto col nome della via dove si trovava il suo appartamento: -Via...de... dell'Anguillara, per piacere.-. Il tassista rise e partì.Via dell'Anguillara era vicina all'Arno, a Piazza della Signoria e a Santa Croce, e Julian Grant non aveva mai visto nulla di simile in quasi vent'anni spesi sul pianeta terra; tutto in quel luogo aveva un ordine estetico diverso da quello cui era abituato. E' vero che le cose erano più piccole rispetto all'Iowa, ma egli si era già innamorato di tutto quel microcosmo appassionato che passava attraverso quella via, dei colori, della puzza di orina di gatto, dell'odore (mai sentito precedentemente) di una qualche verdura rustica che andava a sposarsi perfettamente con i rifiuti indifferenziati e i gas di scarico degli scooter. I suoi genitori avevano optato per un bilocale di via dell'Anguillara su consiglio di un amico che lavorava per una rete televisiva di Des Moines e che per anni aveva tenuto un appartamento per le vacanze estive proprio in quella parte della città. Julian si era dimenticato che i suoi scopi includevano lo studio, ma aveva anche rimosso qualsiasi ricordo dei suoi genitori, della sua città, dei suoi amici, dei sandwiches tanto buoni preparati dalla mamma, dei campi di mais che vanno oltre l'occhio di un uomo, del latte freddo portato in tavola la mattina, della sua casa che sembrava nuova anche se aveva appena quarant'anni. Se Bill mi vedesse ora, verrebbe nel mio appartamento a fare casino con qualche ragazza tettona e del bourbon! pensava. Bill era il suo fratello maggiore, ma non si vedevano quasi mai.






martedì 7 gennaio 2014

[Recensione] Capitan Harlock 3D

Avendo la fortuna di non aver passato buona parte dell'infanzia imbambolato davanti ad una scatoletta, ho scoperto molto tardi la serie animata di Capitan Harlock e l'ho trovata, sin da subito, un qualcosa di veramente pregevole. Bella storia, bella ambientazione, ma, soprattutto, bei personaggi. Il tutto introdotto da quella sigla clamorosa e nettamente superiore alla sua originaria versione nipponica.
Ciò che mi colpisce subito nella creatura di Leiji Matsumoto è la patina leggendaria che avvolge il protagonista, che non è il Jack Sparrow con gli occhi a mandarola (per fortuna) e neanche il giustiziere playboy che si abbandona volentieri a momenti di imbarazzante umorismo orientale: Harlock è serio, risoluto, devoto alla propria causa.
Ebbene, tutti questi elementi trovano la giusta e rispettosa rielaborazione nel cartone animato Capitan Harlock 3D, girato in computer grafica e diretto da Shinji Aramaki. Peccato soltanto che Harlock sia un semplice soprammobile, un bellissimo ed elaborato oggetto di scena che fa da sfondo ad una vicenda pallosa e maldestramente narrata: quella della rivalità fra i fratelli Yama (che non è il figlio di Mefisto, nemico di Tex Willer) e Yattaran, intenti a scornarsi nell'universo semi-infinito e a stabilire, una volta per tutte, se il pianeta Gaia (la terra) è ancora soltanto un ologramma sacro oppure un luogo dove il genere umano può fare ritorno. Intorno a loro si snodano e si intrecciano trame e sottotrame di personaggi odiosi e dai nomi incomprensibili, accompagnate da sviluppi e situazioni che non sono tanto mal raffigurati quanto del tutto inutili (come, a conti fatti, l'intero film).
<<Eh, ma la grafica è bella>>, ci possono dire i "settecervelli" che devono trovare per forza un motivo per cui avere buttato dignitosamente dieci euro nel cesso. Mettiamo le cose in chiaro: la grafica di Capitan Harlock 3D è INDISCUTIBILMENTE bella, anche perchè la Toei Animation ha speso più di 30 milioni di dollari per realizzare questo kolossal animato e ha sfruttato tecnologie con cui noi faremo i cartoni fra cinque, sei anni minimo. Perciò come faceva ad essere brutto sul piano formale un film girato in computer-grafica nel paese più tecnologicamente avanzato al mondo? Domandatevelo.
Il 3D è solo uno scopo di lucro, una trovata che non ha alcuna finalità artistica (come nove volte su dieci) e che odora lontanamente di disonesto. Così come disonesti appaiono gli innumerevoli furti estetico-cinematografici perpetrati ai danni del primo film di Guerre Stellari (o Star Wars-Episodio IV, o Una nuova speranza, o ecc.).
Ma non temete: al contrario della storica serie animata (che con appena due serie da 24 episodi ciascuna continua a godere di grande popolarità) o del manga da cui essa era derivata (riproposto, nel 2008, da Planet Manga in una bella edizione in 5 volumi), ci dimenticheremo presto di Capitan Harlock 3D e non sentiremo la mancanza di un film nè desiderato nè tantomeno indispensabile, ma semplicemente brutto.

