sabato 29 novembre 2014

Ogni maledetto Natale [Recensione]

Se davvero il postmodernismo ha investito le arti tutte e fra queste il Cinema, dovrà pur esistere il post-cinepanettonismo: negli ultimi cinque anni, sono iniziati ad uscire (benchè timidamente e con lieve anticipo sulle festività stesse), film che con le loro taglines hanno dato luogo a divertenti ossimori, tipo <<Il primo cinepanettone intelligente>>, <<La commedia di natale capolavoro>>, <<Il nuovo, sbellicante film natalizio>>, e altre atrocità assortite. Precursore di tale movimento fu Commediasexi (2006) di D'Alatri, scritto da tale Gennaro Nuziante, passato poi alla regia per dirigere i fulminanti successi di Checco Zalone, personaggio che dal 2009 a oggi ha raccolto, con i suoi post-cinepanettoni che di bello, intelligente o raffinato hanno assai poco, l'invidiabile cifra di centodieci milioni di euro. Davvero le scurregge e le battute sui gay sono passate di moda e hanno finito con l'annoiare il popolino? Ma figuriamoci: semplicemente, sono venute a noia le strutture e i protagonisti del cinepanettone classico (Vanzina, Parenti, Pieraccioni, ecc.). La crisi ha soltanto aperto le porte a nuovi modi di concepire e realizzare il cinepanettone facendolo però rimanere un prodotto basso e quasi sempre imbarazzante. Ed è qui che intervengono quei micidiali "scassinatori" che rispondono ai nomi di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, passati alla storia del piccolo schermo con le tre stagioni di Boris (da cui, nel 2011, è stata tratta una gradevole versione cinematografica). La loro intenzione è presto detta: prendere il meglio e il peggio del cinepanettone e rileggerli in chiave totalmente anarchica e fuori dai canovacci della contemporaneità.
Così nasce Ogni maledetto Natale, operazione che tenta di inserirsi sulla linea di confine fra mainstream e indipendenza e che sta facendo parlare di sè già da alcuni giorni (complice anche l'eccezionale omaggio-parodia curato dal canale YouTube di The Jackal). Un soggetto fondato su un luogo comune à la fratelli Vanzina, quello di Lui&Lei che si conoscono durante le feste, si innamorano, trombano e decidono di presentarsi alle rispettive famiglie, che però (novità!) non sono le ricche famiglie una di Roma e l'altra di Milano, una di destra e l'altra di sinistra, bensì due famiglie sgradevoli che affrontano al meno peggio una festività angosciosa e in realtà ben poco piacevole come il Natale (nell'antichità, come ci ricorda il prologo del film, era anche detto "festa delle tenebre"). A vestire i panni dei due nuclei familiari (uno modesto e burino, l'altro ricco e ipocrita) troviamo lo stesso, eccezionale cast: Pannofino, Giallini, la Morante, Mastandrea, due dei tre Guzzanti, Fresi e altri interpreti legati all'esperienza di Boris. Veri punti deboli sono i protagonisti: la Mastronardi, burina di Cucuia fiera delle proprie origini, non riesce a tenere teste all'inaspettatamente migliore Cattelan, vestito da giovanotto ricco e carino. La regia è di Vendruscolo, Ciarrapico e Torre si fa più matura e meno naif rispetto a Boris- Il film. Si ride, ma ci si inquieta anche tanto, sia nella prima parte (l'atmosfera del natale nella Tuscia rivaleggia con una buona fetta della produzione horror statunitense) che nella seconda. I membri della famiglia di Lei sono sì tremendi, grotteschi e sopra le righe, ma anche enormemente rappresentativi dell'area geografica sperduta e arretrata in cui vivono. La parte a casa di Lui, invece, carica forse troppo il lato satirico, facendo disperdere alcuni grandi caratteristi (ci si dimentica alla svelta del Giallini che arriva in Maserati e cucina <<Millessettecento euro de'pesce!>>) e minando certi equilibri della sceneggiatura. E' un film che vive di suggestioni e di gag, una commedia che forse rimane più nel cuore che nell'occhio (priva com'è di equilibrismi o effetti speciali), ma a tratti anche imperdonabilmente incompleta. Si capisce bene che lo spirito del Natale è illusorio, sicuramente utile ad occultare l'ignoranza e a pulire le coscienze sporche della società disgregata che ancora lo festeggia, ma Ogni maledetto Natale è anche un film che potrebbe e forse vorrebbe osare di più, specie quando si tratta di rilasciare giudizi pesanti e completi sul mondo che circonda noi spettatori.

Alla ricerca delle foglie di Castel del Rio (Parte 1 di 2) [Trame]

ALLA RICERCA DELLE FOGLIE DI CASTEL DEL RIO
(Parte 1 di 2)

