domenica 27 aprile 2014

Sonata Arctica, "Pariah's Child" [Suggestioni uditive]

Sonata Arctica,
Pariah's Child (Nuclear Blast, 2014)

★★





















Per i profani, certi generi musicali si riducono a monoblocchi di chitarre elettriche sferraglianti, in cui riecheggiano lotte sanguinose delle brume nordiche tra gente vestita di pelliccia con nomi impossibili da pronunciare. In cielo svolazza almeno un drago, mentre nei boschi si aggirano stregoni e folletti. Il power metal nordeuropeo pone indissolubilmente l'ascoltatore di fronte a tutto questo mondo di miti e leggende, e sta a chi vi  si avvicina compiere un passo in più e superare i pregiudizi che circondano un determinato genere: solo in questo modo, si potrà finire ammaliati da questa musica infinita che talvolta arriva a distendersi in vere e proprie "saghe discografiche", per un totale di decine di canzoni. 
I finlandesi Sonata Arctica (si chiamano così perchè provengono da Kemi, cittadina lappone situata poco sotto il Circolo Polare), sin dall'uscita di Ecliptica (Century Media, 1999), hanno saputo destreggiarsi benissimo in quella selvaggia regione dell'heavy metal che è il power. Sulla scia del successo dei ben più celebri connazionali Stratovarious, hanno abbracciato un metallo più melodico e scritto testi sempre molto "fantasyosi", senza però mai dimenticarsi che il loro background culturale risiedeva in quei piccoli club dal gusto anglofilo dove suonavano prevalentemente cover di Queen, Genesis, Metallica, Black Sabbath e Kiss. Ma dal momento in cui quel background ha preso il sopravvento (mi riferisco alla produzione a cavallo fra il 2007 e il 2012), la musica dei Sonata Arctica, almeno per me, ha cessato di esistere: ed è per questo che il 28 marzo non sono uscito di testa di fronte alla copertina col vecchio logo e, soprattutto, col vecchio lupo (simbolo originario del gruppo e segnale di un ritorno alle origini nel sound della band di Tony Kakko) di Pariah's Child, ottavo album in studio della band finlandese. E sono molto contento di non avere "fanneggiato", perchè Pariah's Child, per quanto voglia tornare ai fasti di un capolavoro come Reckoning Night (un album che band in giro da più tempo dei Sonata Arctica si sognano beatamente), ha veramente poco di quel vecchio stile power metal che tanto mi mandava in brodo di giuggiole fino a qualche anno fa. 
Certo, il singolo The Wolves Die Young (uscito a febbraio) fa davvero presagire un gran bel disco, elegante, spontaneo e mai pacchiano, ma la fregatura è dietro l'angolo. Risulta palese che Tony Kakko e i ragazzi vogliano davvero trasportare i fan più accaniti dentro ai propri booklet, lì sulla neve polare, in compagnia di quel corvo e di quel lupo; peccato che, allo stesso tempo, vogliano anche proseguire lungo la strada degli esperimenti più progressive in stile Unia. E così, ecco saltare fuori pezzi che non sono "nè carne nè pesce", da Half Of A Marathon Man a Blood, fino alla lunga Larger Than Life. Ironia della sorte, forse gli unici brani meritevoli di essere trasferiti nei nostri iPod sono proprio quelli meno "puristi" (penso a X-Marks The Spot o a Cloud Factory). Di fronte però ad una ballata talmente infima in tutto e per tutto da chiamarsi Love non si può che convincersi che i Sonata Arctica abbiano perso la bussola, ed è inutile che sguinzaglino il loro caro vecchio lupo per fiutare la giusta pista da seguire: pare servire a ben poco.