P.S.: posto un cortometraggio spagnolo del 2007  diretto da Miguel Mesas e lo dedico a tutti quelli che <<lo hanno fatto animato perchè a farlo con le persone vere era troppo difficile>>.
Buona visione, coglioni!



sabato 4 gennaio 2014

Il giglio infranto (Capitolo I) [Trame]


PREMESSA

Vi starete chiedendo cosa ci faccia il logo della Double "B" Production in cima al primo post della rubrica Trame del 2014. 
Finora siete stati abituati a vederlo capeggiare- in grande -in alcuni post delle Ombre elettriche, in particolare in quelli che si occupano di cinema di genere, e più precisamente di classifiche e consigli per la visione di filmoni, filmetti e filmacci: dunque non vi aspettavate di certo che la Double "B" si dedicasse anche all'esercizio letterario.
E invece è proprio così; anzi, vi diremo di più: il nostro sodalizio nasce proprio in ambito letterario, ai tempi del liceo, e va proseguendo dagli anni a venire. Nel 2009 iniziamo a spedire manoscritti a concorsi e piccoli editori, oltre a scrivere il nostro primo racconto "a quattro mani" (lo chiamammo da subito così per creare un'assonanza con un tipo di sonata per pianoforte di gran moda nei primi dell'Ottocento), un mistery-horror dall'eloquente titolo Il killer degli Urali
E visto che la smania del creare non passava, decidemmo di partecipare ad un concorso triestino di fantascienza, dove però si richiedeva un racconto che avesse un minimo di cinquanta cartelle. Avevamo sei mesi per scriverlo e ce la prendemmo con tutta la calma del mondo (esattamente il contrario di quanto fatto precedentemente). Redigemmo un severo piano di lavorazione e- come i veri professionisti -iniziammo a prendere appunti e a raccogliere materiale su un'idea un po' folle: gli alieni che invadono Firenze. 
Dai frutti di questa idea nacque Il giglio infranto, che ci costò un'immane fatica (cinque mesi di scrittura effettiva, settantadue cartelle consegnate giusto in tempo e nemmeno una lettera di "Ci dispiace ma il vostro lavoro..."), ci fece fumare molte sigarette e discutere anche sui particolari più inutili, fino a diventare molto più simile ad un romanzo breve che ad un racconto lungo.
Oggi decidiamo di riprenderlo in mano, apportando qualche correzione e alcuni cambiamenti per poterlo pubblicare sul blog suddividendolo in capitoli.
Speriamo che il risultato vi piaccia. Buona lettura.

