giovedì 29 maggio 2014

Mayhem, "Esoteric Warfare" [Suggestioni uditive]

Mayhem,
Esoteric Warfare (Season Of Mist, 2014)
★★★½





















Nell'ultimo decennio, la retromania ha caratterizzato molteplici ambiti culturali e artistici, portando la gente a interessarsi quasi esclusivamente a fenomeni del passato e facendole tralasciare buona parte di ciò che viene prodotto ai nostri giorni. Per carità, ricordare è un bene; in certi casi, direi che è un dovere. I veri errori li commettono coloro che neanche si mettono sulle tracce di determinate novità. Una su tutte? Esoteric Warfare, quinto album in studio dei Mayhem, norvegesi che da trent'anni dettano legge se si parla di black metal: e ne hanno ben donde. 
Un qualcosa che ad esempio appartiene di diritto agli anni '90 (anche se le becere pagine Facebook su cui vengono condivise frasi del tipo "Sei degli anni '90 se... giocavi col Dolce Forno" non lo menzionano mai) è il loro album d'esordio De Mysteriis Dom Sathanas (1994), frutto di due anni di stretta collaborazione fra il cantautore Dead (morto suicida nel 1991) e il produttore e chitarrista Euronymous (che sarebbe morto nel 1993 per mano di Varg Vikernes, meglio conosciuto come Burzum). E' una storia di morte e di psiche malata, quella dei componenti della band. Una storia che i presunti "esperti dei decenni" preferiscono tagliare fuori quando si trovano a raccontare un passato fatto di benessere, leccalecca, televisioni commerciali e spiagge piene di ombrelloni. E nonostante gli omicidi, i processi, la galera, la concorrenza più o meno sleale, i cambi di formazione e i tentativi infiniti di boicottaggio da parte delle major e degli uffici di censura di molti paesi, i Mahyem ci sono ancora, e sono tornati per dirci che ora più che mai vale la pena seguirli.
Siamo nel 2014, e io preferisco ascoltare a nastro Watchers o il singolo VI. Sec. piuttosto che lasciarmi conquistare da altri fenomeni usa e getta di cui faccio fatica a ricordare perfino il nome (tranne uno, che si chiama Coldplay). Se si sono ascoltate almeno quattro, cinque band black metal, non si può rimanere freddi di fronte a brani quali Milab o Posthuman, sintomatici di un efficace ritorno dei Mayhem all'album in studio: un formato in cui i nostri non sembrano far confluire canzoni, preferendo incanalarvi lo spirito che muove il gruppo da trent'anni, seguendo una filosofia musicale nordico-nichilista che parla ancora di misantropia, satanismo, morte, occultismo, violenza. Le note tragiche scandite dalla batteria (prodigiosa) di Hellhammer, i vocalizzi di Attila Csihar, i passaggi terrificanti di chitarra, i sub-cori da setta oscura che costellavano i lavori precedenti del gruppo, vengono qui accumulati in maniera più organica (nessuna traccia fantasma, meno brani e di durata spesso più contenuta); ma non per questo l'ascoltatore sfuggirà al terrore, a quella paura che lo renderà incapace di riconoscere quale nicchia sonora scegliere come rifugio. Perchè non sono canzoni per tutti, quelle di Esoteric Warfare. Allo stesso modo, Attila Csihar non è un artista in grado di condividere i propri spazi con altri. Non scrive testi da persona abituata alla compagnia, e i suoi brani nascono da un'esperienza umana che non è frutto della frequentazione di oratori, collegi e colonie. Lui e i Mayhem non sanno cosa sia un campeggio, non hanno mai fatto un interrail o preso parte a cose simili. O almeno, io mi sono fatto questa idea di loro molto tempo fa: e questo nuovo album non fa altro che confermarmela. Il disco esce il 6 giugno, ma è già disponibile in streaming di altissima qualità sul sito Terrorizer.com. Buon ascolto

