giovedì 26 giugno 2014

Led Zeppelin, "The First Three Album Newly Remastered" Vs. Kasabian, "48:13" Vs. Jack White, "Lazaretto" Vs. Ben Harper, "Childhood Home" Vs. Mastodon, "Once More 'Round The Sun" [Suggestioni uditive]

Led Zeppelin,
The First Three Album Newly Remastered (Atlantic Records, 2014, 6 Cd)
★★★




Stanno facendo notizia questi Led Zeppelin che sono ripiombati in cima alle cassifiche di mezzo mondo con una reissue di lusso dei primi loro primi tre dischi. Balza subito agli occhi che per raggiungere (nuovamente) questo invidiabile primato, gli Zep siano stati costretti a ricorrere a tutto quello a cui, negli anni sessanta, avevano detto di no. In prima istanza, la pubblicazione, o meglio ancora ripubblicazione dei singoli: Good Times, Bad Times e Comunication Breakdown (Live At The Olympia, Paris 1969) estratti dal primo album, Whole Lotta Love (Rough Mix) dal secondo e The Immigrant Song (Alternative Mix) dal terzo. A seguire, un martellante passaggio per radio di tutti i singoli sopra elencati. Per carità, fa altro che piacere sintonizzarsi su radio scadenti come 102.5 e sentire l'inconfondibile riff con cui Jimmy Page apre Led Zeppelin II, ma si sta parlando dei Led Zeppelin, divinità della musica che conosco benissimo e che non hanno bisogno di presentazioni e di passaggi radiofonici annunciati da disc jokey cafoni e arroganti e che si guadagnano da vivere urlando banalità in un microfono.
Qualche buon extra mai sentito neanche nei diversi bootleg usciti finora c'è, e l'ottimo lavoro di remissaggio si fa sentire. Mi correggo: si fa sentire se si ha un discreto Hi-fi o delle ottime casse collegate al computer in cui far risuonare questa cascata di capolavori. Spendere bei soldini per una reissue di questa fattura e fruirne tramite cassine di qualità scadente o cuffiette da cellulare deve risultare piuttosto avvilente.
Imperdonabile l'assenza del IV, specie se si pensa ai motivi legali che trovate meglio esplicati qua.
Tirando le somme: per chi è questa magica triade? Per i fan e per i giovani che si avvicinano ai Led Zeppelin e decidono di farlo "in grande". A me, che amo gli Zeppelin da sempre e vanto una bella collezione dei loro album, non ha tolto nulla, nè tantomeno aggiunto niente. E questo ultimo punto forse è il vero problema.
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Kasabian,
48:13 (Sony Music, 2014)
½












E' una mattina di agosto del 2009, e sono a Londra, dentro il gigantesco HMV al 150 di Oxford Street. Alla prima posizione ci sono i Kasabian con West Ryder Pauper Lunatic Asylum. Da noi non sono molto conosciuti, ma Underdog sta circolando abbastanza bene in radio, e MTV ne manda spesso il video. Io li ascolto da un anno: un'amica mi ha prestato i loro due primi dischi, e soprattutto il secondo, Empire, mi piace da morire. Ci sento dentro le radici di una tradizione tutta britannica che risale su fino ai Beatles buttata in un calderone elettronico e miscelata alla chitarra di questo Sergio Pizzorno. Lo stesso Pizzorno che pensa, scrive e produce tutto ciò che i Kasabian fanno. Oltretutto, gli Oasis hanno portato i Kasabian in tour con loro nel 2006. E io degli Oasis mi sono sempre fidato.
Un paio di anni dopo quel capolavoro di West Ryder, ritrovo i Kasabian a fare un grande casino con Velociraptor!. Il disco è un successo immediato, anche in Italia, dove i giornali si riempiono di articoli lunghissimi che dicono tutti la stessa cosa: <<Sergio Pizzorno è di origini genovesi>>. Fra echi morriconiani, ispirazioni techno e ballatone à la Burt Bacharach, il disco si lascia ascoltare ma è un bel passo indietro rispetto a quanto fatto in precedenza.
Ed eccoci qua con questo 48:13, un album che è uscito da due settimane ed è già fonte di discordia. Per alcuni è orribile, per altri è l'opera in cui è possibile udire "i veri Kasabian". Per chi scrive, si tratta di un mediocre alternative rock che si ripete per tredici brani di una noia mortale. Lo ammetto: arrivare in fondo è stata una gran fatica. E non vale neanche la pena soffermarsi troppo sui come e sui perchè. 
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Jack White,
Lazaretto (XL Recordings/ Columbia Records, 2014)
★★½