sabato 26 aprile 2014

[Recensione] Nymph()maniac Vol. 2

Manco a dirlo, per il Vol. 2 di Nymph()maniac vale quello che ho scritto sul Vol. 1: non può essere altrimenti, dato che si tratta dello stesso identico film diviso- contrariamente al volere del suo autore -in due parti.
Perciò, i motivi per cui questo secondo atto (equivalente agli ultimi tre capitoli del romanzo di Joe) appare più cupo, eccessivo e crudo risiedono nel fatto che la protagonista affronta gli anni della sua maturità umana, caratteriale ma, primariamente, sessuale: e dunque, mentre la sua insensibilità erotica diventa un qualcosa di totale, Joe dà alla luce un figlio, si avvicina al sesso multirazziale e al sadomasochismo, ripercorre- sempre con l'aiuto di Seligman -alcuni ricordi legati alla preadolescenza e racconta, faticosamenete, chi e cosa l'hanno portata ad essere pestata e abbandonata nel vicolo in cui l'abbiamo trovata ad inizio film. Come appare chiaro fin da subito, Nymph()maniac Vol. 2 è un viaggio dal piacere al dolore, "dalla Chiesa d'Oriente a quella d'Occidente". I contenuti si fanno sempre più espliciti (non importa se per affrontare il masochismo, la pedofilia, l'omosessualità o altri momenti della vita da quarantenne di Joe), i simboli sono sempre più arditi e criptici, le citazioni cinematografiche (c'è tanto di Pasolini, quanto di Tarkovskij) abbondano, le digressioni di Seligman tentano di soddisfare- talvolta rasentando il parodistico -quel pubblico non ancora piegato a ciò che un determinato tipo di mercato propone e standardizza nei cinema di tutto il mondo.
Ed è proprio Seligman, l'ascoltatore, il personaggio centrale e risolutivo del Vol. 2, e dunque di tutto il film: coltissimo, ateo, vergine, asessuale, totalmente in grado di rilasciare il giudizio finale su Joe. Tutti i capitoli partono da osservazioni acute di oggetti, icone e particolari (perfino di macchie sul muro) rinvenibili nel suo appartamento. Von Trier sembra aver concepito tutto Nymph()maniac per far godere Seligman, eremita avido di sapere che desidera conoscere la storia di Joe al solo fine di interpretarla, smontarla e ricostruirla servendosi della propria cultura; esattamente come fa anche un pubblico cinematografico. Lo stesso pubblico che rimarrà spiazzato di fronte al colpo di scena ultimo del film, con cui si riporta tutto ad una dimensione da filmetto pornografico, da genere di "serie Z", quasi voglia essere un boccone da dare in pasto a quella fetta di spettatori gretti e chiacchieroni che non aspettavano altro di saziare i propri pregiudizi.
Un finale che, parlo onestamente, a me ha dato parecchia noia e non mi è proprio piaciuto.

giovedì 24 aprile 2014

[Recensione-Scontro] Gigolò per caso VS. Space Battleship Yamato


In breve. Gigolò per caso è una godibilissima commedia di (e con) John Turturro davvero ricca di pregi. Su tutti, quello di non voler essere un film à la Woody Allen, pur risultando quest'ultimo ancora perfettamente in grado di troneggiare su tutto un cast molto ben assortito. Sbellicanti le scenette con la famiglia di colore e le "investigazioni" della polizia di quartiere ebraica (grande Liev Schreiber nel ruolo del poliziotto), meno riuscite le performances di Fioravante (Turturro) con le clienti della dell'Upper East Side.
L'ho visto il pomeriggio di Pasqua e non avrei voluto essere altrove. Nettamente superiore alla media delle commedie che attualmente il cinema internazionale è in grado di offrirci.






VS.

Con un cocente ritardo di quattro anni, arriva anche in Italia grazie a Nexo Digital l'adattamento live action di Space Battleship Yamato, l'anime di Leiji Matsumoto. Lo stesso Matsumoto la cui opera abbiamo visto violentata e "adattata" all'animazione 3D odierna qualche mese fa in Capitan Harlock 3D. Lo stesso Matsumoto a cui qualcuno, nel mondo del Cinema, deve proprio volere male, visto pure il pessimo risultato di questa ennesima trasposizione. Non c'entra nulla il fatto che il film abbia "già" quattro anni: quattro anni fa la computer grafica andava benissimo. Basta recuperare diversa roba sci-fi uscita allora per rendersene conto. In compenso, verrebbe da chiedersi quanto sake avevano ingurgitato i mediocri interpreti che si succedono sullo schermo, o ancora a quale gara di cosplayer di quartiere si sia ispirato il costumista. Non conosco il cartone degli anni '70: perciò niente confronti. Rimanendo solo su Space Battleship Yamato, basterà la dicitura di "film orribile".
Ah, ha pure il coraggio di durare 131 minuti.