domenica 25 maggio 2014

[Recensione] X-Men- Giorni di un futuro passato

Da piccolo odiavo l'Uomo Ragno esattamente quanto amavo gli X-Men. La serie animata Insuperabili X-Men (in Italia andava in onda sulle reti Mediaset) era per me un qualcosa in più rispetto ai cartoni di azione di cui mi ero nutrito fino a quel momento: più raffinata dei Biker Mice, più "adulta" delle Tartarughe Ninja, più accurata dei Cinque Samurai, era per me una vera e propria fonte di ispirazione. Non saprei calcolare quanti Wolverine ho disegnato a partire dal 1995 in poi, così come conservo ancora alcuni ritratti di Ciclope, Gambit e Tempesta. Molto importante, inoltre, il fatto che memorizzassi non solo i movimenti o le espressioni dei personaggi, ma anche i colori. E forse proprio per il grande peso che davo al colore, rimasi deluso da X-Men (2000) di Synger, dove i mutanti erano ridotti ad un branco di palestrati immersi in costumacci scuri e non in quelle meravigliose tute dalle tinte accese per cui tanto ero ammattito- pastelli e pennarelli alla mano -fino a pochi anni prima. 
In realtà, nel crescere, ho ampiamente rivalutato il primo film della saga, che poi è con ogni probabilità il primo vero cinefumetto pensato come tale. Il target di età a cui il film di super-eroi doveva rivolgersi si alzò incredibilmente con X-Men, così come il budget e l'impiego degli effetti speciali, lievitati rispetto alle pellicole girate negli anni '90 spesso con esiti deplorevoli (vi basti pensare ai due Batman di Joel Schumacher). Anche migliore fu il risultato ottenuto tre anni dopo con X-Men 2, sempre diretto da Synger, che per quel che riguarda l'Autore al servizio del blockbuster fumettistico ha anticipato di diversi anni il ben più blasonato Nolan. Dopodichè, per quanto riguarda l'universo dei mutanti, il grande vuoto. Sequel orrendi (X-Men- Conflitto finale) e spin-off imbarazzanti (da X-Men- Le origini: Wolverine fino al più recente Wolverine- L'immortale) hanno rimpinguato le casse delle major, ma di certo non hanno arrecato lustro alla saga: perciò, chi meglio di Brian Synger per dirigere il settimo film della saga? E quale soggetto migliore di Giorni di un futuro passato (1981), il capolavoro di Claremont e Byrne, per portare avanti questo tentativo di rinascita?Il risultato è un onesto, tiepido film coi mutanti, nettamente migliore delle ultime realizzazioni sugli X-Men ma allo stesso tempo lontano dallo spirito della storia da cui è tratto. Scrivo questo perchè il viaggio nel tempo (per il quale pare sia stato interpellato James Cameron) dovrebbe essere il punto di forza del film, ma di "forte" ha ben poco: Wolverine (Jackman) si stende su un tavolo e Kitty Pride (Page) lo rimanda indietro nel tempo fino al 1973 toccandogli le tempie. Tutto qua. Quicksilver (Evan Peters) è una new-entry gradevole e una delle poche sorprese di tutto il film. Le sentinelle sono fatte malissimo, specie nelle scene ambientate nel passato. Il giovane Xavier (McAvoy) funziona bene. Fassbender è talmente bravo che saprebbe recitare al meglio perfino le istruzioni di un frigorifero. Le scene del futuro distopico sono tanto scure, troppo scure: ci si capisce poco. Irrinunciabile la comparsata di Jean Grey, che passerà alla storia come la più grande rompicoglioni cinematografica di tutti i tempi. Il 1973 messo in scena da Synger puzza veramente tanto di falso. A confronto, gli anni '40 del primo Captain America erano un documentario d'epoca diretto da Michael Curtiz. Peter Dinklage (meglio noto come Tyrion Lannister del Trono di spade) nel ruolo di Trask fornisce un ottimo esempio su come avere un potenziale, spettacoloso cattivo in un film e sfruttarne le doti solo al 10%.
La scena nascosta (preludio ad un sequel previsto per il 2016) è indefinibile, e serve a confermarmi una cosa e una soltanto: la mia idea di cinema è un'altra.