Per tanti è un genio. Per altri è un grande furbacchione a cui non riesce manco suonare.
La verità, manco a dirlo, sta nel mezzo: Jack White è un ottimo musicista (70° dei 100 chitarristi migliore di sempre secondo Rolling Stone), un bravo compositore di canzoni, un cantante non eccelso ma dal timbro facilmente riconoscibile, un uomo che ha avuto solamente la sfortuna di nascere nell'epoca (1975) e nel luogo (Detroit) sbagliati. Fosse stato per lui, la sua casa sarebbe stata nel profondo Sud, possibilmente in quel periodo dove non era difficile imbattersi nel Diavolo fermo agli incroci delle strade. Con Meg White negli White Stripes ha regalato al mondo una musica nuova e al contempo estremamente tradizionale: cult come Elephant (2003) e Icky Thump (2007) non sono frutti della capacità di chiunque. L'ombra del blues si staglia anche sui due bellissimi dischi dei Racounters e sui due meno compresi e più cupi album dei Dead Weather, la band sorta nel 2009 dove Jack suona la batteria e canta.
Tanti progetti, è vero. Jack White è questo. Mai fermo, instancabile sul piano dei concerti e grande lavoratore in studio. Nell'arco di una settimana è in grado di comparire in un film, di tenere un concerto con uno dei suoi tanti gruppi "aperti" e di produrre un nuovo disco in studio come Lazaretto. Come abbia fatto a trovare il tempo utile a comporre e incidere questa manciata di nuovi brani negli ultimi due anni (tale è la distanza temporale che lo separa dall'esordio solista di Blunderbuss) è un mistero. Fatto sta che Lazaretto è uscito senza troppi clamori da noi, anticipato da un singolo omonimo piuttosto povero di idee. E nonostante una Three Women al vetriolo messa in apertura, questo Lazaretto non gode per nulla della qualità dei migliori lavori firmati dal chitarrista. La critica specializzata lo applaude, e magari anche a ragione. Però qua mancano molte cose.
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Ben & Ellen Harper,
Childhood Home (Prestige Folklore, 2014)
★★★½









Torniamo al punto di partenza. Il calcio di inizio. La casa di Ben Harper a Claremont. La guardo mentre ascolto A House Is A Home, brano tratto dall'album Childhood Home, fresco di stampa. Penso al bosco che sorge vicino a dove abito, me lo immagino all'inizio dell'autunno, con le foglie che volano fino ai giardini dei palazzi. Una madre spiega al figlio che i tempi andati sono lontani, gli racconta di come è stato crescerlo e lui la raggiunge  nel canto, per intonare che il futuro si avvicina. Mezz'ora di musica, dieci brani folk cantati in un giardino (vedere il bellissimo videoclip di Learn It All Again Tomorrow per avere un'idea dell'essenza del disco) da Ben e sua madre Ellen, che oltre ad essere la donna più importante della sua vita- come ogni mamma -è stata la principale artefice dell'avvicinamento dell'autore di Diamonds On The Inside alla musica. Ellen Harper, infatti, viene sempre ricordata come la proprietaria del Folk Music Center, un famoso negozio di strumenti dentro cui il piccolo Ben è cresciuto. Adesso, grazie al figlio, viene fuori che ha anche una bella voce, che potrebbe ricordare i momenti più "intimi" di un grande duo quale Delaney&Bonnie.
Ben Harper è uno dei più grandi artigiani della musica americana del nostro tempo, eppure nessuno sembra mai dargli il peso che meriterebbe. Ci limitiamo a sentire i suoi pezzi più famosi alla radio e dire <<Ah, già... questo è Ben Harper... c'è anche lui...>>, quando dovremmo tutti ascoltare più attentamente i suoi concerti dal vivo, le cover che sceglie via via, gli artisti con cui collabora (Get Up!, uscito lo scorso anno e suonato con Charlie Musselwhite, è una perla passata quasi inosservata), i progetti di musica che porta avanti. Forse solo allora potremo capire la bellezza nascosta e appannata dietro quelle che ad un primo ascolto potrebbero sembrare dieci piccole ninne-nanne.
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Mastodon,
Once More 'Round The Sun (Reprise Records, 2014)
★★★★★









