venerdì 24 ottobre 2014

Guardiani della galassia [Recensione]

Il cinema di genere è un cinema di regole. Chi non lo ama soffre i codici cui un determinato genere può fare riferimento. Prendiamo i cinefumetti, o cinecomics che dir si voglia: quante volte avrete sentito qualche detrattore esclamare <<Li odio! E non sopporto certi cliché... e poi preferisco altri generi>>. Discorsi pigri pronunciati da gente pigra. Pigra e pronta a scadere nel paradossale: di fatti, fra il migliore cinefumetto e il migliore western o il migliore horror, non intercorrono differenze. A prescindere dall'epoca in cui possono essere stati realizzati, appartengono entrambi alla stessa, identica tipologia di film, e cioè quella nata da una negoziazione fra produttori, spettatori e discorsi sociali assortiti. E visto che le pellicole di genere esistono praticamente da quando esiste il cinema, sono sempre state e saranno sempre costrette all'instabilità, sospese fra luoghi comuni irrinunciabili e capacità di trasformazione, fra rassicuranti ripetizioni e innovazioni contenutistiche e formali: mirabile e completo esempio di tutto ciò (e di molto altro ancora) risulta essere Guardiani della galassia di James Gunn, decima pellicola del Marvel Cinematic Universe, in sala dal 22 ottobre.
Tagliare i ponti con le metodologie legate alla stragrande maggioranza dei cinefumetti può essere l'unica salvezza per pellicole di questo genere: se ne accorse, già due anni e mezzo fa, il signor Joss Whedon, "punta di diamante" dei cineasti legati alla Casa delle Idee e autore di The Avengers. Accostare all'epica la demenza e alle lacrime le risate, mostrare dei cattivi un po' più coglioni del solito (possible che sian tutti dei geni del male?), prendersi un po' meno sul serio (come ripeto perennemente, sempre di calzamaglie si tratta!), rammentarsi che questi film devono rivolgersi primariamente ad un pubblico di giovani, sono tutte scelte che hanno portato la Marvel ad ottenere la formula del cinecomic perfetto (senza offesa per il bravissimo Christopher Nolan): e oggi, grazie ai Guardiani della galassia, si può dire che quella formula abbia dato finalmente il suo frutto migliore. James Gunn, 44enne indipendente famoso principalmente per Tromeo And Juliet (ma, se avete modo, recuperate anche il più recente Super), è la persona a cui vanno quasi tutti i meriti: semplicemente, perchè questo film incanta. Incanta per come riesce a combinare gli elementi del classico film Marvel ad un'essenza innovativa, fresca, colorata e rivoluzionaria. Il quintetto protagonista si impone come il migliore gruppo super-eroistico di cui si possa conservare memoria: neanche i Vendicatori di Whedon, nel loro essere una squadra di primedonne interpretate da superstar del grande schermo, sono riusciti a raggiungere un livello di simpatia totale come i Guardiani. Bravissimi Chris Pratt e Zoe Saldana nei panni di Peter Quill e Gamora, anche se i veri inchini vanno al genio che ha regalato a Vin Diesel il ruolo della sua vita (cioè un albero che per tutto il film dice quattro parole) e ad un istrionico e inaspettato Bautista. Inoltre, Rocket Racoon potrebbe essere il primo procione digitale (doppiato da Bradley Cooper nell'originale) a meritare un Oscar come miglior attore non protagonista. Menzioni speciali anche per la colonna sonora (fra le tante, sono presenti hits di Bowie, Blue Suede, Jackson 5, Marvin Gaye, ma, soprattutto, la grandiosa Fooled Around And Feel In Love di Elvin Bishop), la fotografia di Ben Davis (aiutata da un 3D fluidissimo e di grande impatto) e l'inossidabile sceneggiatura di Gunn e Nicole Perlman.
Opera pop sfrenata e barocca, portatrice di un bagaglio di memorie cinematografiche che va da Star Trek fino a Footloose, Guardiani della galassia ha tutte le carte in regola per ingraziarsi almeno tre generazioni di spettatori: dai bimbi cresciuti a "pane&supereroi" fino ai genitori patiti di Guerre Stellari, passando pure per i nonni, memori di quella science fiction televisiva e cinematografica delle origini. Si ride, ci si esalta, si evade. Superfluo aggiungere che trovare un difetto a un film simile è un'impresa titanica. 

mercoledì 22 ottobre 2014

U2, "Songs Of Innocence" [Suggestioni uditive]

U2,
Songs Of Innocence (Island Records, 2014)


