sabato 24 maggio 2014

[Recensione] Maps To The Stars

Dispiace pensare che David Cronenberg, 71enne canadese, sia ormai un regista anziano di cui vedremo ancora poche pellicole (sempre ammesso che non faccia come De Oliveira, che a 105 anni continua a sfornare un film all'anno). Il rammarico aumenta dal momento in cui corro a vedere il suo nuovo Maps To The Stars, che mi cattura dalle prime due inquadrature e mi conquista nell'arco dei venti minuti iniziali. Per l'ennesima volta (la ventunesima, per l'esattezza), mi rendo conto che Cronenberg è uno dei pochi geni del cinema ancora pienamente attivo, ancora intento a realizzare film per le masse che disgustino le masse, ancora fieramente attaccato alla propria idea di arte.
Come il precedente capolavoro Cosmopolis, Maps To The Stars risulta uno dei film meno commerciali (o meglio, commerciabili) del nostro tempo: Cronenberg lo sa benissimo, ma non se ne cura, e gira la storia di una famiglia di psicotici di successo, gli Weiss. Benjie (Bird) è un 13enne tossicomane e star televisiva, mamma Christina (Williams) tenta di stare dietro al figlio e conta le decine di milioni di dollari che questi guadagna, mentre papà Stafford (Cusak) è un terapista che scrive libri, ha un programma new-age in tv e riceve, nella propria lussuosa villa sulle Hills, le più prestigiose stelle di Hollywood. Ma c'è anche una figlia, Agatha (Wasikowska), uscita di fresco da un manicomio sulla East Coast e apparentemente smaniosa di lavorare, come assistente personale, per qualche personaggio famoso: la assume Havana Segrand (Moore), star in totale declino psicofisico che rincorre il sogno di ottenere la parte (che nell'originale fu della madre) nel remake di un vecchio melodramma. In realtà, gli interessi di Agatha nel tornare a Los Angeles sono ben altri, e non tarderanno a manifestarsi.
Opera stupenda e quasi mai perfetta, Maps To The Stars dimostra che il suo autore è sempre alla ricerca di qualcosa, qualcosa che riguarda il concetto di mutazione: nel film nessuno è ciò che sembrava essere all'inizio. Il fuoco (elemento chiave di tutta la storia) e la carne, specie se insieme, sono belli, e le ferite interiori ed esteriori di Agatha hanno bisogno dell'intera durata del film per svelarsi compiutamente. Ad Hollywood, in casa Weiss, sui set, nelle ville e nei giardini, nei negozi di moda e nelle piscine dei vip, nessuno è un eroe. Le logiche di questo tipo di cinema sono quelle a cui siamo meno abituati, e non dobbiamo stupirci o provare vergogna se non ci ritroviamo a fare il tifo per nessuno. Il personaggio con cui può risultare piacevole identificarsi è una figura del tutto assente: per un'ora e mezza si susseguono, sullo schermo, pseudo-esseri umani antipatici, stronzi, annoiati, cinici, bastardi e psicopatici. Nessuno di loro svetta sugli altri, e per nessuno di essi il regista sembra dimostrare antipatia o simpatia. La società hollywoodiana (messa in scena non tanto casualmente da un canadese) si rivela disfunzionale, devastata da un passaggio troppo rapido dall'edonismo dell'era Schwarzenegger al liberismo chic degli anni '10 (in casa Weiss si bevono analcolici, si fumano sigarette elettroniche, si mangia tanta verdura, si definisce il Dalai Lama <<una persona squisita che andrebbe frequentata più spesso>>). E questa indagine sociologica è solo uno dei molti argomenti affrontati dal film, quello forse più evidente e di più facile lettura. Perchè Maps To The Stars è un horror dell'anima che parla di mille cose, pone tante domande (ad esempio, <<può l'incesto essere ereditario?>>) le cui risposte sono spesso relative. 
Con quella inquadratura finale a volo d'uccello, Cronenberg scatta consapevolmente un'altra fotografia del mondo di oggi: il vuoto esistenziale viene colmato solo da sesso malato, droge legalizzate e violenza. Il successo portato all'eccesso conduce al piacere, che portato all'eccesso conduce al vuoto. 
Un film che di nuovo prende tutto ciò che è caro a Cronenberg: la psicoanalisi, il sadismo, la violenza, l'erotismo, il melò, la critica alla superficialità del capitalismo e quella del cambiamento del genere umano. Non capire che un autore parla di noi, rifiutare di comprendere che ogni espressione grottesca in Maps To The Stars è più reale della realtà stessa, significa non essere in grado di riconoscere uno dei cinque, dieci più grandi registi viventi. E chiedersi come si faccia a 71 anni a rinnovarsi e a girare ancora film di questo livello sarebbe come chiedere a Michelangelo come faceva a dipingere in quel modo? Uno ci riesce e basta. Se poi i critici sono miopi e il pubblico demente, pazienza. Ne riparleremo tra una ventina d'anni.