domenica 13 aprile 2014

[Recensione] Nymph()maniac Vol. 1

"L'osceno è la fine di ogni scena."
                                             J. Baudillard, Le strategie fatali

Una scritta bianca su sfondo nero ci informa che la versione di Nymph()maniac a cui stiamo per assistere è stata tagliata e montata dal produttore e che Lars Von Trier l'ha solo approvata, senza intervenire direttamente in sede di montaggio. 
Gli spettatori di quasi tutti i paesi in cui l'ultima fatica (mai termine è stato più appropriato) del regista danese è stata distribuita vedranno questa versione: vietata ai minori di 14 anni e suddivisa in due volumi, uno da due ore, l'altro da due ore e mezza. Il tutto mentre i nostri vicini francesi, al contrario, si godono la versione uncut, quella proibita, messa all'indice a causa dell'alto, altissimo contenuto di membri maschili. Anzi, di "cazzi", per dirla col vocabolario di Joe (C. Gainsbourg), la ninfomane protagonista del film che viene raccolta- piena di lividi e sangue -in un vicolo dal colto Seligman (il grande Stellan Skarsgard), unico personaggio disposto ad ascoltare una vicenda umana malata, ordinaria e sincera, scandita in cinque diversi capitoli che somigliano ad un romanzo di formazione o ad un percorso iniziatico, rituale. Come rituale è tutta la produzione di Von Trier, specie negli ultimi anni, dove il suo camuffamento "autoriale" condotto sul cinema di genere ha dato frutti molto diversi da loro: mi riferisco al brutto Antichrist (che però, come semplice horror, era eccezionale) e al fantastico e ancora incompreso Melancholia (ovvero una bella copia di Roland Emmerich che incontra Tarkovskij). Tuttavia, Nymph()maniac non sembra volersi legare troppo a queste opere che lo precedono: anche solo per il semplice fatto che, fermandosi al piano superficiale, non è un film di genere. Perciò tanto vale dirlo da subito: Nymph()maniac vol. 1 non è un film porno, nè un porno girato da un grande regista. Coloro che non riescono ad affrontare certe cose o decidono di sminuirle o addirittura di cancellarle sono i primi a cadere nella trappola del pregiudizio; il tutto per la somma gioia di Von Trier, pescecane nordico, anarchico destrorso, visionario che non si vergogna di filmare le interiora della razza umana. 
Siamo solo di passaggio: lo sa bene Von Trier e lo sanno bene i personaggi del suo film, che, pur nella sua moltitudine di membri in erezione, amplessi e orgasmi multipli, può essere ridotto al canovaccio nordico e bergmaniano della sonata a due voci, una che racconta, l'altra che ascolta. Non è il nostro mondo, quello di Nymph()maniac, bensì un qualcosa di ben più reale: nonostante ciò, la collocazione geografica è soltanto suggerita, il tempo è messo in un angolo, e il sesso- che nel nostro tempo è ovunque e in ogni forma, svilito a grezzo strumento di marketing -cessa di essere fasullo. Basta con le donne "gommate" che sembrano uscire dalla clinica di Fuga da Los Angeles: nulla sembra più vero della vagina di Stacy Martin, il cui personaggio ha capito perfettamente che cos'è il sesso e come sfruttare il potere conferitogli, così come sa benissimo come comportarsi nei confronti dell'essere maschile, spesso gretto e stolto. Ed è ancora una volta su quella linea di confine fra l'iperrealismo e l'onirico che Von Trier costruisce tutta la sua lectio, smontata e mutilata di mezz'ora per la gioia dei censori, ma comunque riuscita, grazie anche ad una schiera di attori tanto perfetti (la Thurman, su tutti) quanto impensabili in determinati ruoli.