Non è la prima volta che un disco viene pubblicato prima in versione digitale e poi in quella fisica: potremmo pescare a piene mani esempi più o meno autorevoli nei tredici anni di vendite dell'iTunes Store. Non è neanche la prima volta che una band di alto profilo realizza un disco notevolmente inferiore alle proprie capacità artistiche e ai propri standard qualitativi. Tuttavia, Songs Of Innocence degli U2 sta passando alla storia per estremizzare entrambi i punti esposti sopra: di fatto, ci troviamo di fronte ad un'operazione di marketing (altamente discutibile) che prevede che una multinazionale regali un disco a mezzo miliardo di persone. "Regali" per modo di dire, dal momento in cui Songs Of Innocence trova spazio nella memoria dei nuovi iPhone 6 (prezzi a partire da 749€) e iPhone 6 Plus (prezzi a partire da 839€) e solo acquistando uno di questi due oggettini si può avere l'ultima fatica di Bono & co. gratuitamente. Il giochino <<Io la musica intanto te la regalo, se poi non ti piace, pazienza, la cestinerai...>> è sintomatico del fatto che il consumatore non può più decidere se comprare o no un determinato prodotto; inoltre, meccanismi di questo genere sviliscono non poco tutto quello che ruota attorno ad un album musicale. 
Vengo al secondo punto. Sarà un caso, ma Songs Of Innocence è il disco peggiore della carriera ultratrentennale degli U2. Va bene che tutto quello che una band può realizzare dopo un capolavoro di importanza capitale come Achtung Baby (1991) non sarà più in grado di reggere il confronto, ma qui vengono prese le distanze anche da produzioni recenti discrete e comunque dignitose (mi riferisco sia a How To Dismantle An Atomic Bomb che a No Line On The Horizon). La produzione di Dangermouse potrebbe addirsi bene a Britney Spears ma di certo non arreca lustro particolare alla band irlandese, i riff di The Edge sono la brutta copia dei brutti riff di The Edge, la voce di Bono sembra davvero arrivare da un computer (Apple, ovviamente). Dell'innocenza a cui allude il titolo non si percepisce neanche l'alone. Però intendiamoci: come sub-specie di suoneria pre-impostata su un famoso smartphone questa musica noiosa, piatta e banale potrebbe anche andar bene. 

martedì 21 ottobre 2014

Un milione di modi per morire nel west [Recensione]

In televisione, Seth MacFarlane ridicolizza da quindici anni tic, manie e tratti tipici del proprio paese e dei suoi abitanti. Ci riesce come ci riuscivano Groening e soci ai tempi dei migliori Simpson e del Futurama che fu, e cioè al meglio delle capacità comiche e artistiche. Il suo approdo al cinema godette di un successo tanto ampio quanto il numero delle critiche negative che gli vennero mosse sia dal pubblico che dalla critica internazionale: tuttavia, Ted è ancora nella mente e nel cuore di chi ama I Griffin, American Dad e The Cleveland Show, e si è saputo imporre come una delle migliori commedie degli ultimi anni, spudorata, irriverente ma anche incredibilmente originale e lontana dai gusti massificati di un pubblico incafonito e abituato alle gesta di scemenze quali Jersey Shore e programmi analoghi.
In Un milione di modi per morire nel west, uscito il 9 ottobre nel Belpaese, MacFarlane alza il tiro, vestendo lui stesso i panni del protagonista Albert Stark, pastorello di ovini e scemo del villaggio nell'Arizona del 1882. Personaggio imbranato e dotato di scarsa sopportazione nei confronti della vita rude e rischiosa della frontiera, Albert viene abbandonato dall'acida e arrivista Louise (A. Seyfried) perchè povero sia sul piano del coraggio che su quello economico. Dovrà riscattarsi, sfidando a duello il di lei nuovo fidanzato, ovvero il viscido e baffuto Foy (N.P. Harris), ma si ritroverà implicato in qualcosa di più grande di lui: aiutato dall'amico Edward (un grande Giovanni Ribisi) e dalla bella Anna (C. Theron), dovrà infatti fare i conti col leggendario e spietato pistolero Clynch (un imbarazzante Liam Neeson).
La parodia western è tutt'altro che una novità (è un genere che ha, approssimativamente, cento anni), ma sono i toni con cui MacFarlane la affronta a fare la differenza: gag perlopiù azzeccate, anacronismi spassosi, esperimenti metacinematografici e camei riuscitissimi (cito il Cristopher Lloyd che veste, per la quarta volta, i panni di Doc Brown, ma non voglio rovinare sorprese a nessuno sulla seconda comparsata). Come se non più che in Ted, la trama è una fiaba rivisitata, col personaggio inetto e incapace di crescere (nel caso di Albert, non pronto a vincere le proprie paure) che viene aiutato da comprimari simpatici e amichevoli. La figura del disadattato che non è in grado di vivere in pace la propria epoca storica richiama molteplici personaggi cari alla commedia e ai film comici: su tutti, penso al primo Woody Allen, quello di Amore e guerra o di Bananas. E se l'eccessiva trivialità non sempre nuoce a questo genere di film, troppe scuregge e troppi attacchi di cacarella vengono inseriti, in questo caso, al solo scopo di supplire alle vacuità di una trama leggera e, a tratti, perfino imbarazzante. In altre parole, il film poteva durare venti minuti meno e totalizzare un numero di gran lunga inferiore di inesorabili cadute di stile. Ma per carità: si ride di gusto, e la distesa finale di pecore che vanno disperdendosi a perdita d'occhio nella Monument Valley vi renderà impossibile addormentarvi.