venerdì 23 maggio 2014

[Recensione] Godzilla


Di sicuro mi sbaglio, ma guardando un film di Ishiro Honda, Jun Fukuda, Yoshimitsu Banno, Koji Hashimoto, Kazuki Omori, Takao Okawara, Kensho Yamashita, Masaaki Tezuka, Shusuke Kaneko e Ryuhei Kitamura li invidio perché hanno potuto ideare, scrivere e girare il Godzilla che volevano. Non dovevano preoccuparsi di compiacere Orgoglionerd.it o l'Arcicosplayers per essere accettati come "autori". Non dovevano giustificarsi da accuse assurde da parte di studenti di cinema con il tarlo socio-grafico che li accusavano di retromania (perché mentre Emmerich già sfruttava una CGI perfetta e sopraffina, loro continuavano a preferire spesso e volentieri gli animatronics). Non dovevano girare con la maschera cupa di chi, a 14 anni, raccoglieva e catalogava tutti gli articoli culturali del Times e oggi è considerato santità nei circoli fumettofilo-letterari da terrazza. Non erano costretti a subire una deleteria schizofrenia in cui da un parte guadagni un pacco di soldi facendo l'Autore al Sundance e dall'altra rilasci interviste vibranti sdegno contro Hollywood e per fortuna poi basterà un Oscar (preferibilmente tecnico) per renderti più mansueto. 
Magari i 29 film canonici della saga di Godzilla avranno avuto altri problemi e difetti, però non erano di quelli che invischiano il cinema di intrattenimento occidentale contemporaneo, e ciò basta per farmeli ancora invidiare, specie ora che ho visto il film di Edwards. Che poi un film non è: è un videogioco che trovi imballato dentro le merendine, è un sottofondo da far passare nelle aree di attesa ai gate aeroportuali (preferibilmente senza volume), è una storia profondamente stupida e vuota (nonostante pretenda di parlare di ecologia, ambiente, sociologia, ecc.) che nessun bambino, oggi come fra dieci anni, avrà voglia di veder raccontata. 
Il Godzilla di Edwards è campione di incassi- visto che una produzione Legendary Pictures, per legge, non può non esserlo -, ma lo è oggi. Domani se ne parlerà poco e male, esattamente come del suo predecessore del 1998 firmato Roland Emmerich. Non basta un cast leggermente superiore e l'invenzione dei M.o.t.u. (i due kaiju preistorici che si scontrano col lucertolone) a salvare un soggetto mortalmente, micidialmente brutto. E mentre a Gareth Edwards viene spolverato il trono d'oro del prossimo Comic-Con, sarebbe bene sottolineare che questo registino britannico, in due ore di soffocanti bestialità tridimensionali, non è stato in grado di esprimere un solo concetto originale.

martedì 20 maggio 2014

Plaid, "Reachy Prints" [Suggestioni uditive]

Plaid,
Reachy Prints (Warp Records, 2014)