giovedì 10 aprile 2014

Black Label Society, "Catacombs Of The Black Vatican" [Suggestioni uditive]

Black Label Society,
Catacombs Of The Black Vatican (BLS, 2014)
★★★★
















Un paio di giorni fa, Corriere.it dava la grande notizia che Emis Killa (rapper, produttore, conduttore radiofonico e ormai, almeno per gli sfortunati utenti Sky, anche conduttore televisivo) ha superato l'invidiabile cifra di un milione di amicizie su Facebook. Il redattore- forse imbottito di serotonina -descriveva in termini entusiastici l'ascesa di questo giovane rapper brianzolo e l'importanza di una simile figura nel campo della musica.
Ora, io ho la brutta abitudine a non fidarmi dei grandi numeri: se lo facessi, sarei costretto ad ammettere che nessun artista è migliore di Emis Killa, così come che nessun pubblico si intende meglio di musica come il pubblico dei fan di Emis Killa, un pubblico composto principalmente da ragazzi che popolano ridenti paeselli nordici vedendo nelle ronde di quartiere leghiste un'operazione antisommossa della SWAT e smaniosi di prendere la patente per andare a giro col macchinone del "papi" nelle periferie malfamate più vicine (dove poi verranno giustamente massacrati da personaggi che Emis Killa neanche sanno chi è). La verità è che abbiamo passato buona parte degli ultimi dieci anni bevendoci tutte le amenità passate dai media riguardanti la commistione tra alto e basso: mi dispiace, ma per me non si può passare da una settimana di Amici e posticipi ad un'esposizione sulla pittura fiamminga. Così come chi ascolta Emis Killa non potrà mai comprendere la bellezza di un disco come Catacombs Of The Black Vatican, nono album in studio dei Black Label Society. Gente che arriva dalla California e che suona un rock duro e genuino al 100% come nessuno. E come lo suonano loro, capitanati dal mostro sacro Zakk Wylde (che è una delle figure musicali più importanti giunte alla ribalta alla fine del XX secolo, e se non ci credete correte a sentirvi capolavori come il suo Books Of Shadows o l'esordio omonimo del suo primo progetto, i Pride&Joy), non lo suona quasi nessuno. 
In un mondo a cui ormai basta una suora siciliana 24enne che canta a squarciagola per lasciarsi abbindolare, la copertina del nono album in studio dei BLS forse potrà trasmettere un filo di inquietudine, ma è solo rock&roll: dietro le tinte scure di questa grande band, dietro titoli poco pacifici quali Fields Of Unforgiveness, Heart Of Darkness o Damn The Flood, si nascondono spesso insospettabili chitarre acustiche, aperture southern rock vecchia scuola, facenti parte del background musicale presente in tutti i dischi del gruppo dal 1998 ad oggi. E con loro è difficile parlare di album sperimentale e album tradizionale, di disco "più metal" e opera "più blues": come ha ricordato giorni fa anche lo stesso Zakk Wylde, Catacombs è <<uguale a tutti gli altri dischi dei Black Label Society>>. E' un male? Assolutamente no. Così come sono certo che questi undici brani convinceranno (già a partire dal singolo My Dying Time) anche più dei pezzi di Order Of The Black (2008). Il temuto cambio all'interno della formazione (lo storico chitarrista ritmico Nick Catanese è stato sostituito da Dario Lorina) non ha apportato alcuna modifica al suono della band, stragarantito anche dal ruolo di Wylde produttore e main director assoluto di tutto ciò che riguarda il disco. Ed è proprio lui a fare la "parte del leone" dalla prima all'ultima nota: che sia nel ruvido blues di Believe alle dolci note di Angels Of Mercy, Zakk ci conquista con la sua voce e le sue performance chitarristiche, sempre grandiose e ispirate. 
Pecche? Quali pecche? Se proprio vogliamo, si fa un po' sentire l'assenza di cover come tracce bonus (anche se la spensierata canzoncina anni '50 Shades Of Gray chiude con brio ed eleganza il disco), ma per il resto Catacombs Of The Black Vatican è solido e fresco come un fiore di montagna. E non dimentichiamoci che arriva a poco più di sei mesi di distanza dal capolavoro live Unblackened, un doppio set acustico registrato a Los Angeles nel 2013 che basta e avanza a ribadire l'importanza che rivestono- ora più che mai- i Black Label Society nel mondo della musica. Perciò, con grande semplicità, concludo scrivendo che Catacombs Of The Black Vatican è quanto di meglio possa offrire il rock al momento. Senza perdersi in fronzoli e cazzate.