IL GIGLIO INFRANTO
Capitolo I

Le colline di Fiesole erano coperte di neve, come se un candido manto di cotone fosse caduto sui boschi, sui campi e sui vitigni sopra Firenze. Solo pochi chilometri separavano quei luoghi di pace dalle luci e dalla confusione del carnevale fiorentino, ma sembravano appartenere ad un altro mondo. Dopo due giorni di intense nevicate che avevano coperto la città medicea, per la gioia dei bambini, quella notte, per la prima volta da giorni, il cielo era punteggiato di stelle. Il freddo era intenso, e se in città nessuno sembrava accorgersene a causa della festa, nella campagna non c'era anima viva fuori di casa.
Perciò nessuno notò una scia dorata attraversare il cielo; e, anche se qualcuno l’avesse notata, l’avrebbe scambiata per una stella cadente fuori stagione. Neanche i radar dell’aeroporto di Peretola la inquadrarono: un segno passò sui loro schermi, ma scomparve talmente in fretta da essere ignorato.
E così, nessuno vide una fiammata attraversare l’aria sopra Firenze; si confuse con le luci della città. E nessuno vide lo schianto, o il fuoco, o gli alberi caduti. Nel silenzio ovattato della neve, nessuno sentì. Un cratere fumante nel terreno rimase come unico segno che qualcosa era accaduto.
Una voragine di quasi dieci metri di diametro feriva il suolo della collina; una nube grigiastra si levava sopra le cime degli alberi, mischiandosi al fumo nero del fuoco delle piante. Al centro dello squarcio si poteva vedere uno strano oggetto di colore rosso intenso. Aveva una forma pressoché sferica, grande più o meno come un pallone da spiaggia, butterato da strane protusioni. Il rosso appariva venato da strisce arancioni, e volute di vapore si alzavano dalla sfera. Sembrava incandescente; la caduta attraverso l’atmosfera aveva alzato la sua temperatura a livelli inauditi.
I minuti passarono, e il colore cambiò in fretta, schiarendosi; sembrava che il calore emanato dell’oggetto stesse calando a velocità scientificamente impossibile, rivelando un colore azzurro intenso, con venature blu. Il vapore cessò di salire, l’oggetto si raffreddò. Per parecchi minuti non accadde nulla.
Poi sembrò che la strana sfera si animasse: tremò, e l’aria si riempì di un ronzio; infine, dalla parte superiore, iniziò a salire un filo di fumo verdastro, mentre un’area di alcuni centimetri iniziò a incresparsi, poi parve cominciare a sciogliersi; delle gocce, come di cera, scivolarono verso il basso. In meno di due minuti si era formata una piccola apertura; entro dieci, era larga quasi quindici centimetri, e continuava ad allargarsi, come se un acido stesse sciogliendo la superficie.
Quando la strana reazione chimica cessò, l’apertura era ampia una ventina di centimetri. Passarono altri minuti, poi qualcosa comparve sul bordo, qualcosa di sottile e scuro; un’altra forma uguale spuntò accanto alla prima; subito dopo, una figura, delle misure di un volpino, si issò sul margine e saltò a terra. Nell’oscurità, la sua forma era indefinibile, ma, tranne che nella grandezza, non somigliava affatto ad un cane. La creatura girò quella che sembrava essere la sua testa verso l’oggetto sferico ed emise un verso stridente, simile a quello di una cicala, ma stranamente più inquietante. Entro un minuto una seconda, misteriosa figura atterrò accanto alla prima.
Scambiandosi i loro strani stridii, i due esseri si arrampicarono sul bordo del cratere, e, quasi fossero stati spinti da un misterioso istinto, iniziarono a scendere verso valle, verso le luci di Firenze.
La città medicea era in festa. Le strade erano piene di gente allegra e sgargiante nei costumi di Carnevale. Piazza della Signoria era gremita, i bambini correvano da ogni parte, schivando, spesso di pochi centimetri, gli adulti, che sembravano divertirsi quasi quanto loro.
Tutti erano troppo coinvolti per notare due strani esseri che si muovevano furtivi negli angoli più bui delle strade. Non si spostavano a caso: erano decisi, parevano avere una destinazione misteriosa. Nessuno li vide.
O meglio: una persona scorse qualcosa; un solo uomo, vestito da crociato, una birra nella mano destra, la sinistra poggiata sull’elsa della spada. I suoi occhi registrarono un movimento: un’ombra nell’angolo tra due vie. Scomparve prima che il suo cervello avesse il tempo di elaborare l’immagine, e quando si rese conto che c’era stato qualcosa, quel qualcosa era già scomparso.
Si convinse di aver visto solo due cani randagi, nient’altro; bevve altre quattro birre quella sera, ma anche nella poca lucidità della sbornia incipiente il suo cervello tornò diverse volte a chiedersi come aveva potuto immaginare che quegli animali avessero troppe zampe per essere cani.
Scesero giù, sempre più giù, lontani dalle luci, nella calda oscurità. Una parte della loro natura li attirava dove c’erano tutte quelle creature viventi; l’odore di quegli esseri era un richiamo quasi irresistibile, ma il loro istinto li spingeva a scendere sempre di più. Erano troppo piccoli, ed erano soli. Ci sarebbe stato tempo, più avanti, ma per il momento, dovevano solo andare più giù.
Trovarono il luogo che cercavano: ampio, caldo, sicuro. Era il posto migliore dove stabilirsi, dove attendere il momento giusto.





giovedì 2 gennaio 2014

[Recensione] American Hustle- L'apparenza inganna

Questo 2014 non poteva che iniziare meglio di così, almeno da un punto di vista cinematografico.
Dopo l'oblio natalizio e post-natalizio, i cinema infatti riaprono all'insegna di novità e qualità, complice anche una serie di festival più o meno famosi. E così, la sera del primo dell'anno, mi ritrovo in una sala felicemente gremita a vedere il nuovo film di  uno dei più classici registi americani di tutti i tempi, e cioè David O. Russell (l'uomo che negli ultimi tre anni ha regalato al mondo The Fighter e Il lato positivo): American Hustle
Siamo di nuovo di fronte ad una commedia amara, tinta però stavolta con elementi degni di un grande spy-movie e portata in fondo in maniera impeccabile grazie a:
1- una regia sobria ed elegante.
2- una squadra di attori e attrici che non si vede tutti i giorni e che gareggiano nell'essere dei fuoriclasse.
3- una sceneggiatura che non conosce eguali (come, del resto, in tutti i film di Russell).
4- una colonna sonora da pazzi.
5- un montaggio che dovrebbe vincere un Oscar subito.
I lati positivi di un film come American Hustle sono innumerevoli, davvero. Ce ne sono in ogni scena (Russell è ormai pienamente maturo anche da un punto di vista tecnico, e aggiunge svariati virtuosismi in questa sua nuova creatura) e in ogni dialogo. E se da una parte la bravura di Christian Bale è irraggiungibile per chiunque (perfino per De Niro, che pure riappare brevemente in un ruolo decente), dall'altra sia la Lawrence che Amy Adams sono meravigliose, nella stessa misura anche se in modi diversi. Bradley Cooper si conferma un grande commediante, mentre stenta un po' di più nel ruolo dell'agente follemente innamorato.
Le "scene madri" non si contano, anche se l'immagine di Jennifer Lawrence che canta Live And Let Die mentre fa le pulizie mi accompagnerà finchè campo.
O almeno, mi terrà compagnia per tutto l'anno appena iniziato.