Poco. Ho dormito davvero poco, eppure mi sento talmente tanto pronto che riesco a destarmi in anticipo rispetto alla sveglia che, come da programma, alle 06:30 in punto suona.
L'odore del caffè appena fatto è un dolce compagno di risveglio, così come la ciambella che lo accompagna. Il pranzo al sacco è pronto, il mio fedele zainetto Newfeel mi osserva da dietro la porta. In più, per una volta, ho deciso di concedermi il lusso del borsone frigo, già riempito di bottigliette d'acqua e succhi di frutta.
La notte appena trascorsa è stata calda, in linea con la stupida stagione che sta attraversando tutto il paese: perciò, mi limito a prendere una felpa con la zip. Come si dice dalle mie parti, "meglio ave' paura che buscanne".
Il primo appuntamento è con Pippo, alle ore 07:30, praticamente di fianco a casa, visto che abitiamo nella stessa via. Anche lui ha dormito davvero poco: ha tirato a far tardi al Papillon di Monteroni e , come mi racconta, non ha avuto neanche il tempo di fare colazione. Prometto che ci fermeremo ad un bar quanto prima. Claudio, l'altro appassionato compagno di viaggio, è invece più fresco e riposato: la sera prima ha fatto il bravo, non ha bevuto ed è andato a letto relativamente presto. Lo invito a caricare il suo zaino nel portabagagli della Octavia e inizio a pubblicizzare la mia idea di portare il borsone frigo come un'intuizione assolutamente geniale che salvaguarderà il nostro pranzo e le nostre bevande.
Imbocco l'Autopalio e in mezz'ora siamo a Firenze, ancora assonnata e immersa nel grigiore umido e afoso di una domenica mattina. I semafori di Piazza Ferrucci sono tutti verdi, e collegarsi ai viali di circonvallazione è un attimo. Quel poco traffico che c'è si fa più rarefatto man mano che ci distanziamo dai viali e ci avviciniamo alle colline subito sopra. E' una parte della città che conosco bene perchè la mia famiglia viene da qui. Mio nonno è nato dalle parti di viale Righi e cresciuto in via del Salviatino. Inoltre, quando ero piccolo e il caldo in città diventava insopportabile, lui e nonna caricavano me e mia sorella sulla loro Alfa 75 e ci portavano a passare i pomeriggi in collina.
Arrivati a Fiesole scolliniamo e procediamo in direzione Caldine, attraversiamo la frazione di Olmo, e poi da lì ci dirigiamo verso Borgo San Lorenzo.
Sono quasi le nove e, salvo qualche sporadico raggio di sole, non si riesce ancora a capire che tempo sarà: a San Piero a Sieve sembra di essere tornati indietro di un paio di mesi, mentre a Firenzuola si respira l'aria (ben più ragionevole) di pieno autunno, con tanto di meravigliose foglie morte a bordo strada e l'odore di castagne provenienti dai boschi che costeggiano questa strada antica e anche un po' selvaggia.
Giunti al Passo del Giogo, che sorge a ottocentottantadue metri sul livello del mare, facciamo scalo: non sono neanche le dieci, Pippo necessita di fare la sua colazione, mentre il mio corpo implora l'assunzione di un secondo caffè. Sulla terrazza panoramica che si affaccia sulla vallata circostante, un paio di famiglie attendono il proprio turno per mettersi in posa e scattare foto, mentre tre motociclisti si stanno rimettendo in testa i caschi e si dirigono verso le loro Guzzi lucide e possenti. Penso fra me e me che non solo non capirò mai niente di motociclette, ma che le custom in particolar modo proprio non mi piacciono. Una volta dentro all'albergo ristorante bar Il Giogo, ordiniamo, e ho modo di fare immediatamente caso al mutare della parlata, che risulta, almeno qui, un bizzarro incrocio fra fiorentino e romagnolo. Per me, un caffè ristretto, mentre per Pippo cappuccino e fetta di crostata; panino con finocchiona e pecorino per il ben più temerario Claudio. Esco a prendere la macchina fotografica e mi soffermo a guardare la nebbia che va a scendere, infittendosi, fra gli abeti della valle. I motociclisti se ne sono andati e le famiglie si dividono, chi prosegue verso l'Emilia Romagna, chi ridiscende in direzione di Scarperia. C'è odore di autunno, nell'aria. Di autunno e di nicotina: infatti, mi volto in direzione dell'albergo e noto un uomo di mezza età dalla carnagione rossastra intento a sorseggiare, da un bicchierino, una bevanda di colore scuro e ad aspirare grandi boccate da una Diana rossa. Mi guarda come i messicani degli albi di Tex guardano i forestieri appena entrati in città col cavallo sudato e ancora addosso la polvere della prateria. Rispondo con indifferenza alle sue occhiate sospettose e annuncio che faremo qualche fotografia e ripartiremo subito dopo.
La discesa verso il confine comincia rapidamente, e, passata Firenzuola, imbocchiamo la statale Montanara Imolese, e cioè quella strada che dovrebbe condurci a Castel del Rio attraversando la Valle del Santerno, meravigliosa e sovrastata da una gigantesca palla di sole. Trascorrono minuti senza imbattersi in altre automobili e la pace regna sovrana, interrotta solo dalla corrente del Santerno. Dall'abitacolo dell'Octavia, osserviamo frazioni che si susseguono, minuscoli centri abitati fermi nel tempo che fino a poco tempo fa erano riuniti nella Comunità montana Valle del Santerno, fatta sciogliere, tramite una delibera della regione, nel 2009. Mi colpiscono i giardini delle case, curati e spesso arricchiti da mezzi agricoli e vecchie altalene in plastica o ferro battuto; sui vialetti, auto italiane sfoggiano ancora le targhe nere con scritta gialla. La strada prosegue e l'Emilia Romagna si avvicina.
Con Pippo e Claudio, parliamo della Linea Gotica e del fatto che la guerra qua è stata davvero terribile, specie per i civili. Racconto del circolo ARCI di un paesino mugellese e di come il gestore, un ex-partigiano, avesse deciso di apporre all'entrata un cartello recante la scritta "Vietato l'ingresso ai tedeschi". Dopodichè, la nostra attenzione viene attratta da una piccola chiesetta posta in prossimità di una curva a gomito: ci sono diverse macchine parcheggiate là attorno, e un bel po' di attempati fedeli stanno uscendo. La messa è finita e l'auto diventa immediatamente il luogo di frettolosi pensieri pro e contro i riti sacri e le tradizioni. Vorrei tanto convincermi che partecipare alla funzione aiuti e faccia vivere meglio gli ometti che stanno uscendo, sorridenti, da quel portone vecchio quasi quanto la valle, ma l'unica cosa che mi viene in mente è il personaggio di Rust Cohle, specie quando in uno dei suoi straordinari monologhi spiega che- secondo alcuni antropologi -la religione è un virus del linguaggio in grado di riscrivere i percorsi del cervello e di offuscare il pensiero razionale. Sono d'accordo con lui.