[Recensione] Storia di una ladra di libri

C'era una volta una ladra di libri: la piccola Liesel (S. Nélisse). Liesel era una bambina bella e brava, ma molto sfortunata. Infatti, aveva i genitori brutti, cattivi e comunisti. E da veri comunisti, i genitori abbandonarono Liesel, che fu subito adottata da due bravi signori non-comunisti, Hans (G. Rush) e Rosa (E. Watson) Hubermann. Visto che era figlia di comunisti, Liesel era una bambina ignorante e analfabeta, ma, per fortuna, Hans le insegnò a leggere, facendola diventare un'appassionata lettrice. Ma un brutto giorno arrivarono i nazisti, che iniziarono a dare fuoco ai libri e a rompere le vetrine dei negozi dove i genitori adottivi di Liesel erano soliti recarsi per fare shopping. Poi scoppiò la guerra, e Hans e Rosa decisero di aiutare nuovamente una persona meno fortunata di loro, e presero in casa- di nascosto -Max (B. Schnetzer), un ragazzino ebreo, che sarebbe andato a salvare i libri dal rogo assieme a Liesel.
La storia della ladra di libri finisce qui, e mi risulta difficile perfino spiegarla da quanto è costruita male. Non so se il libro La bambina che salvava i libri (2005) dell'australiano Zusak fosse terrificante come questo film, ma nemmeno ci tengo troppo a scoprirlo. A parte il fatto che Geoffrey Rush con questo film affossa trent'anni di onorata carriera cinematografica e che la scelta di far commentare la storia- come voce off  - nientemeno che alla Morte, Storia di una ladra di libri è un film fallito su tutti i suoi piani narrativi e contenutistici. A livello di filmetto pedagogico sul nazismo spiegato ai bambini risulta inferiore sia a La vita è bella che a Il bambino dal pigiama a righe; come film storico, vorrebbe affrontare questioni non serie, serissime, ma non gli riesce perchè sceglie di giocare la carta della menzogna, ponendo lo spettatore un po' più preparato di fronte a vicende storiche che semplicemente non esistono. Infine, sul piano di film di intrattenimento per ragazzi, fa proprio pena: dialoghi irritanti pronunciati da personaggi talmente piatti da risultare lisci e che, dopo due ore dalla visione, non avranno lasciato alcuna memoria di se stessi. Ovviamente, dovremo stare alla larga per tutta la vita da questo Brian Percival, regista para-televisivo britannico coinvolto da subito in questo squallido progetto finanziato da una produzione tedesco-americana che, almeno per ora, si sta rivelando un meritatissimo flop: scrivo "meritatissimo" perchè Storia di una ladra di libri è un'autentica merda.

sabato 5 aprile 2014

Out Of The Blue (Into The Black) [Extra]

"Truants Move On... Cannot Stay Long
Some Die Just To Live... "