Signore e signori, ecco qua il classico (e sempre più raro) esempio di "signor disco". A darlo alle stampe sono stati i Mastodon, band sludge-metal originaria di Atlanta composta da quattro musicisti serissimi che dal 2000 ad oggi hanno davvero prodotto delle ottime cose.
Abbandonata l'aggressività estrema degli esordi (penso a Leviathan, che è stato il disco con cui li ho scoperti), i nostri non sono propriamente diventati dei leggerini, ma si sono concentrati maggiormente sul concept-album e sul progressive metal come genere in cui muoversi. Il risultato? Sono migliorati e non di poco. Che sia passando per la produzione praticamente hard-rock di Brendan O'Brien (Crack The World) o per quella più recente di Mike Elizondo (The Hunter), i Mastodon si sono affermati come uno dei gruppi migliori del nostro tempo. E con il nuovissimo Once More 'Round The Sun non solo si riconfermano davvero i portatori dello scettro di un progressive metal molto personale, veloce e "scarno", ma pubblicano quello che onestament trovo essere il loro capolavoro.
Come in The Hunter, le canzoni difficilmente superano i quattro, cinque minuti di durata (nel progressive siamo abituati a veder passare tranquillamente i venti minuti di lunghezza), ma sono tutte talmente belle, decise e prodotte bene che è praticamente impossibile dire quale preferire o no. Certo, Chimes At Midnight è da antologia, così come High Road o la più lunga Asleep In The Deep. Chiusura epocale (che vede la collaborazione di Scott Kelly, amico del gruppo e leader dei Neurosis) con Diamond In The Witch House. Un disco da ascoltare e amare per capire come si può ancora comporre e suonare grande musica. Strepitoso.

giovedì 12 giugno 2014

Intervista alla vecchia redazione [Sguardi]

PREMESSA

L'intervista che pubblico di seguito è uscita da pochi giorni sul secondo numero dell'anno scolastico 2013/2014 del Volta Pagina, il giornale d'istituto del Liceo A. Volta di Colle di Val d'Elsa, dove ho fatto le superiori. Perciò, se siete di queste parti e volete leggerne la versione "fisica" su una bella carta e in grande formato, vi basterà gravitare dalle parti del liceo e domandare se è possibile acquistare una copia. Il costo del giornale, o meglio della rivista (viste le attuali dimensioni) è di 2,50 €. 
Colgo l'occasione per ringraziare nuovamente Viola, senza la quale l'intervista non esisterebbe, e tutta la nuova redazione (a cui faccio anche un grande "in bocca al lupo" per il prossimo anno). E poi ringrazio Martina, vecchia amica e letterata, una di quelle che sanno davvero scrivere bene ma che il destino (o la lungimiranza) finisce col relegare a studi scientifici. Passare buona parte di un pomeriggio a rispondere alle domande di Viola e a raccontare storie ormai vecchie e apparentemente lontane dall'interesse comune è stato piacevole e per certi versi commovente, ma è servito anche a confermare un pensiero che avevo da tempo: compagni di classe lo si è per tutta la vita.

V- Che tipo da Liceo eri?