Ci distogliamo dal filosofare solo quando i nostri occhi incrociano una grande barra rossa che taglia, in diagonale, un cartello su cui sta scritto "Toscana": siamo ufficialmente in Emilia-Romagna, e il primo comune in cui ci imbattiamo è proprio la meta del nostro viaggio, Castel del Rio.
Il Ponte Alidosi in una tavola de La compagnia della forca
Questo paese di neanche milletrecento abitanti vanta radici piuttosto antiche: i celti si insediarono sul territorio in cui sorge oggi già nel VI secolo a.C., e i romani vi costruirono un castrum durante l'età di Cesare. Vale la pena specificare, però, che l'antica Castel del Rio non era stata edificata esattamente dove si trova il paese oggi e non portava questo nome, bensì quello di Mercatale, in quanto borgo che i feudatari di allora, gli Alidosi, avevano predisposto al commercio. Dopo il terremoto che spazzò via la vicina Massa di Sant'Ambrogio (oggi Montefune), Mercatale visse una stagione di ripopolamento e divenne uno dei centri più importanti della zona, assumendo solo in seguito il nome di Castel del Rio. Quelli del XVI secolo furono anni prosperi e coincisero con la costruzione delle grandiosi opere che tutt'oggi abbelliscono il paese: dall'omonimo Palazzo (oggi sede del municipio e cuore del Magnus Day) al celeberrimo Ponte, dichiarato monumento nazionale già da Vittorio Emanuele II e immortalato più volte da Magnus nelle tavole de La compagnia della forca.
Il Bernabei, organizzatore del "Magnus Day",
con Vittorio Giardino e il piatto da lui disegnato.
Trovo parcheggio nei pressi di una schiera di villette moderne. Non appena scesi, percepiamo che è un caldo irreale e prepariamo gli zaini, che ci dovranno stare sulle spalle per buona parte della giornata. Raggiungere Palazzo Alidosi è un attimo e notiamo un viavai continuo di gente di ogni età. Ovviamente, non tutti si sono appassionati ai fumetti, e le attrattive di Castel del Rio sono di tutt'altra natura: mi riferisco alla celeberrima Sagra del marrone, giunta alla sua cinquantanovesima edizione. Eppure, può sembrare incredibile, ma anche una fiera gastronomica qua finisce col godere di un legame forte col mondo delle nuvole parlanti. Nel 1995, infatti, fu proprio Magnus a disegnare il piatto celebrativo che, tutt'oggi, continua ad essere creato dai giganti del fumetto: quest'anno è il turno di Vittorio Giardino, presente all'evento.
Ad accogliere i visitatori del Magnus Day troviamo due gigantografie ispirate a Sturmtruppen e Nick Carter, entrambe creazioni di Bonvi, che per un breve periodo raggiunse l'amico e collega Magnus qua sugli Appennini, allo scopo di tenersi lontano dai vizi cittadini e di lavorare più placidamente. Ma il vero punto-accoglienza della fiera è rappresentato dallo stand di tale Romeo Rensi, personaggio conosciuto da tutti in paese e grande appassionato di rally: ci racconta che col suo team di piloti amatori ha gareggiato fino al 2006, e ci mostra, inorgoglito, un disegno di Magnus accompagnato da una lettera. <<Magnus>>, ci spiega con un marcato accento alidosiano, <<io l'avevo sempre fra i piedi. Veniva a casa mia tutti i giorni, e spesso disegnava. A me i fumetti interessavano poco e ho perso il conto di quanti disegni gli ho strappato, dio... Comunque il logo della mia squadra di rally lo ha disegnato lui>>, e indica la caricatura di una macchina da rally sia sul foglio che su una vecchia maglietta rossa che ha addosso. Romeo vende di tutto: dai marroni, raccolti personalmente da lui, a vecchi numeri di Tex fino ad una discreta quantità di materiale raro e introvabile riguardante Magnus. Durante la giornata, torneremo più volte a trovarlo e lui, sigaretta perennemente accesa fra le labbra e bicchiere di Trebbiano in mano, risponderà ad ogni nostra domanda con un'enfasi difficilmente riscontrabile fra le schiere di nerd che, tristi ma pieni di sè, sovraffollano ormai quasi tutti gli eventi legati al fumetto.
Castel del Rio vista da Magnus.
Ma prima di accedere alla grande stanza dove il Magnus Day trova il suo effettivo svolgimento, veniamo avvicinati dal signor Franchini, proprietario della società viticola omonima e presente alla fiera per esporre i propri prodotti. La mia attenzione viene attratta immediatamente dalle etichette di un paio di bottiglie, disegnate ad acquarello e china con un tratto a me familiare: sono opera, infatti, di Sergio Tisselli, ora impiegato nel team di Tex (la sua storia d'esordio esce fra meno di un mese) e ricordato per essere stato il disegnatore dell'unica opera in cui Magnus si occupò esclusivamente della sceneggiatura, e cioè Le avventure di Giuseppe Pignata (pubblicato da Granata in tre albi, poi raccolti da Grifo Edizioni in un volume recente molto costoso). <<Volete fare un aperitivo, ragassi?>>, ci viene chiesto. Io guardo l'orologio: non è neanche mezzogiorno. <<Fra poco s'arriva!>>. Non è una bella cosa entrare nella Sala Magnus di Palazzo Alidosi già mezzi sbronzi, o almeno non è cosa per noi.
Il Magnus Day è un evento patrocinato dal Comune di Castel del Rio, pensato e organizzato, a partire dal 2007, dall'associazione Gli amici di Magnus, a cui fa capo l'impagabile Gabriele Bernabei, appassionato, sceneggiatore de L'Orso (disegnato da Tisselli) e autore del saggio Il pittore di Castel del Rio (A&G Editore), libro che cerco da anni senza riuscire mai decidermi a comprarlo a causa del suo caro prezzo (su internet, le quotazioni oscillano fra i cento e i centoventi euro).  A partire dal nome, nella Sala Magnus tutto è un sentito omaggio al Maestro: dai leggendari e meravigliosi portfolii realizzati da grandi autori del fumetto italiano (ben tre erano in vendita quest'anno) alle collezioni complete esposte sulle bancarelle. <<Cercava qualcosa in particolare?>>, possono chiedermi. <<No, grazie, ho già tutto!>>, sarebbe la risposta da parte mia. Ho impiegato circa due anni (dal 2004 al 2006) a raccogliere un buon novanta percento dell'opera omnia di Magnus, e posso garantire che portare a termine un'operazione di quel genere senza internet e, soprattutto, senza che le grandi case editrici avessero iniziato una riproposizione integrale dei fumetti più rari e antichi, non fu cosa facile, specie per me, all'epoca appena quindicenne e di certo non ricco sfondato.