lunedì 20 ottobre 2014

Slipknot, "Vol. 5: The Gray Chapter" [Suggestioni uditive]

Slipknot,
Vol. 5: The Gray Chapter
(Roadrunner Records, 2014)

★★★½
















I metallari legati a generi ortodossi li hanno accusati di essere una manica di clowns, mentre i nu-metallari abbonati alle fanzine di band quali Linkin Park, Incubus e Limpbizkit li hanno sempre considerati uno squadrone di criminali rallevato lontano dalle spiagge californiane e dalle raffinate città della East Coast onnipresenti nei video dei loro idoli: mi riferisco agli Slipknot, una delle più grandi band del mondo, che piaccia o no.
Cinque album in studio in diciannove anni di attività, una pioggia di dischi oro e platino, tour mondiali incendiari e milionari, gravi perdite (il bassista Paul Gray, morto per overdose di farmaci nel 2010) e altrettanto gravi defezioni (il formidabile batterista Joey Jordison ha lasciato il gruppo a fine 2013). In tanti hanno finto di accorgersene, ma gli Slipknot hanno rappresentato l'unico fenomeno metal in grado di conquistare intere nazioni, in termini di vendite e popolarità, come non succedeva dai tempi dei migliori Metallica: del resto, le cifre parlano chiaro, e anche la bravura. Infatti, non capita tutti i giorni di avere a che fare con una band come quella capitanata da Corey Taylor, quarantenne che la musica la conosce, la sa scrivere e la sa cantare. E ascoltando Vol. 5: The Gray Chapter il divario fra gli Slipknot e l'ennesima band post-nu-metal-post-tutto salta inevitabilmente all'orecchio.
Le prime voci su del nuovo materiale del gruppo dell'Iowa risalgono addirittura al 2010, ma vengono smentite in seguito alla morte di Paul Gray. Di un ipotetico (e doppio) Vol. 5 si inizia a parlare nel 2012, ma sarà il greatest hits Antennas To Hell l'unico evento discografico di cui saranno protagonisti gli Slipknot quell'anno. L'abbandono del gruppo da parte di Jordison lo scorso dicembre ha rappresentato per Taylor l'occasione per poter affermare che la band era in studio per la realizzazione di un nuovo disco.
La forza di un'opera come Vol. 5 risiede nel nascere proprio dai tormenti: testi più criptici che in passato, costellati da suoni oscuri e spesso mutevoli, portano a quattordici brani suonati in un contorno di ansie e conflitti interiori ed esteriori. Dalla formazione a nove del precedente capolavoro incompreso All Hope Is Gone (2008), gli Slipknot si ritrovano in sette, con Taylor a scatenare, con maestria impareggiabile, una spettacolare reazione chimica fra le atmosfere grezze di Iowa (2001) e i ritmi rallentati di Vol. 3: The Subliminal Verses (2003). Grandi complici, in questa orgia in cui si mescolano trash, death e grindcore, sono i session-musicians Jey Weinberg (batterista eccellente, figlio di quel Max Weinberg della E-Street Band) e Alessandro Venturella (bassista inglese, ex-tecnico della chitarra per i Mastodon) e il "gran direttore di sala" Greg Fidelman, produttore cresciuto nella scuola di Rick Rubin. Anche l'elettronica, come si sente già nella proemiale XIX (forse la migliore traccia di apertura nella carriera del gruppo), gioca un ruolo fondamentale: un membro come il tastierista Craig Jones non ha mai goduto dello spazio di primo piano che gli spetta in una chicca quale Killpop, nella introspettiva Goodbye e, soprattutto, nella conclusiva, terrificante If Rain Is What You Want. E se i "tamburi lontani" di Sarcastrophe conquistano già al primo ascolto, sono i pezzi creati ad hoc per la vecchia guardia a lasciare qualche perplessità: sia Skeptic che Lech sono canzoni veloci, sempliciotte e ancorate ad un passato sanguinario e violento, ma qui di Iowa non c'è neanche un barlume di smalto. Tutt'altro discorso spetta per la pesante Custer, in cui il vecchio stile (ancora attualissimo, per carità) cozza assai meglio con la nuova formazione, e per i singoli di lancio, The Negative One e The Devil In I, entrambi riusciti e perfetti per rilasciare un'idea complessiva di quello che troviamo in Vol. 5.
Intendiamoci subito: se vi aspettate un nuovo All Hope Is Gone, resterete delusi. The Gray Chapter vuole essere un validissimo seguito di Vol.3; e per quanto possa risultare più oscuro e cattivo e pesantemente segnato dai problemi che ne hanno anticipato la lavorazione e l'uscita, suona come un disco incredibilmente ricco di spunti, idee e grandi canzoni. Perciò, lode agli Slipknot, che sono ancora qua per fare musica, andare in tour, intascare palate di quattrini e fare incazzare tutti i i metallari più integralisti.