                     Pearl Jam, Immortality

Uno smile con la bocca serrata in un sorriso irregolare che lascia fuori un pezzetto di lingua e con due piccole "x" al posto degli occhi stampato su un felpone nero. Il cappuccio è obbligatorio: serve ad essere misteriosi, schivi, malinconici, scontrosi, arrabbiati. Le due taglie di troppo e un lavaggio non molto frequente accentuano il tutto.
Una felpa così puoi trascinarla in lungo e in largo per un campo di lavanda, puoi lasciarcela per un pomeriggio intero, ma sarà tutto inutile: continuerà ad emettere quell'odore di sigaretta rubata alla mamma e fumata di nascosto in un cesso di scuola. Una felpa così merita di assorbire gli schizzi di una lattina di birra scadente aperta con mano indecisa ma al contempo avida di spremere fino alla fine quel contenitore di inebriante nettare luppoloso. Una felpa così puoi prestarla ad amici provenienti da tutti gli strati sociali e anche all'Omino Bianco in persona, ma continuerà ad odorare di polline nei secoli dei secoli. E' una felpa dei Nirvana, e non ci si può far niente: la prima felpa dei Nirvana non si scorda mai.
Non ho problemi a raccontarlo, nè mi vergogno: il grunge è entrato nella mia vita sottoforma di un capo di abbigliamento (passato di moda già dieci anni fa, certo, ma pur sempre di abbigliamento si parla). Gli integralisti non approverebbero, ma i pochi integralisti rimasti abitano dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, in una città più grande e più brutta di quella dove vivo io. O al massimo abitano a Perugia, che è gemellata con questa città più grande e più brutta dove sono state inventate certe band, certe felpe e anche certe camicie da boscaiolo che oggi costano care e spesso compaiono subito dopo i due punti e la stramba parola anglosassone dress-code
Avevo delle compagne di scuola che, a quattordici anni, riempivano i propri pesanti diari di frasi estrapolate dalle canzoni delle band stampate su queste fepe. <<Tutta colpa del "male di vivere">>, dicevano. Poi ti accorgi che il "male di vivere" ti fa ascoltare buona musica, ti fa leggere dei bei libri, ti fa desiderare di scappare di casa, ti fa conoscere le persone a cui giuri di volere bene per sempre, e, se sei fortunato, ti fa anche innamorare. Forse tutto questo grande "male" alla fine non è. Tuttavia, è stato quel "male di vivere" a far sì che Kurt Cobain si sparasse in bocca venti anni fa. "Giovane, ricco e famoso", e ancora "suicida", la maledizione del "Club dei 27", "l'eroina", "la passione per le armi da fuoco" e altri "pretesti", altre etichette, altre cazzate. La verità è che non ho mai capito come una persona sposata (<<Married... Buried...>>) con Courtney Love potesse ammazzarsi. Ma l'avete vista Courtney Love? L'avete guardata bene? Avete mai ascoltato, ininterrottamente per giorni e giorni, un disco come Live Through This delle Hole? E avete mai osservato con attenzione le fotografie di Kurt e Courtney? A me ne capitò una sotto gli occhi verso i quindici anni: accompagnava un articolo celebrativo stupido e vuoto pubblicato su ZaiNet, una di queste riviste studentesche altrettanto stupide e vuote che regalano (o meglio, regalavano) a scuola per rendere più sopportabile l'adolescenza. Lui aveva i capelli tinti di rosso, lei gli stampava un bacio sulla guancia sinistra. Decretai che quando due persone si fanno una foto in quel modo devono essere destinate a passare il resto della loro vita insieme. L'ho rivista in edicola il mese scorso come copertina di Rolling Stone, quella foto: non pensavo, ma è riuscita ad emozionarmi ancora una volta. Lo stesso effetto continuano a farmelo il grunge, i Nirvana, Kurt Cobain e compagnia bella.