In bella mostra, troviamo il piatto disegnato da Giardino, prodotto in serie limitata e autografato. Verrà presentato alle 15:00, nel corso della conferenza stampa che oltre ai già citati Bernabei e Giardino, vedrà coinvolti anche alcuni disegnatori presenti in fiera: fra gli altri Andrea Venturi, Giuliano Piccinino, Simone Cortesi (il suo Aspettando il vento è fresco di pubblicazione, presso Becco Giallo) e Antonio Sforza. Non ci sono file e non c'è ressa: finalmente, una fiera-tributo a cui prendere parte placidamente e senza fretta. Alle pareti, svettano capolavori quali la copertina pastello della seconda edizione de Le femmine incantate, tavole della Compagnia della forca e dell'ancor più leggendario "texone". In fondo alla sala, col tacito accordo della Sergio Bonelli Editore, è stata allestita una micro-retrospettiva in cui vengono mostrate, in anteprima, diverse pagine del Tex di Tisselli, in arrivo a novembre sul sesto ColorTex. Noto, con lieve rammarico, che almeno per ora siamo i visitatori più giovani della sala.
Visto che per il momento non sono previsti appuntamenti particolari, decidiamo di visitare il paese. Bancarelle di prodotti locali e giganteschi bracieri dove montanari nerobruti cuociono le castagne vengono intervallati da banconi che vendono di tutto e di più, dall'abbigliamento fino agli otturatori laser per pistole a pallini. Ai lati, scorre la vita della vera Castel del Rio, con i suoi ristorantini, le sue abitazioni, la sua chiesetta, i suoi bar. Abbiamo modo di ammirare il caratteristico Albergo Il Gallo, dove Magnus visse, in pianta stabile, per tutti e sette gli ultimi anni di vita; accanto, trova spazio il Ristorante omonimo, che per la serata ha organizzato un evento su prenotazione dal titolo "Cena d'Artista". Tuttavia, abbiamo già deciso con largo anticipo di non prendervi parti, dal momento che Castel del Rio e i suoi bei dintorni offrono- a detta di Tripadvisor -scelte gastronomiche superiori. Superata la piazza principale, la conformazione del paese assume, quasi impercettibilmente, forme più ripide. Ci ritroviamo così in una piazzetta dalle dimensioni più contenute e dall'aspetto più vetusto, e proprio qua, di fronte ad un garage aperto, alcune signore del posto sono intente a vendere dei marroni di bell'aspetto per sette euro e mezzo al chilogrammo. Pippo non resiste, e ne ha ben donde: dalle nostre parti, infatti, sono ormai due anni che le castagne sono divenute pressochè introvabili. E pensare che fino a poco tempo fa ero anche io uno di quelli che, nelle domeniche autunnali, prendevano la macchina e risalivano la Montagnola senese, zona notoriamente ricca di castagneti, per tornare a casa la sera con le dita ricolme di aghi ma il paniere zipillo.
Pippo e i marroni di Castel del Rio.
Finito il giro, decidiamo di onorare l'invito del signor Franchini e torniamo sui nostri passi, verso l'ingresso. L'ora di pranzo si avvicina e la gente inizia a speluzzicare la schiacciata all'olio e a chiedere, in abbinamento, dei bei bicchieri di Sangiovese e Trebbiano. <<Io ve lo dico subito. Inizio a darvi da bere e ve lo do finchè non mi dite basta!>>, ci avverte il buon Franchini prima di passare a presentarci le varie tipologie di vino presenti. Partiamo col Sangiovese e ci addentriamo in chiacchiere riguardanti due delle dieci cose migliori al mondo: il vino e i fumetti. Non capita tutti i giorni, almeno a me, di incontrare persone con cui poter scambiare, in totale tranquillità, due parole su certi argomenti, senza dover per forza esagerare e fare la gara "a chi ce l'ha più grosso". Soddisfatti dei ripetuti assaggi del Sangiovese, semplice e aromatico anche se un po' troppo secco, optiamo per un Trebbiano, già stappato in precedenza. Mentre siamo intenti ad apprezzare questo vino decisamente più asciutto, interviene anche il mitico Romeo, con una sua bottiglia. <<Avanti, facciamo un brindisi!>>, esclama Filippo. E così sia. Io, nel frattempo, inizio a trattare per ottenere un bello sconto sul libro di Bernabei, che Romeo tiene in numerose copie al suo stand. Me lo sfoglia pure davanti, facendomi patire come una bestia. <<Come ben sai, è fuori catalogo...>>, comincia. <<Vero, ma su internet se ne trovano tante copie a cifre vicine alla tua e ancora in busta>>, lo interrompo subito. Riesco a farlo scendere ad ottanta euro, sempre e comunque troppo per le mie tasche. Poi la conversazione si sposta sul fatto che La valle del terrore è stracolmo non solo di ambientazioni appenniniche, ma anche di volti alidosiani, uno dei quali appartenente proprio al buon Romeo, le cui fattezze furono sfruttate da Magnus per un personaggio non di certo positivo: mi riferisco a Wong, il tirapiedi cinese di May-Lin. In effetti, ora che lo abbiamo di fronte e me lo immagino più giovane di venticinque anni, ho modo di apprezzare la somiglianza.
Alla fine, si è fatto tardi: l'alcool ci ha aperto lo stomaco e lasciamo, momentaneamente, la mostra per dirigerci verso il Ponte Alidosi, che si rivela subito all'altezza della fama che lo precede. Particolare, bellissimo, calato in uno splendido contesto e mantenuto magnificamente (l'ultimo restauro risale a tre anni fa), fu commissionato a tale Mastro Guerrieri da Imola nel 1499. Noi ci posizioniamo nel parco che trova spazio là sotto e apriamo gli zaini: panini, schiacciate, succhi di frutta e litri di acqua spariscono rapidamente, dopodichè cala, inesorabile, l'abbiocco. Ci teniamo svegli parlando del più e del meno, osservando con diffidenza le palazzine di recente costruzione che hanno edificato nei pressi della sponda sinistra del ponte.
Pranzo panoramico.
Nonostante l'ombra, fa ancora caldissimo, e la tentazione di improvvisare un pellegrinaggio al vicino Santuario della Beata Vergine del sudore è forte. Per evitare di schiacciare un sonnellino (il che comporterebbe la perdita della conferenza stampa pomeridiana), optiamo per un caffè rigenerante ad un vicino chioschetto. Un babbo e un bambino, intanto, pescano sul Santerno, e alcune famiglie si affollano attorno alle griglie presenti lungo tutto il perimetro del parco. Iniziamo a fare il punto della situazione sul dove andare a cena la sera e alla fine optiamo per la Trattoria Damì, alla quale decidiamo di telefonare prima possibile perchè dicono essere sempre piena di gente, specie nei caldi fine settimana della valle. Il 3G non prende lungo il Santerno e proviamo a ricorrere ad antiche metodologie. Di fatti, avvicino il barista che ci ha serviti e gli domando <<Avete un elenco telefonico?>>. <<No, mi spiace...>>. Confidiamo che i nostri smartphones tornino a prendere campo non appena saremmo risaliti verso il paese.