venerdì 17 ottobre 2014

[Recensione] La trattativa

Ci troviamo in una stanza per gli interrogatori. Gaspare Spatuzza (Enzo Lombardo) è un mafioso già condannato che sta conseguendo la laurea in teologia ed è smanioso di collaborare con la giustizia. Due agenti leggono una lista di nomi: gente morta per mano ignota. L'ignoto, nove casi su dieci, è proprio Spatuzza. La macchina da presa inizia ad arretrare, si allontana dal tavolo dell'interrogatorio, e poi dalla stanza, mostrandoci primariamente la finzione del cinema, e poi un set di cartoni e luci, un teatro di posa e, da ultimo, il pubblico. Un pubblico, quello mostrato, anzi svelato, all'inizio de La trattativa di Sabina Guzzanti (giunta al suo sesto lungometraggio cinematografico) composto dai "lavoratori dello spettacolo", che si alternano nella ricostruzione recitata di tutto ciò che si sa su uno dei più grandi misfatti della storia della nostra Repubblica: la trattativa stato-mafia.
Prendendo come punto di riferimento formale Documenti su Giuseppe Pinelli (1970) di Elio Petri e Nelo Risi, la Guzzanti dimostra di essere davvero cresciuta sul piano cinematografico (prima di Draquila, la sua era una produzione discontinua e piuttosto acerba): dalla scelta di autentici fuoriclasse teatrali per interpretare più personaggi (attori meravigliosi che molto probabilmente non rivedremo mai più sul grande schermo) ad una selezione precisa e attenta di materiale d'archivio, interviste e documenti assortiti, la comica romana presenta non chiacchiere, ma fatti, semplici, compiuti e vergognosi.
C'è chi si meraviglia dello scarso successo che La trattativa sta riscuotendo in sala (21.000 € di incasso dopo una settimana di proiezione rappresentano, ahimè, un cocente flop), e non ha torto il cronistucolo che, su Libero del 4 ottobre, scrive che "gli spettatori vogliono altro, non sono interessati a come la Guzzanti affronta la trattativa Stato-Mafia [...] la gente ha altro a cui pensare, ha altri problemi, vuole altro": sicuramente, la gente ha altro a cui pensare e ha molti altri problemi (chi legge certi articoli in maniera particolare). Di fatto, se la gente non avesse passato quasi settant'anni a pensare ad altro, La trattativa della Guzzanti (che più che ad un un film somiglia ad un atto di civiltà) sarebbe stato un documentario molto diverso e sicuramente con un bel lieto fine.

mercoledì 15 ottobre 2014

Lucinda Williams, "Down Where The Spirit Meets The Bone" [Suggestioni uditive]

Lucinda Williams,
Down Where The Spirit Meets The Bone
(Highway20 Records, 2014, 2 Cd)
★★★★★