★★★★
















Che caldo, improvvisamente. 
E pensare che nei due giorni precedenti le ore serali sembravano appartenere di più ad un tardo ottobre che non al maggio allegro e spensierato decantato dai poeti lirici e non. E poi quel cielo grigio, così british e, al contempo, così lontano da quell'Inghilterra dove noi italiani ci riversiamo ormai in massa. La stessa Inghilterra in cui è ambientato Reachy Prints, nuova opera in studio dei Plaid. Ora che ci penso, la Warp Records non poteva scegliere momento, giorno e stagione migliori per lanciare questo loro decimo album.
Certi dischi sono una trappola. Me ne sono accorto stamani, quando di buon'ora ho acceso il portatile e ho aperto iTunes Store, evitando la visione delle immagini king size di Deborah Iurato (finalista di Amici 2014), costretta a cantare per vivere e della quale è uscito or ora il primo album. 
<<Solo un ascolto...>>, mi sono detto. E invece l'orecchio mi è stato catturato da una opening track del calibro di Oh. Non resistendo al richiamo delle esclamazioni, ho proceduto immediatamente all'ascolto integrale di tutti e nove i brani. 
La discografia dei Plaid (duo formatosi nel 1991 ad opera dagli ex-Black Dog Ed Handley e Andy Turner) è un alternarsi di piccole opere destinate ai piatti delle piste techno (l'ingiustamente dimenticato Spokes) e capolavori di avanguardia glitch e IDM (come dimenticare Not For Threes ?), ma un fattore accomuna tutta la loro esperienza artistica: la volontà di creare suoni atonali puri,  spremibili fino a farne derivare un succo musicale in grado di riversarsi sia nei lettori digitali degli ascoltatori warpizzati che nelle console dei club underground. 
Eppure basta leggere una qualsiasi lista di musicisti glitch per convincersi che sussistono nomi ben più noti e personalità notevolmente più forti di quelle del duo britannico autore di questo Reachy Prints. Musica minimalista, quella dei Plaid del 2014, evidentemente stanchi di esperimenti visuali (Greedy Baby), di concerti electro-sinfonici e di colonne sonore inascoltate e destinate a film inosservati. Dopo l'apertura, ancora tre grandi pezzi metropolitani (il singolo di lancio Hawkmoth, Nafovanny e Slam), mentre con il quinto brano, Wallet,  si inizia a raggiungere il limite della città e a sentire odore di notturne periferie da esplorare (Matin Lunaire) o di località balneari un tempo ridenti e oggi affogate nel loro stesso cemento  (Tether). 
Il modo in cui i Plaid ci accompagnano verso la fine dell'album va oltre la meraviglia. Ropen è una scintilla di genio: un disco graffiato che fa risuonare una serie di samples dissonanti che accennano una melodia ma solo per pochi secondi, giusto il tempo di accorgerci che si tratta di musica creata con qualche vecchio, "sdrucito" software per PC. E infine ecco la versione definitiva della già ampiamente  presentata dal vivo Liverpool St. (il pezzo girava, sotto forma di bootleg, con differenti mix già da due anni): si va dalle  ispirazioni orientali dell'operetta cinese agli esperimenti sinfonici occidentali. Un divano sonoro che poggia su un tappeto poco vistoso ma saldamente ancorato alla manifattura del Detroit Sound (immaginate i BPM destinabili ad un pezzo simile). Ma l’impressione che il disco comunica non è quella del melting pot multietnico e perennemente raeggato à la Nightmares On Wax, nè va circoscritto esclusivamente all'ambito glitch e/o drone rigoroso e scolastico degli Autechre (sempre per restare in casa Warp). E anche per questo Reachy Prints risulta perfettamente armonizzato e lontano da ogni cosa recentemente prodotta dalla coppia Handley&Turner (Scintilli era solo un preambolo poco convincente al suono che troviamo qua dentro). Viene quasi da pensare che questi due abbiano voluto rubare tutta la musica del mondo per risuonarla secondo la propria curiosità e con la propria abilità. Riuscendo oltretutto meglio di molti.

sabato 17 maggio 2014

[Recensione] Grand Budapest Hotel

Il film è ben fatto.
Ogni inquadratura vive di vita propria.
Wes Anderson è uno dei più formidabili "tecnici" che il cinema abbia mai avuto.
Senza ombra di dubbio, è uno dei più grandi registi del nostro tempo.
La sceneggiatura fila via che è una bellezza.
Questo nuovo Grand Budapest Hotel, almeno ai miei occhi, va a fare compagnia al Treno per il Darjeeling, per quanto possa risultare superiore sia nell'uso della scenografia che nella scelta degli attori. Sparo i nomi completamente a caso correndo il rischio di lasciare fuori qualcuno: Ralph Fiennes, Willem Defoe, Harvey Keitel, Owen Wilson, Bill Murray, Jeff Goldblum, Adrian Brody, Edward Norton, F. Murray Abraham, Tilda Swinton, Jude Law, Léa Seydoux e Tony Revolori (l'indiano co-protagonista).
Vale la pena aggiungere che anche chi non ha mai letto manco un rigo di Stefan Zweig potrà apprezzare l'utopica ambientazione dell'opera.
Così come vale la pena sottolineare che se si conosce il cinema tedesco degli anni '20 e '30 (argomento che mi dicono ormai snobbato e superato da quei facoltosi studenti DAMS che proprio in questi giorni si disperano e scrivono male di Wes Anderson e del suo nuovo film), Grand Budapest Hotel si rivelerà una vera e propria caccia all'omaggio.
Ma veniamo al dunque: a Grand Budapest Hotel (che se ne guarda bene dall'essere un film brutto o malriuscito) manca qualcosa.
Cosa?