(Continua...)

giovedì 27 novembre 2014

Kynesis, "Kali Yuga" [Suggestioni uditive]

Kynesis,
Kali Yuga
(Red Sound Records, 2014)

★★★★
















Se le band italiane "storiche" possono avere rappresentato uno dei versanti di sviluppo metallaro più fecondi degli ultimi vent'anni, è altrettanto vero che la scena nostrana risulta spesso avida di esordi d'eccellenza. Ma è inutile cadere nei luoghi comuni e generalizzare, specie se ci si imbatte in Kali Yuga, album d'esordio dei torinesi Kynesis uscito lo scorso 10 novembre per la Red Sound Records. 
Prodotto nord-italico di squisita fattura e pregevolmente autoprodotto, sembra uscire da quella grande scuola che vedrebbe riuniti, in sala insegnanti,  i migliori Tiamat e i migliori Moonspell, dimentichi di certi cocenti fallimenti e intenti piuttosto a leggersi libroni di mitologia induista (il Kali Yuga è un'era oscura in cui il genere umano sembra smarrire il contatto con la natura). Ma nonostante fiocchino i rimandi, le citazioni colte e una volontà testuale di un certo impegno, i Kynesis non vengono mai meno alla priorità assoluta: regalare al pubblico un grande album post-metal con venature doom ed elettroniche sparpagliate qua e là e mai affidate al caso. L'alchimia con le sonorità black sottende un'abilità rara (l'intro Enter The Dark Age e la successiva, spettacolare I, Iconoclast ne sono la dimostrazione), così come già dal terzo brano, Gods From Ancient Skies, risulta essere rilevante il lavoro di tastiere ed effettistica. Ma ciò che finisce col sorprendere veramente è l'eterogeneità delle atmosfere che i Kynesis costruiscono pezzo dopo pezzo. In questo senso, Karma è un gioiello assoluto, una perla strumentale dove influenze ambient, echi stellari e fraseggi semiacustici si mescolano con totale armonia. Le lunghe Redrum e Ex-Statis pagano forse un po' il debito alle pagine più black della storia del Metallo Pesante, pur rielaborandone a dovere gli spunti vincenti. I chiaroscuri della breve Chakra sono a dir poco intriganti, mentre la successiva Pancosmic Being ci conduce verso la fine del disco senza un cedimento o un'incertezza: Monad è una closing-track come non se ne trovano più. Riff assassino, stacchi ritmici che si alternano a una furia e una violenza degna dei migliori Meshuggah, il tutto per il primo minuto e mezzo. Da lì, si dirama una lunga coda fatta di suggestioni elettroniche e industrial, complessa, cervellotica, ma con le idee chiare su come portare a termine l'intera opera: e cioè senza la benchè minima sbavatura. 
Raramente una band di esordienti- a prescindere dalla provenienza geografica -riesce a non rinchiudersi in uno stereotipo sonoro, osando e orientandosi verso soluzioni disparate e originali. A questo quintetto torinese la magia è riuscita e Kali Yuga lo dimostra. Chiedere di più ai Kynesis sarebbe, oltre che esagerato, tremendamente irrispettoso: tuttavia, non è escluso che in futuro possano tornare a far parlare di sè con un lavoro addirittura superiore a questo estremo, innovativo e sconvolgente esordio. 

domenica 23 novembre 2014

The New Basement Tapes, "Lost On The River" [Suggestioni uditive]