F- Al ginnasio ero lo studente medio: imbranato su più fronti, due amici, unto nei capelli e vestito male, studiavo, facevo i compiti anche dopocena e mi concedevo poche stravaganze scolastiche e la classica uscita al sabato sera. Poi, ad inizio del terzo anno, ho capito che purtroppo quando si muore, si muore, e allora la vita ha assunto un significato diverso. Ho scoperto che c'erano altre cose oltre allo studio, e la polvere ha iniziato ad accumularsi sui libri. Comunque, ce l'ho sempre fatta con il classico “stretto indispensabile”, studiando solo ciò che mi piaceva e rifiutando tutto il resto. Se dunque sentirete parlare dello studente che vive nel suo mondo e che “se-si-impegnasse-renderebbe-molto-di-più”, ecco, quello sono io. Lo ero allora e lo sono adesso.


M- Fisicamente: cicciottella, con una capigliatura importante, qualche foruncolo e sopracciglia sempre un po’ troppo folte (una qualsiasi sedicenne!) Caratterialmente: appassionata. Di letteratura (italiana, greca, latina), di scienze, di politica…Spesso eccessivamente polemica, ero la prima a cominciare a parlare durante le interminabili discussioni che nascevano tra i banchi, e quella che voleva sempre avere l’ultima parola, a costo di litigare con amici e compagni di classe. Ero intransigente: il mondo si divideva in buoni e cattivi, le cose erano bianche o nere. Niente grigi, niente vie di mezzo. Ho un po’ di nostalgia di quella vecchia me, perché poi cresci e le prospettive cambiano.


V- Cosa ti ha spinto ad entrare nella redazione?


F- Lasciando fuori l'amicizia che mi legava ad alcuni elementi della redazione e anche una certa voglia di piacere (pervade tutti noi, specie a quindici anni), la scelta di entrare nella redazione del Volta Pagina alla fine del 2004- quando frequentavo la V ginnasio -è da addurre principalmente alla mia smania di concrettizare alcune idee riguardanti un fumetto chiamato Talpwoman. Alla fine, era un soggetto che parlava di studenti, in particolare di studenti che si impegnano al massimo più per fare un piacere alle famiglie che a se stessi. La protagonista era una ragazza-talpa adolescente che decideva di lasciarsi tutto alle spalle, uccideva il padre e fuggiva col fidanzato. Proposi l'idea all'allora direttore Pietro Peli, che mi dette carta bianca su ciò che era una novità assoluta: una serie a fumetti per il giornale d'istituto. Il primo episodio uscì nell'aprile del 2005, piacque, e sul numero di giugno uscì il secondo. Il capitolo finale l'ho pubblicato sul mio blog solo un paio di anni fa.


M- Il mio sogno, fino ai 17 anni, è stato fare la giornalista. L’avevo deciso leggendo i libri della Fallaci e anche quelli di Lilli Gruber. In attesa di diventare volto di punta del TG1 o cronista di guerra, cominciare dal Volta Pagina mi sembrava una buona idea!


V- Il vostro Volta Pagina era diverso da quello che pubblichiamo oggi?


F- Indubbiamente. Era un prodotto di quattordici, quindici pagine in formato A4 stampate in bianco e nero fronteretro. Ad anno, uscivano mediamente tre numeri. Veniva ciclostilato con una tiratura di 500, 600 copie a numero in una piccola stanza adiacente alla segreteria (tale compito spettava al leggendario bibliotecario del Liceo, il signor Lo Giudice), unito a colpi di spillatrice dai redattori e distribuito gratuitamente nelle classi. Tuttavia, il numero 3 dell'anno scolastico 2005/2006, quando ero direttore, fu il primo ad essere stampato in tipografia: inizialmente ci proposero l'uso del colore, la carta lucida e altri parametri nuovi e moderni, ma preferii lasciare invariati formato e dimensioni, così che gli studenti non sarebbero stati costretti a pagarlo.


M- Decisamente. Erano pochi fogli, ciclostilati in qualche centinaio di copie, spillati a mano e totalmente in bianco e nero. Il vostro Volta Pagina è decisamente più professionale! Però era il (magro) risultato dei nostri innumerevoli sforzi (contro le copisterie, il Fato, il ciclostile sempre rotto, le scarse risorse…) e ai nostri occhi era bellissimo.