A mio avviso e in ordine sparso:

La coralità (perfetta e mai dispersiva) de Le avventure acquatiche di Steve Zissou
Una scena di ballo con bacio come quella di Moonrise Kingdom 

Margot Tenenbaum de I Tenenbaum




martedì 13 maggio 2014

[Recensione] La sedia della felicità

Carlo Mazzacurati se ne è andato il 22 gennaio, nella sua Padova. Ho avuto il piacere di conoscerlo, Mazzacurati: insieme a Roger Corman è l'unico regista famoso a cui ho stretto la mano. L'occasione si presentò nell'inverno del 2007, quando al Politeama di Poggibonsi presentarono La giusta distanza, uno dei suoi film più tragici e belli. Nel piccolo buffet che seguì la proiezione ebbi modo di presentarmi e, non sapendo mai cosa dire in questi momenti, mi limitai ad un <<Maestro, complimenti davvero... e grazie per Il toro!>>. Sorrise e tornò al suo piattino di crostini. Un paio di anni dopo, era di nuovo da queste parti per girare La passione. Alcuni compaesani finirono anche fra le comparse, e forse anche per questo motivo il film ebbe un buon successo, almeno nelle mie zone: corremmo a vederlo, ma a me piacque meno di altri. L'ho un po' rivalutato di recente, riguardandolo al suo primo passaggio in televisione, senza sapere che di lì a pochi mesi sarei andato a vedere l'ultimo film di Mazzacurati, perlopiù uscito postumo.
Di ritorno nella sua terra d'origine, quella che più di altre ha fatto grande il suo cinema, il regista padovano abbraccia di nuovo la provincia veneta (il film è ambientato nella desolata periferia di Jesolo), dove la carcerata malavitosa Norma Pecche (Katia Ricciarelli) muore confessando a Bruna (Ragonese), la ragazza che viene a farle le unghie in carcere, che in una sedia a forma di elefante ha nascosto un tesoro. La caccia ha inizio: la giovane estetista sogna di poter pagare i propri debiti, e coinvolge il proprio "vicino di attività" (i due lavorano in un desolante centro commerciale del luogo), il tatuatore svampito e in via di divorzio Dino (Mastandrea). Sulle tracce della sedia della felicità troviamo anche Padre Weiner (Battiston), l'avido parroco del carcere indebitato fino al collo a causa del vizio del videopoker. Le ricerche faranno incontrare ai tre i personaggi più incredibili (gemelli giocatori di ping pong, maghi che si esibiscono a convention di gelatai, eccentriche medium, pescivendoli che collezionano sedie, orsi, cinghiali, montanari dalle ambizioni pittoriche, ristoratori cinesi), nel corso di un'avventura divertente e caustica (come tutte le commedie di Mazzacurati) che dalla Laguna risale su fino alle Dolomiti.
Più che a leggere un "testamento", sembra di trovarsi al cospetto di un riuscito compendio professionale e umano di un autore sempre adombrato da colleghi considerati meno "provinciali"; vediamo scorrere di fronte ai nostri occhi i suoi attori più iconici (Albanese, Orlando, Bentivoglio, Ricciarelli, Vukotic, Balasso, Cremona, Marzocca, Citran, ecc.), tutti eccezionali, tutti perfetti nei loro ruoli, ognuno dei quali protagonista di una microstoria ulteriore. Il nordest di Mazzacurati finisce quasi col somigliare ad un Twin Peaks nostrano (la suora nana basta e avanza a ricordarcelo), popolato di quella umanità variegata e tenera, amara e anche un po' assurda. Il finale si tinge dei toni della fiaba popolare (l'orso e il prete che giocano a carte), l'immagine della Ragonese a cavallo del ciuco appartiene maggiormente ad un'iconografia da processione rionale che non ai grandi affreschi delle cattedrali cittadine. Dipingendo questo microcosmo che ha ormai dovuto rinunciare al proprio status di isola del benessere, Mazzacurati gira fondamentalmente una commedia sul destino, o meglio ancora sulla fortuna: la messa è finita, il prete gioca d'azzardo, le pensionate grattano molto e vincono poco, e anche per gli eterni Peter Pan è giunta l'ora di pagare le tasse. Il senso di incertezza cresce e le ambizioni calano, ma non per questo la felicità viene meno. Come succedeva già ne La lingua del santo, i personaggi di Mazzacurati somigliano alla sua idea di cinema: sono piccoli losers dal cuore grande, protagonisti stellari di una commedia italiana di alto livello, che non ha mai avuto bisogno di finire con una pizzata in compagnia a base di Birra Moretti o di fare pubblicità agli ultimi modelli automobilistici maggiormente di moda. Un film che nella sua rinuncia al "culo di fuori" manifesta una superiorità indiscutibile.