The New Basement Tapes, 
Lost On The River 
(Electromagnetic Recordings/Harvest, 2014)

★★★½
















Capita a volte, nella storia del rock, che i grandi cantautori decidano di mettere da parte molte delle loro belle liriche e si limitino- se non a distruggerle -a sotterrarle nel proprio giardino di casa. Un giardino dove gli ospiti e gli amici passano e ripassano nel corso degli anni senza minimamente sospettare che il padrone di casa possa preservare, là sotto i loro piedi, segreti tanto frivoli quanto invidiabili.
Potrebbe essere la storia dei venti testi che Bob Dylan ha regalato all'amico musicista e produttore T Bone Burnett, che a sua volta non ha perso l'occasione di buttare giù altrettanti spunti musicali e di convocare, presso i mitici Capitol Studios, una bizzarra compagnia di artisti capitanata da Elvis Costello e composta da Rhiannon Giddens, Jim James, Taylor Goldsmith, Marcus Mumford e Jay Bellerose. Scelgono il nome collettivo di The New Basement Tapes, dal momento in cui le liriche risalgono  al 1967, anno del Dylan che ha annunciato di fresco il suo ritiro dall'attività concertistica (sarebbe tornato a fare concerti otto anni dopo), delle leggendarie sedute al Big Pink, dei Basement Tapes (da poche settimane disponibili in un definitivo, lussuoso e carissimo box di sei cd contenente un libro di 120 pagine e una schiera di quasi centoquaranta brani), della ricerca delle radici di quella mitologia popolare che è la musica tradizionale americana.
L'esperimento può dirsi riuscito, a differenza di quanto potrebbero far supporre le nette differenze stilistiche e geografiche presenti fra i membri del progetto, ma- da dylaniano d.o.c.g. -posso garantire che del menestrello di Duluth qua rimane assai poco, specie sul lato musicale. Lo si poteva percepire già in Nothing To It, il singolo uscito a fine agosto che sembra un ripescaggio di archivio dei Beatles di Sgt. Pepper's e che, no, non mi è piaciuto. Così come non mi sono piaciute alcune (poche) canzoni di Lost On The River, controbilanciate però da un buon numero di pezzi discreti e tavolta bellissimi. Perchè c'è poco da fare: quando ti ritrovi a scivolare dentro a brani cantanti da Rhiannon Giddens (Spanish Mary e Duncan&Jimmy), Goldsmith (Liberty Street) e Costello (Lost On The River #12), sai di essere immerso in qualcosa di comunque superiore alla media. E parrebbe davvero essere un mistero il modo in cui testi datati quali quelli di  Lost On The River trovano nuovo vigore grazie all'impagabile produzione di T Bone Burnett, che riesce a far andare d'accordo tutti offrendo un risultato finale omogeneo. Queste venti canzoni disseppellite dai libroni di liriche dylaniane suonano fluide, disponibili, intelligenti e curiose. Non ci sono dazi da pagare al pensiero unico della pop-music.
D'altronde, un roots-rocker stronzo e dylaniato come me non poteva non apprezzare un simile esperimento.

mercoledì 19 novembre 2014

Foo Fighters, "Sonic Highways" [Suggestioni uditive]

Foo Fighters,
Sonic Highways (RCA, 2014)

★★

















Ai fans iniziavano a mancare, mentre chi non li sopporta è già corso ai ripari: perchè i Foo Fighters sono tornati. Sorridenti, spiritosi, abbronzati e pieni di idee folli, irriverenti e costruite ad hoc per garantire un buon successo di critica e un grande consenso del pubblico. I nostri amici sono di nuovo a giro a suonare quello che i biografi definiscono post-grunge, ma si sa che i biografi scrivono tante cazzate e che l'ombra di quel grande genere ha abbandonato Dave Grohl e soci già dopo il secondo album, nel lontano 1997. Questo non ha di certo impedito alla band di togliersi molte soddisfazioni: basti pensare all'onestissimo rock alternativo di There Is Nothing Left To Lose (1999), al mega-successo di One By One (2002), alle morbide sonorità acustiche del doppio soporifero In Your Honor (2005), alle grandiose canzoni hard rock di Echoes, Silence, Patience And Grace (2007), che per chi scrive è stato forse il loro album migliore dopo l'omonimo debutto del 1995. A margine, trovano spazio grandi singoloni radiofonici, EP da dimenticare, live vuoti e autocelebrativi, serate unplugged inutilmente ricoperte di pasta zucchero, collaborazioni prestigiosissime e una passione rara e difficilmente rintracciabile in altri artisti del mainstream rock al momento.
Ma non sempre la passione può bastare, e il nuovo Sonic Highways lo dimostra, così come ribadisce un concetto ben più importante: a volte è necessario scindere le cose. Ad esempio, se da una parte abbiamo la straordinaria serie docu-televisiva Sonic Highways prodotta da Grohl per HBO (cinque delle otto puntate sono già in rete con i bramati "sub ita"), dall'altra troviamo un album dal titolo identico e dai medesimi intenti, ovvero tracciare una mappa della musica americana attraverso otto brani registrati in otto città diverse, presso otto studi diversi, con otto artisti ospiti diversi. Dobbiamo chiamare in causa il Bardo e citare il suo Much Ado About Nothing ("molto rumore per nulla")? In effetti, gli otto, lunghi brani che vanno a comporre il disco hanno ben poco di memorabile, ma possono fungere egregiamente come colonna sonora di sottfondo (magari per una serie televisiva...). E se il precedente, scarno e miserello Wasting Light (2011) aveva una miriade di difetti ma risultava essere, in tutto e per tutto, il frutto del processo creativo di una rock band, di Sonic Highways non si può dire altrettanto: qua troviamo soltanto un quadernino di scuola appartenente a Dave Grohl, con esercizi ben riusciti (Congregation o What Did I Do?/ God As My Witness) e altri che già al terzo ascolto diventano insopportabili. La produzione di Butch Vig (il tale che, nel 1991, produsse un certo Nevermind) è orchestrata bene, gli ospiti scelti con intelligenza e rigore (gradita sopresa la sei corde di Gary Clark, Jr., uno dei più grandi chitarristi emersi negli ultimi anni e del cui recente Live mi piacerebbe scrivere molte righe), l'artwork studiato fin nel più minimo dettaglio, ma ripeto: siamo di fronte ad una colonna sonora di cui presto ci dimenticheremo. E di serie tv altrettanto belle ma con una musica nettamente migliore il pubblico può trovarne molte altre.