Che interesse può avere un'artista di sessantuno anni acclamata in tutto il mondo, stimata da critica e pubblico e con una decina di album alle spalle incisi dal 1979 in poi, a cambiare completamente metodologia di lavoro e ad auto-prodursi? Visto che si parla di Lucinda Williams non viene di certo da addurre a questa sua decisione la motivazione della crisi del mercato discografico: ha sempre venduto il giusto e ha iniziato a conoscere successi commerciali più ampi solo dopo gli anni '90, ma ciò nonostante ha sempre avuto la sua schiera di fans affezionatissimi e disposti a seguirla ovunque. I suoi tour erano lunghi anche quando il sistema concerto non era ancora divenuto l'unico mezzo di sostentamento ancora valido nel music business. Perciò, gli unici motivi in grado di giustificare la scissione del contratto con la Lost Highway e la fondazione della sua Highway 20, sono di natura esclusivamente artistica.
Nato nell'arco di tre anni, scritto, pensato e registrato con totale calma, Down Where The Spirit Meets The Bone è il capolavoro della migliore cantante in circolazione (almeno al momento). Venti canzoni per un album doppio suonato con musicisti che, se non sono Dio, ci si avvicinano parecchio: da Tony Joe White a Bill Frisell, da Ian McLagan a Jakob Dylan, da Johnatan Wilson a Butch Norton, tanto per citarne solo alcuni. I testi della Williams continuano a non avere paragoni: perfino in dischi meno riusciti (penso a West, per esempio) le storie narrate e le parole usate per raccontarle rappresentavano un punto di forza unico. Stavolta, però, i toni si fanno più solari, più morbidi, e la voce della cantante, pur non perdendo quel clamoroso accento sudista e quel timbro sofferente, sembra essere più sicura e diretta. Così come lo è l'intero Down Where The Spirit Meets The Bone, un album rock prevalentemente chitarristico che fa tremare, emoziona, risuona nell'anima di chi non si dà per vinto e persiste nell'ascoltare certa buona musica e, fra decine e decine di suoni fasulli e parole vacue, sa ancora riconoscere la materia con cui vengono plasmati i capolavori. Per mole e intensità, qua siamo dalle parti del The River springsteeniano, solo trentaquattro anni dopo e con una capacità di interpretazione canora fuori dal comune. Non scrivo titoli o consiglio brani, perchè in questi due compact non esiste una canzone più brutta di altre: al massimo ne troverete una più bella di quelle già meravigliose. 

martedì 14 ottobre 2014

The Equalizer- Il vendicatore [Recensione]

Aspettavo da tempo il film con cui Antoine Fuqua sarebbe tornato ai livelli di Costretti ad uccidere (1998) e Training Day (2001): ebbene, sabato sera posso dire di essere stato accontentato. Il tutto grazie al suo nuovo film, The Equalizer (nel nostro paese accompagnato dallo sbagliatissimo sottotitolo Il vendicatore), e a quell'ottimismo che da sempre nutro nei confronti di tutti quegli umili registi di mestieri che lavorano a ritmi serrati (uno, due film l'anno) e le cui carriere non sono certo avide di cadute (Bait- L'esca), scempi (il precedente Attacco al potere è uno dei film più brutti degli ultimi novant'anni) e flop clamorosi (Exit Strategy, un buon pilot prodotto da Fox Television, non conoscerà purtroppo alcun seguito). 
La trama di Equalizer non si contraddistingue certo per un eccesso di originalità: Robert McCall (Denzel Washington, attore bravissimo e perennemente impagabile) lavora dall'Io Brico americano, legge i romanzi lasciati dalla sua defunta moglie e cena ogni sera nella stessa tavola calda con lo stesso caffè e lo stesso dessert, parlando- anche se con un certo distacco -con la giovane prostituta Alina (una Grace Moretz utile soltanto a fornire un docile pretesto ai fini della storia). Quando questa però viene pestata a sangue da alcuni malavitosi, Robert si arrabbia parecchio, e il film può cominciare, in un tripudio di cattivi terrificanti, poliziotti corrotti e scene di lotta che pagano un debito enorme nei confronti di Wong Kar-Wai, John Whoo (mentore e produttore del primo film di Fuqua), Takashi Miike e di tutto un cinema che, se non fosse per gli orientali, manco esisterebbe.  Pur non esimendosi da certi eccessi retorici e da qualche ripetizione, quello di Fuqua è un cinema rinato, complici una sceneggiatura efficace, un protagonista che da solo vale l'intera squadra dei Mercenari 3 e una tecnica registica che dà il massimo in questa ambientazione notturna e spesso angosciante, urbana e gangsteristica. La scena del combattimento finale nell'Home Mart di The Equalizer rappresenta, nel cinema d'azione odierno, il trionfo della forma sulla sostanza. E se proprio i cinesi (e Sergio Leone, prima di loro) ci insegnano che anche la più bella storia del mondo narrata con sciatteria diventa inutile, vale la pena dire che Antoine Fuqua si è liberato dai clichè professionali e (soprattutto) ideologici che, se fossero stati ripetuti ancora, lo avrebbero relegato nel mondo delle macchiette. 
Adesso vediamo cosa diranno certi critici, in particolare quelli che ai tempi del buon Nicholas Ray volevano sconvolgere il mondo e oggi sono più conservatori di un pensionato bresciano che vota Lega. Stanchi di fare a pezzi Walter Hill, magari troveranno un nuovo bersaglio da fare a pezzi, una nuova vittima che giustifichi la loro esistenza ormai sterile: e magari quella vittima si chiamerà Fuqua.