lunedì 12 maggio 2014

[Recensione] The Amazing Spider-Man 2- Il potere di Electro

Come nasce l'idea di Amazing Spider-Man
Molto semplice: i bambini nati nel 2002 (anno in cui uscì lo Spider-Man di Raimi) non hanno fatto in tempo a vedere la "vecchia" triade, e così è bene metterne in cantiere un'altra, magari più fresca, giovanile e spensierata. A dirigerla, si chiama Marc Webb, che ha fatto (500) giorni insieme, una commedia romantica politicamente corretta e piacevole. A interpretare i protagonisti troviamo Andrew Garfield ed Emma Stone, che sembrano più giovani della loro reale età, potrebbero essere appena usciti da uno spot di American Apparel e quando si danno i bacini rendono un sacco. Si impacchetta il tutto e lo si lancia sul mercato come un prodotto destinato alla fascia kids, che da quando c'è a giro Nolan soffre un po' di deficit di accudimento da parte delle case di produzione. Se poi qualche 20/30/40enne avrà voglia di elevarlo ad un capolavoro di maggior spessore cinematografico e contenutstico, meglio. 
Puntuale come un orologio, è arrivato anche il secondo episodio (non scrivo "capitolo" o "parte", perchè "episodio" è un termine che meglio si confa al mondo delle serie tv a cui l'Amazing Spider-Man 2 ammicca), dove Peter ha un solo grande problema: smistare l'amore per Gwen, la smania di proteggere i deboli da bulli e delinquenti e il dovere di salvare il mondo da cattivi che non tardano a manifestarsi. E sebbene per uno strano insieme di fattori (spesso anche negativi) questo Potere di Electro mi sia piaciuto leggermente di più del suo predecessore, di fronte al personaggio Uomo Ragno, rimango della mia stessa idea: Peter Parker può salvare quanta gente vuole col suo bel costume e le sue ragnatele, ma è e rimarrà sempre lo scemo del villaggio. Per rendersene meglio conto, basta immaginarselo mentre passa davanti ad un comune bar sport di provincia conciato in quel modo: gli avventori iniziano a ridere oggi e forse smettono all'uscita del prossimo film. Il fatto che poi in questo nuovo universo Amazing Peter Parker sia uno studente fascinoso che si ingela i capelli e indossa felpe costose rende solo meno sopportabile e più antipatico il protagonista. E di solito, quando il Buono si tollera poco, tutte le nostre speranze vengono riposte nel Cattivo: in questo caso, Electro, interpretato da un irriconoscibile Jamie Foxx. Ovviamente, se lo paragoniamo al recente Lizard di Rhys Ifans (il memorabile coinquilino gallese di Hugh Grant in Notting Hill), questo villain risulterà indubbiamente più gradito, ma peccato che fra computer grafica, 3D e altre rifiniture "supermegaipertecnologiche" rimanga ben poco del buon Jamie. Da lodare anche le performances di Paul Giamatti e Dane DeHaan (del quale non perdo mai occasione di parlare bene), oltre ai discreti miglioramenti tecnici della regia di Webb: infatti, quando questa è libera dalla CGI (cioè sette minuti sui 142 totali), notiamo come alcuni atroci espedienti dello scorso episodio siano venuti meno. Insomma, se vi aspettate di nuovo quelle orribili soggettive dell'Uomo Ragno che corre sui tetti col passo di un cocker, resterete delusi. 
La coppia Garfield-Stone litiga un po' di più (per fortuna) ed è totalmente al servizio di uno script firmato Kurtzman, Orci & Pinker (i tre geniacci che hanno firmato quella perla di sceneggiatura che è Into Darkness), evidentemente convinti di dover scrivere una love-story con dialoghi indegni perfino dei link con i gattini che a volte infestano le nostre pagine Facebook. Andrew Garfield è un attore talmente mediocre, piatto e inespressivo da risultare incredibilmente adatto ad un film piegato alla volontà degli studios disneyani dalla prima all'ultima scena.