lunedì 17 novembre 2014

La scuola più bella del mondo [Recensione]

Erano anni che aspettavo il momento per dirlo: Luca Miniero è uno degli uomini più spietati col cinema che il mondo ricordi. Tuttavia, dopo avere visto Benvenuti al sud e Benvenuti al nord, può apparire lecito domandarsi se siamo davvero giunti al capolinea. Ebbene no: Miniero sa andare anche oltre, come ci dimostra il suo La scuola più bella del mondo, ennesimo cineteatrino in cui i "poveri meridionali" devono mettersi in gioco per dimostrare che non sono da meno rispetto ai "cattivi settentrionali". Anzi, "centrali", nel caso di questo nuovo soggetto, ambientato in larga parte in una Toscana prosperosa, amena e ridente di cui, nella realtà di tutti i giorni, si è conservato ben poco. E' questo il paesaggio che fa da sfondo ad uno strampalato scambio culturale fra la mega-efficiente scuola locale e una "sgarrupata" (tutte le volte che uso questo termine mi torna alla mente Io speriamo che me la cavo, a cui Miniero offre più volte sentiti omaggi)  seconda media proveniente da Acerra. La prima è capitanata dal professionale e competitivo Filippo (De Sica), la seconda è accompagnata dall'alternativo e disilluso Gerardo (Papaleo). Ne deriva il caro, vecchio, classico film di merda che assesta un ulteriore colpo di grazia alla commedia popolare italiana peggiorandola ulteriormente. Perchè se è vero che i film di Vanzina e Parenti sono falsi, populisti, disonesti e idioti, è altrettanto vero che sono proprio questi i primi a rimanere parecchio sopra le righe, senza necessariamente sforzarsi di dover somigliare, a qualsiasi costo, alla realtà. Il cinepanettone incassa sfruttando l'ignoranza e la noia delle persone, mentre a Miniero interessa mettere in scena una commistione fra commedia leggera e film di denuncia sociale che tuttavia finisce con l'avere l'identico spessore di una puntata de I Cesaroni: la stupidità della trama qui non è più soltanto un ingrediente, ma un vero e proprio attributo concettuale.
Di film sul sistema-scuola in crisi eravamo pieni già alla fine degli anni '90, anche se all'epoca, probabilmente, non avevamo fatto ancora nulla di male per meritarci un inguardabile Rocco Papaleo che in classe ascolta i 99 Posse, limona Miriam Leone, dorme con un alano arlecchino, e di quando in quando diventa un cartone animato (a sua volta protagonista di gag talmente sceme, brutte e malgirate da rimanere spiazzati). Location bellissime (Radicofani, Montalcino, Bagno Vignoni) ma rovinate da una fotografia talmente piatta da rendere i vari posti indistinguibili fra di loro. Chi si ostina a tessere le lodi di Christian De Sica come attore non sta bene, così come chi continua a trarre giovamento dalla visione di film brutti, stupidi e deflagranti per il cervello come La scuola più bella del mondo

giovedì 13 novembre 2014

Dracula Untold [Recensione]

Esce l'ennesimo Dracula
Devo ancora riprendermi dal Dracula 3D di Argento, non sono preparato a sorbirmi un reboot fanta-horror ad alto budget (100 milioni di dollari) facente parte del filone dei "New-Horror Movies" targato Universal. Ormai so che è del tutto inutile confidare in un cinema horror classico e magari un po' più "povero" rispetto alla media: per carità, non pretendo un nuovo Murnau o un nuovo Coppola (per me, dopo il suo inimatibile Dracula di Bram Stoker, potevano davvero chiudere la famosa "baracca&burattini"), ma almeno un po' di decenza.
E invece no: non c'è limite alle cattive intenzioni e questo Dracula Untold fa ridere come non fa ridere nemmeno il nuovo film con Ficarra e Picone. Pensato per ragazzini che necessitano della loro dose di patinatura quotidiana e girato da cani da tale Gary Shores (neanche Wikipedia lo considera e forse neanche esiste), questo "epico" racconto sulle origini di Vlad l'impalatore ci presenta un Dracula ultra-cattolico (ci mancherebbe!), generoso come San Francesco e veramente pronto a tutto pur di scongiurare la minaccia islamica.
Dopo appena mezz'ora la noia regna incontrastata, il ritmo è fiacchissimo, non riesci ad affezionarti a nessun personaggio e la pellicola non rende nè come fantasy, nè come horror, nè come film storico. I cattivi sono cattivi perchè glielo hanno detto: Maometto II (D. Cooper) è un antagonista che va ben oltre i limiti del buon gusto. I buoni sono dei coglioni vestiti da ebeti e interpretati in maniera ridicola: lo stesso Vlad, divenuto Dracula, non riesce a mostrare alcuna implicazione psicologica nella propria crudeltà. In generale, il casting è pieno di attori fuori posto e scelte sbagliate, gli effetti speciali sono vergognosi e il finale sembra una parodia- scura ma poco vampiresca -de Il ritorno del re, oltre ad essere privo di qualsiasi senso di chiusura: il che fa pregiudicare un sequel.
Come il recente Frankenstein, anche Dracula Untold prende un cattivo per antonomasia della cultura letteraria e cinematografica e lo trasforma in un balocchino gradevole, facendolo muovere come un super-eroe in un mondo di super-eroi costruito con tanti quattrini. Il pubblico prende anche questo, ma solo perchè non ce la può fare. 