sabato 11 ottobre 2014

Fratelli unici [Recensione]

Il fatto che fra i film italiani disponibili nelle vicinanze io decida di andare a vedere quello meno spudoratamente cafone, già indica che ormai siamo davvero arrivati alla frutta: lo spettatore non sceglie più il bello o il brutto, il sufficiente o l'insufficiente, la dignità o la vergogna. Tocca affidarsi alla regola del meno peggio, alla logica dell'accontentarsi. Inutile nascondersi: quando le alternative sono le ultime "fatiche" registico-interpretative di Paolo Ruffini, far ricadere la scelta su una patinata commedia con la coppia Bova&Argentero equivale al preferire La montagna sacra a Mazzabubù, quante corna stan laggiù!, specie perchè, almeno io, a Ruffini preferisco l'ebola. 
E anzi che per i primi venti minuti quei due furbacchioni di Bova e Argentero, pur con qualche caduta di stile, sembrano quasi convincerci che Fratelli unici di Alessio Maria Federici (non so neanche chi è, ma meno male) non è l'ennesima commediola rozza creata al solo scopo di fare pubblicità all'ultima Fiat. Scrivo questo perchè Raoul Bova ha più volte, in passato, dimostrato di saper recitare, Argentero ha fatto lo stesso, anche se in misura più sporadica, mentre la "esordiente" Miriam Leone è talmente bella che gli sceneggiatori potevano farla semplicemente respirare, senza aggiungere battute e battutine insulse. La Crescentini non migliora di certo con l'età: era e rimane la madre di tutte le cagne. 
Comunque sia, è un film che esaurisce quelle due, tre idee discrete nel giro di mezz'ora. Per il resto, va avanti zoppicando, fra maldestri esempi di product-placement targato Eni, Falconeri e Bellini e personaggi talmente tanto piatti che, a confronto, le figurine Panini sono bassorilievi romanici. 

venerdì 10 ottobre 2014

Un paio di cose del cinema che capisco ma che mi perplimono [Ombre elettriche]

1.
2015-2019: la più grande stagione cinematografica di sempre (?)

1 maggio 2015: The Avengers: Age Of Ultron.
12 giugno 2015: Jurassic World, quarto capitolo della saga Jurassic Park.
1 luglio 2015: Terminator Genisys, quinto episodio (su sette previsti) di Terminator.
6 novembre 2015: James Bond 24.
18 dicembre 2015: Star Wars VII.
Natale 2015: Kung Fu Panda 3.
Gennaio 2016: Avatar 2.
26 maggio 2016: Batman Vs. Superman: Dawn Of Justice.
Gennaio 2017: Avatar 3.
Estate 2017: Justice League.
Dicembre 2017: Star Wars VIII.
Gennaio 2018: Avatar 4.
Dicembre 2018: The Avengers 3.
Dicembre 2019: Star Wars IX.

Sono solo alcuni titoli dei blockbuster che verranno. Piaccia o no, il 2013 è stato un anno buio per l'industria del cinema, e si prospetta un 2014 altrettanto pessimo. Il mercato cinematografico che risente di più della crisi è quello americano, sia in termini economici, che- soprattutto -in termini di idee. Perciò, tanto vale pianificare già da adesso la "biggest movie season ever", ovverosia una stagione cinematografica che occuperà le major hollywoodiane per i prossimi quattro anni e che dovrebbe garantire miliardi di incasso sicuri a tutti. A questo punto sorge però legittima una domanda: il circuito di essai godrà anch'esso di un simile arricchimento oppure il divario fra mega-produzioni e opere dai buget più contenuti si farà ancora più marcato?