<<Uno sfigato incapace>> e <<Un debole>> erano due fra i tanti epiteti con cui i metallari d'annata definivano Kurt Cobain, mentre i rocker vecchi e navigati ridacchiavano e alla domanda <<Ma 'sti Nirvana, insomma, a parte che lui si drogava e si sparava, come sono?>> rispondevano <<Carini, sì, ma sopravvalutati...>>. I peggiori erano (e rimangono) i perbenisti, quelli che non ascoltavano la musica scritta dai drogati: può sembrare una descrizione retorica e sbrigativa, ma con "la gente che sta bene" andava veramente così, con i Nirvana che si drogavano e facevano drogare i tuoi coetanei, con gli Iron Maiden che pregavano il diavolo e facevano pregare il diavolo ai tuoi coetanei, eccetera. Comunque, superati certi ostacoli sociali, riuscii ad ascoltare seriamente la mia prima canzone dei Nirvana, e cioè Rape Me. Avvenne in un pomeriggio di sole, nella camera del mio migliore amico. Il compact contenente il brano rappresentava per lui una vera e propria sacra reliquia: si trattava di una ricca e variegata antologia compilata e masterizzata da una sua fiamma, bella e spregiudicata come poche altre ragazze su cui allora osavamo posare i nostri miopi sguardi. Mi raccontava di quando lei mandava Rape Me a tutto volume, facendo roteare testa e capelli e urlandogli addosso, quasi fosse una preghiera selvaggia e perversa, il ritornello della canzone. Per un pezzo di due minuti e mezzo suonato da una band che ormai da tempo aveva attirato le mie attenzioni era una presentazione più che sufficiente. E, in effetti, il brano rispettò le aspettative: ad oggi, rimane la canzone dei Nirvana che preferisco, uno sverginamento grunge indimenticabile.
Da questo meraviglioso primo appuntamento, ne deriva che In Utero continua ad essere il mio disco dei Nirvana preferito. Non me ne vogliano gli amanti di Nevermind, che è un capolavoro indiscutibile e di un'importanza storica impareggiabile, ma a livello soggettivo tendo ad essere affezionato maggiormente ad un disco che in un'ora e dieci mi presenta, fra le altre, Pennyroyal Tea, All Apologies, Heart-Shaped Box, Scentless Apprentic e la stessa Rape Me. E poi In Utero ha il merito di essere stato il disco preferito di Cobain, quello con cui i Nirvana hanno fuso totalmente il mainstream (il disco esce di nuovo per la Geffen ed è subito primo in classifica) con l'underground (alla produzione di Steve Albini e alla band fu lasciata praticamente carta bianca) e quello che il pubblico ha impiegato più tempo a metabolizzare e ad accettare. Le tenebre che ancora oggi avvolgono l'ascoltatore, sono le stesse emanate dal leggendario Unplugged, primo album uscito dopo la morte di Cobain e ulteriore grande opera del rock moderno. Dopodichè, è facile ritrovare il lascito di quel suicidio del 5 aprile di venti anni fa in molte altre cose. Ad esempio, penso ai Pearl Jam, che nell'inverno del 1994 salutano Cobain e "uccidono" il grunge con Vitalogy, il loro album più bello.
Penso ai R.E.M. di Monster (1995), alle chitarre nirvaniane che vi risuonano dall'inizio alla fine e all'esplicita dedica To Kurt And River (Phoenix) apposta prima del testo di Let Me In.
Penso a Neil Young, l'uomo che suonava e cantava grunge con venticinque anni di anticipo, che da allora non ha più suonato Hey Hey, My My dal vivo, a causa della strofa da essa estrapolata e trascritta nel biglietto lasciato da Cobain.
Penso ai Foo Fighters di Dave Grohl, alle loro prime canzoni, al fatto che mi piacciano ma anche a quanto mi fanno ridere coloro che parlano di "ideale proseguimento dei Nirvana". Sveglia, coglioni, non diciamo cazzate!
Penso alla maledizione del 5 aprile e a Seattle, che nel 2002 vede morire per overdose il grande Layne Stanley degli Alice In Chains, a loro volta tanto amati e ammirati da Cobain.
Penso alla pellicola Last Days di Gus Van Sant e al fumetto Nevermind di Tuono Pettinato, che hanno regalato al mondo un'idea di quel 5 aprile 1994 "diversa" ma in qualche modo straordinariamente più reale e umana rispetto a quella rigorosa, giornalistica e documentaristica riportata nelle innumerevoli agiografie scritte in questi vent'anni sui Nirvana, sempre più simili ad un verbale di polizia che non a volumi scritti da persone che vorrebbero celebrare una grande band.
Penso a determinati momenti della mia vita, ai giorni e alle notti, alle mattine e alle serate, alle ore passate in compagnia di certe canzoni, e onestamente non riesco a figurarmele senza quella colonna sonora di sottofondo. Il giorno in cui le penserò privandole della voce di Kurt Cobain, quello sarà un giorno triste e sbagliato.


"Out Of The Blue...
And Into The Black..."