V- Il ricordo più bello e la soddisfazione più grande legata alla redazione.


F- Ricordi belli ne ho tanti. Il migliore in assoluto è un segreto inconfessabile che rimarrà chiuso fra le quattro mura dell'aula del giornalino, ma uno dei momenti davvero memorabili fu la festa “clandestina” a base di panettone, Coca-Cola, Vov e spumante, organizzata sempre là dentro. Saremmo stati una quindicina di persone. Era il 22 dicembre del 2005, ultimo giorno di scuola prima dell'inizio delle vacanze di Natale, nelle classi si svolgevano regolarmente le lezioni, e noi organizzavamo una festa nell'aula del Volta Pagina! Anche le soddisfazioni non sono state poche: fui il primo direttore minorenne in dieci anni di giornale d'istituto, e sotto la mia direzione (ma non di certo solo per merito mio) uscirono quattro numeri e uno speciale sulle elezioni studentesche. Allora, sfruttai questo record come pretesto per montarmi la testa, auto-proclamandomi “rockstar del Liceo” e cogliendo ogni occasione utile ad accrescere in maniera smodata il mio già ingombrante ego.   


M- Il ricordo più bello le riunioni pomeridiane, più o meno dense di contenuti ma sempre molto esilaranti. La soddisfazione più bella è quella essere riusciti, nonostante fossimo davvero pochi elementi, a raccogliere l’eredità dei nostri predecessori e ad aggiungere un pezzettino di vita in più al Volta Pagina.