2.
La nuova Disney, fra crisi di idee, parodie porno fuori tempo massimo e remake darkettoni

Ultimamente sono sbocciati talentuosi artisti la cui unica attitudine è stata prendere le care, vecchie storie Disney e abbrutirle. Siamo stati investiti da una pioggia di parodie fotografiche vuote e scurrili e- cosa ancor più vergognosa -chi ha ideato tutto questo magari ne ha pure tratto lauti guadagni. Non mi reputo un moralista (anzi...), ma non mi piacciono le cose che risultano di cattivo gusto senza motivo e non riesco a trovare tutto questo divertimento o tutta questa trasgressione in un branco di principessine agghindate come prostitute. 
Tuttavia, i primi a permettere e accellerare la rovina del proprio patrimonio culturale sono proprio i dirigenti disneyani. La crisi di idee dell'azienda li porta ormai a risultati sempre più deprimenti sul piano dell'animazione (Frozen è un'offesa alla psiche infantile), e così anche loro sono costretti a tornare sui propri passi e al dover adattare all'oggi ciò che risultava perfetto fino a ieri. I 760 milioni di dollari raccolti la scorsa estate da Maleficent non sono di certo arrivati da uno sparuto gruppetto di poppanti che si avvicina al cinema per la prima volta, bensì da quella stessa fascia di utenza che, davanti a un PC, ride a crepapelle di fronte all'ennesima Biancaneve sporcacciona. E pur essendo dura doverlo ammettere, uno dei più clamorosi complici di questa discutibile operazione di "rilettura" dei classici Disney ha un nome e un cognome: Tim Burton, un tempo fervido genio pop del cinema gotico contemporaneo e autore di indiscusso talento. Questi, dopo una Alice In Wonderland penosa, è di nuovo al soldo della "Dark Disney" con la Mary Poppins 2.0, di cui è stata presentata la locandina proprio in questi giorni:

Che vogliamo fare? Scendiamo in piazza?

giovedì 9 ottobre 2014

Lucy [Recensione]

Di libri sulle potenzialità non sfruttate del cervello umano è pieno il mondo. Volumi più o meno autorevoli, brevi o lunghi, pensati per gli addetti ai lavori o per il grande pubblico: ne trovate a bizeffe negli scaffali delle librerie di varia e perfino all'edicola sotto casa, se un po' più fornita. E pur non essendo il mio campo d'azione, ripongo grande fiducia nel progresso scientifico, nella medicina e nella neurologia. Tuttavia, le storie di super-cervelli ispirate a complesse teorie scientifiche e divenute film hanno rotto tanto le palle, e non potevano di certo passare inosservate agli occhi dello specialistà del banale, e cioè Luc Besson, che con Lucy (girato in IMAX e distribuito in Italia dal 25 settembre) torna ad angosciare la vita di chi alla Settima Arte vuole davvero bene. 
Lucy fa ridere, ed è parecchio più brutto di quanto non mi aspettassi: la regia- piatta, invasiva e ipercinetica come poche altre -disturba talmente tanto la visione che ci si convince, per un attimo, di girarsi e trovare la troupe seduta accanto a noi. La Johansson è bella e inutile, Morgan Freeman è inutile senza neanche apparire bello. Se poi affidassi al criceto dei miei vicini di casa un budget analogo a quello speso per gli effetti speciali di Lucy, sono convinto che sarebbe in grado di girare almeno quattro lungometraggi migliori. Voglio essere positivo, e affermare che, dopo tanti bei film visti e ri-visti grazie alle meraviglie dell'home video e del digitale terrestre, fa sempre piacere vederne uno così irrimediabilmente orribile. Besson è ancora uno dei più vergognosi registi del mondo, ma anche quello che, al pari di pochi altri, vuole parlare di tantissime cose senza riuscire a spiegarne neanche mezza: un "dono", il suo, che gli ottantanove minuti di Lucy dimostrano mirabilmente.

domenica 5 ottobre 2014

Aphex Twin, "Syro" [Suggestioni uditive]