 V- L'articolo più memorabile di sempre che hai creato.
F- Dal 2004 al 2007 ho disegnato tre serie a fumetti diverse e scritto molti articoli, quasi tutti riguardanti musica e cinema. Quello a cui sono più affezionato rimane la mia recensione di La casa del diavolo, un film horror di Rob Zombie. Era uscito a maggio ed era circolato pochissimo nei cinema delle nostre zone; a scuola già stavamo lavorando al numero 4 del Volta Pagina, previsto per giugno. Per me, si trattava di un numero importantissimo: l'ultimo dell'anno scolastico e anche l'ultimo con me direttore. Tuttavia, avevo amato talmente tanto quel film da volerne inserire, anche se all'ultimo, una mia recensione. Negli anni, è rimasto un film da cultori, un capolavoro dell'horror che però non ha mai sbancato ai botteghini: ma mi ha fatto comunque piacere riparlare con persone (due e forse non di più) che tuttora lo amano e che all'epoca lo rincorsero per mezza provincia proprio dopo aver letto il mio articolo.
M- I sette-ottocento articoli TUTTI uguali sulla disputa riguado la fantomatica “Moschea a Colle” che un nostro articolista ci propinava tutti i mesi. Non si parla male degli assenti, lo so, ma non so davvero come mai non abbiamo smesso di pubblicarglieli! Oltre a questo, L’Oroscopo di Thelma e Louise!
V- Cosa ti manca di più del Volta?
F- Ci sono delle mattine in cui vorrei solo avere accanto, anche solo per un'ora, i miei storici compagni di banco per raccontare loro un fatto curioso, qualcosa che mi è accaduto, magari anche una delle tante banalità del vivere quotidiano. Ma so di non poterlo fare. O meglio, so di non poterlo più fare come allora. Devo prendere il telefono, scrivere su Facebook o collegarmi via webcam, ed è tutto molto diverso. Perciò, al di sopra di tutto, mi mancano certe persone, e alcune di loro mi mancano proprio per ciò che erano una volta. E poi- come credo a tutti -mancano determinati momenti, mi mancano il mio sottobanco, il termosifone spento di inverno e acceso d'estate, il sapore del caffè scadente, le interminabili pause sigaretta fatte con le persone giuste, i baci furtivi nei corridoi, e molte altre cose che solo la mia proverbiale buona memoria è riuscita a mantenere intatte. Per me possono avere un peso che per altri non avranno mai: ma del resto “il passato è solo una storia che raccontiamo a noi stessi”.
M- Il piccolo microcosmo che era il Liceo, con le sue regole, scritte e non scritte. I compagni di classe: i colleghi universitari, con cui vivi un’ esperienza altrettanto importante della vita, non sono la stessa cosa. E le piccole cose: il “Buongiorno!” squillante del prof. Zanieri, l’altrettanto squillante “Buongiorno!” di Paolino, la corsa al panino, il caffè e le Rodeo della macchinetta, i tornei di calcetto e pallavolo, il tema in classe, le elezioni di istituto, le acquate dell’ultimo giorno di scuola…
V- Top 5 dei professori.
F- Zanieri. Ingrosso. Biotti. Nadorini. Santini
M- No via non ci riesco. Prof. Zanieri, che è stato come una mamma chioccia con i suoi pulcini al ginnasi. Al liceo tutti, perché proprio tutti, oltre alla loro preparazione indiscussa, erano appassionati della materia che insegnavano, e questa passione ha davvero fatto la differenza. Ok basta sviolinate. Dovendo stilare una classifica, in cui prof Zanieri è super partes: 1- Ingrosso, 2- Biotti, 3- Santini e Rustioni a pari merito. Ma, come diceva il buon vecchio Biotti, “la matematica è una prigione in un quadretto”, quindi niente numeri, la classifica mi è stata imposta!!!!
V- In che modo ti ha segnato l'esperienza del Volta Pagina.
F- L'esperienza del Volta Pagina mi ha segnato e su più fronti: in primis, sul piano personale. È stata utile a ribadirmi che, come qualunque altra bella esperienza della vita, prima o poi, si chiude. E poi c'è il lascito più importante, e cioè quello professionale. Tuttora, da sceneggiatore di fumetti, allego sempre al curriculum un piccolo portfolio, con idee e soggetti sviluppati negli ultimi sette, otto anni. Ovviamente, non manco mai di inserire un po' di materiale originariamente pensato per il Volta Pagina. Diversa roba non è mai stata pubblicata, ma, sai come si dice, “non è mai troppo tardi”.
M- L’esperienza al Volta Pagina mi ha insegnato che non è facile coordinare un gruppo di persone anche se l’intento è comune, mi ha insegnato ad affrontare e gestire i piccoli problemi che sorgevano (che per noi erano Somme Sciagure perché un ciclostile rotto a giornalino pronto è praticamente un cataclisma!) e mi ha segnato perché mi ha fatto sentire ancora più partecipe dell’esperienza scolastica che ho vissuto. Quello che faccio oggi è totalmente diverso e il giornalismo c’entra ben poco, magari quando sarò un medico scriverò su “Le Scotte Informa”!!!!!
V- Un consiglio per la redazione?
F- Qualunque scelta facciate e qualunque cosa possa accadervi nella vita, tenete sempre a mente le due cose che Kant fece incidere sulla sua tomba: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.
M- Continuate così e non lasciate morire il glorioso Volta Pagina!
V- Un messaggio per un destinatario misterioso?
F- Stay Rock!
M- Non mi riesce strappalacrime (son già stata fin troppo maliconica rievocando questi anni!), saluterò :
- Alessandro (grande appassionato di pallavolo come me!),
- Paolino (e i suoi strilli delle otto di mattina!)
- il Prof Ingrosso (e lo farò ricordandogli una delle sue massime che mi è rimasta nel cuore “Ho risalito la penisola per sprofondare nell’Abisso” [l’abisso eravamo noi!]),
- Lo Zanieri (e qui non basterebbero dieci pagine!),
- Il Rustioni (E la scissura di Bip mentre studiavamo l’encefalo)
- La prof Migliorini (ricordandole che siamo stati l’unica classe a portarle il VERO Gianfranco Ravasi a lezione!)
- e il Prof. Santini (come dimenticare le sue lezioni su Kant?” )
Infine, ringrazio Viola, per la pazienza e la dedizione!
 

 

 
 


domenica 1 giugno 2014

[Recensione] Edge Of Tomorrow

Doug Liman è un perfetto esempio di regista scostante. Se da un lato, infatti, ha dimostrato di avere "fatto bene i compiti" con lievi commedie tipo Go o con il fortunato spy-movie The Bourne Identity, dall'altra non ha rinunciato a venirsene fuori con film quali Jumper o Mr. e Mrs. Smith, opere delle quali dovrebbe solo vergognarsi. Si può affermare che, fino ad oggi, era stato solo un registino che portava a casa qualche buona idea: ma con Edge Of Tomorrow, tratto da una graphic novel nipponica avente titolo All You Need Is Kill, Liman ha fatto il grande salto verso quella schiera di grandi artigiani del cinema di intrattenimento di qualità.
Partendo dal presupposto che a me la fantascienza bellica piace assai e sotto qualunque forma (cinema, letteratura, fumetti e, finchè ci ho giocato, videogiochi), un trailer come quello di Edge Of Tomorrow ha rappresentato da subito molto di più di una semplice curiosità: è stato una capsula in cui comprimere e riporre le speranze per un bel film di fantascienza da vedere in questo 2014, dopo un 2013 risultato molto fecondo in fatto di sci-fi. E oltre ad essere andato oltre le mie aspettative, Edge Of Tomorrow è riuscito ad essere molto di più di un comune film di fantascienza bellica. Una certa retorica, spesso ritenuta un ingrediente essenziale e irrinunciabile, qui sparisce praticamente del tutto, e le poche volte in cui affiora non è mai à la Rambo 2. I grossi difetti di molti personaggi di contorno sono totalmente azzerati da una sceneggiatura lucente e fantastica (ma di Christopher McQuarrie avevo parlato bene già ad inizio 2013 con Jack Reacher, e si conferma uno scrittore come in giro ce ne sono pochi) e da un cast che, a parte Cruise (che negli ultimi anni è sempre più convincente nei panni di personaggi un po' più duri del solito) e la Blunt, non annovera star di primo ordine o attoroni del momento. A parte qualche rimando di troppo a Pacific Rim (specie nel finale), il film gioca benissimo anche tutte le sue carti citazioniste: Liman ha visto tante volte Full Metal Jacket, ma non ha bisogno di rendersi ridicolo plagiando Kubrick per rendere omaggio a questo capolavoro. Ma anche le citazioni a Salvate il soldato Ryan e a Starship Troopers (un capolavoro che il mondo conosce pochissimo) non mancano. I mimics e le armature dei militari divengono personaggi, entità facenti parte la scenografia del film e non dei semplici effetti speciali appiccicati sulla pellicola. Per quanto veloci e sfuggenti, questi mostri pseudo-robotici fanno totalmente parte dell'immagine, dell'inquadratura. E anche dal momento in cui il personaggio di Cruise (un personaggio che, da principio, non è che si conquisti molto la benevolenza del pubblico, e anche questo è sintomo di una certa originalità narrativa) inizia a "ripetere" e a maneggiare il tempo (qui sta la vera genialità della trama, ciò che rende Edge Of Tomorrow l'ennesimo film di fantascienza di cui fra dieci anni neanche ci ricorderemo), Liman non ricorre mai ad un abuso di stereoscopia e CGI: si ricerca, al contrario, una certa semplicità, rifuggendo il casino roboante di tanti cinefumetti di serie C che affollano i nostri cinema 365 giorni all'anno. La messinscena europea è meticolosa senza risultare esagerata, il ritmo talmente superbo da meravigliare. 
Globalmente, somiglia molto di più ad un film di guerra fantascientifico, che non ad una pellicola di fantascienza bellica: ma non è assolutamente un difetto. Anzi, è un film anche coraggioso e che non cerca di piacere a tutti i costi. Se fosse stato altrimenti, avrebbe reso spettacolare anche ciò che non necessità di alcuna spettacolarità, come fanno quasi tutti i blockbuster cialtroni dei nostri tempi. La grande differenza fra il film di Liman e questi ultimi? Edge Of Tomorrow è un film diretto da un uomo di cinema e non da un banchiere qualsiasi la cui unica e sola preoccupazione è battere cassa a fine giornata e volare nell'atollo più vicino.