Aphex Twin,
Syro (Warp Records, 2014)
★★★★★















Come nel caso dei due ultimi romanzi di Joyce, il mondo non è mai stato veramente pronto per Richard David James, per i suoi pseudonimi e per la sua musica. Tuttavia, mi è sempre piaciuto ascoltarlo, seguirlo, immaginarlo. La sua opera, in misura maggiore rispetto a quella di altri artisti elettronici, ha accompagnato molte peregrinazioni (prevalentemente notturne) lungo i non-luoghi della mia realtà, ma di questo ho già parlato ampiamente in un vecchio post, quando l'ipotesi di un nuovo album di James poteva essere ritenuta solo un sogno di qualche folle appassionato.
E invece è successo: Richard David James (aka Aphex Twin, aka AFX, aka Poligon Window, aka Gak, aka Q-Chastic, aka Power Pill, aka The Tuss, aka Bradley Strider, ecc.), nato a Limerick in Irlanda nel 1971, è tornato a pubblicare un album di inedite dopo tredici anni (tanti ci separano dal pluridiscusso doppio Druqks). Di quanto occorso ad Aphex Twin dal 2001 ad ora- se si eccettuano una raccolta di remix (26 Mixes For Cash) e il ciclo dei dieci Analord (materiale pensato per i disc jokey e pubblicato dalla Reflex Records fra 2003 e 2006) -ben poco ci è dato di sapere: le sue apparizioni pubbliche hanno avuto la frequenza di quelle effettuate da Salinger dopo l'uscita de Il giovane Holden, i suoi live d'avanguardia (costosi e annunciati più volte all'ultimo minuto) sono stati spesso oggetto di pesanti critiche, e pure le interviste rilasciate in questo non breve periodo sono state rare quanto mosche bianche. Nel frattempo, James ha raccolto una grande quantità materiale (pare averne accumulato abbastanza per la realizzazione di altri sei album) e si è pure costruito uno studio privato in un punto non precisato della campagna scozzese, dove abita con la famiglia da una decina d'anni: ed è in questo contesto che è venuto alla luce Syro
Ironico che chi a dodici anni si costruiva un computer da solo oggi decida di incidere musica elettronica in modalità totalmente analogiche, ma anche Picasso dovette attendere la vecchiaia per imparare a disegnare come un bambino. Perciò, ecco James l'artigiano intento a riempire la sua fucina di "sintetizzatori, campionatori, sequencer, unità di missaggio ed elaborazione, interfacce MIDI, drum machine, vocoder, equalizzatori grafici e banchi di missaggio", per un totale di oltre centotrenta attrezzature a cui, come egli stesso ha dichiarato, ha spesso dovuto apportare personalmente delle modifiche. E dal momento in cui il nostro Aphex si è ritrovato a comporre e registrare la sua personale ode alla felicità domestica, perchè non far intervenire anche la famiglia? Sin dall'iniziale minipops 67 è possibile infatti udire campionamenti vocali, e non si tratta altro che delle voci di Anastasia Rybina (moglie di James) e dei due figli della coppia. Non c'è da meravigliarsi se spesso si tratta di voci tagliate, contorte e modificate fino ad essere rese incomprensibili, ma dobbiamo anche renderci conto che qua siamo semplicemente oltre. Un capolavoro come XMAS_EVET10 potrebbe già da solo valere l'ascolto dell'intero disco, ma c'è molto altro: ci sono i 130 bpm di 180 db_, i suoni interstellari e quasi profetici di CIRCLONT6A, gli echi jungle (ennesimo genere di cui Aphex fu, forse inconsapevolmente, l'inventore) di CIRCLONT14, i bit e i bip di fz pseudotimestretch+e+3 e la velocità estrema (163,97 bpm) di s950tx16wasr10.
Difficile codificare lo spettro di emozioni scaturito dall'ascolto della conclusiva aisatsana. La bellezza di una simile tela pianistica (ai cui bordi sono state abilmente tratteggiate morbide voci di uccellini) va contemplata in silenzio, con la mente che va via via sgomberandosi dal caotico tutto della vita quotidiana. Solo così sarà possibile capire come, ancora una volta, Richard James sia stato in grado di comporre una musica geniale e formativa. Di fatto, la ricerca del future sound ideale auspicato dalla rivoluzione IDM dei primi anni '90 sembrerebbe portare ancora una volta a brani come aisatsana, che non sono nuovi rispetto ai quadretti bucolici presentati, sempre come Aphex Twin, in Selected Ambient Works vol. 2 o in Drukqs. Al minuto 64 e 29 del cd, Syro si interrompe con una croma, il disco finisce come se d'ora in poi quella nota dovesse rimanere ferma per tutti i tempi. Come nel Contrappunctus XIV de L'arte della fuga di Bach, si percepisce ancora una volta quella sensazione di perfezione non-finita.
Ancora una volta.
Solo duecentossessantatre anni dopo.