mercoledì 12 novembre 2014

Pink Floyd, "The Endless River" [Suggestioni uditive]


Pink Floyd, The Endless River 
(Parlophone/Columbia, 2014)
★★★½












Come The Division Bell (1994)- che lo precede temporalmente di vent'anni ma che gli risulta essere praticamente complementare -The Endless River, quindicesimo e definitivo album dei Pink Floyd, torna a svelare grandi segreti di vita e morte. Racconta di artisti, autori, sogni, musiche, immagini, eventi e oggetti a cui non siamo abituati, e questo crea disagio. Perchè il materiale contenuto qua dentro, pur essendo datato (le canzoni sono state scritte e registrate nel 1993, e solo di recente Gilmour e Mason sono tornati in studio per registrare di nuovo le parti di voce, chitarra e batteria, lasciando inalterate le incisioni del compianto Richard Wright, tastierista a cui l'album è esplicitamente dedicato), lascia spiazzati per la sua incantevole contemporaneità e per la capacità e l'eleganza con cui riesce a chiudere alcune porte lasciate aperte molto tempo fa. E non pensate di trovarvi di fronte al dischetto underground con qualche comoda pennellata di psichedelia qua e là in stile tardi anni Novanta o ancora peggio a del materiale free-download fighetto e vitellone da Nuovo Millennio, perchè i Pink Floyd hanno saputo attraversare tutto questo con grande disinvoltura e nonchalance. Dei diciotto brani del disco non ce ne è uno che strizzi l'occhio al conduttore di MTV o all'editor di qualche mensile spocchioso e logorroico. The Endless River, finemente prodotto da Gilmour assieme a Youth, Phil Manzanera (ex-Roxy Music) e Andy Jackson, è un disco progressive, sì, ma soprattutto ambient, praticamente privo di testi (come è giusto nei Pink Floyd orfani dei parolieri Barrett e Waters) e lontano da tutto quello che può essere comodamente definito fuffa.  Non sta piacendo perchè non c'è verso di udire neanche una strofa che alluda ai grandi temi socio-politici del dibattito culturale internazionale? Pazienza: il mondo della muscia è già pieno di rockstar ipocrite che si fanno fotografare con capi di stato peggiori di loro. Non sta piacendo perchè considerato troppo "difficile", "impegnativo" o- come ho letto in un commento su Facebook -"troppo prodotto"? I Pink Floyd realizzano dischi, non il "Bollettino del Dilettante". Avete tanti blog collettivi su cui ascoltare demo di qualche sconosciuto eroe che, potete scommetterci, dirà sempre di se stesso di essere un <<genio incompreso>> vantandosene pure. A parte lodare la saggia decisione di scegliere Louder Than Words come singolo di lancio, inutile stare a dire quale canzone è bella e quale lo è meno: The Endless River è a tutti gli effetti un disco dei Pink Floyd. E' un album da ascoltare per intero, dall'inizio alla fine, e forse funziona meglio proprio preso nella sua integrità che non pezzo per pezzo. Nettamente migliore dei due, mesti dischi dei terribili anni Ottanta, non ha nulla in più o in meno rispetto a The Division Bell

È tutto.

lunedì 10 novembre 2014

Boyhood [Recensione]

Autore di grande spessore, spesso trascurato ma mai trascurabile, il texano Richard Linklater è uno dei pochi registi americani contemporanei a vantare un curriculum composto quasi e soltanto da film meravigliosi: il bellissimo La vita è un sogno (1993), la trilogia Prima dell'alba (1995), Prima del tramonto (2004) e Before Midnight (2013), l'istruttivo cult School Of Rock (2003), il polemico finto-documentario Fast Food Nation (2006) o il magnifico e inosservato Bernie (2011) rappresentano solo una minima parte della carriera di questo instancabile, ardito, eccezionale regista, che è tornato al cinema con Boyhood, opera che gli è costata letteralmente 12 anni di lavoro. Di fatti, le riprese sono partite nel 2002 e si sono concuse solo nel 2014, e tutti gli attori del cast- attenzione -sono cresciuti di pari passo col film. Questo è quello che troverete scritto su tutti i giornali e questo è il motivo per cui tutti quei giornali vi consiglieranno di andarlo a vedere.
Ma c'è dell'altro. Perchè Boyhood non è solo un ambizioso esperimento formale che sta vivendo forse un momento di eccessiva sopravvalutazione (non che sia un male, visto che preferisco di gran lunga sapere sopravvalutato Linklater rispetto ad un episodio qualsiasi della saga Fast And Furious), ma un vero e proprio bildungsroman, narrato da e con gli occhi di Mason (E. Coltrane), un bambino che diventa ragazzo e che finisce col raccontarci non solo le (dis)avventure sue, di sua madre (una Patricia Arquette brava e affettuosa che ingrassa a vista d'occhio), di sua sorella (L. Linklater, figlia del regista) e di suo padre (il grande Ethan Hawke), ma una sorta di unico, grande saggio sull'America degli ultimi dodici anni, e non di certo simile a come la racconterebbero tutti. Un film dove si sbagliano mariti, ci si lascia e non ci si riprende; un film che insegna che in certi posti nel mondo la società ci suggerisce di essere comunisti a vent'anni, anarchici a trenta, conservatori a cinquanta e che fino a quando bambini di sette anni giureranno fedeltà ad una certa bandiera e ad un certo Dio il mondo non sarà poi il posto migliore dell'universo dove vivere; un film che parla di vita e amore e che insegna quanto possano risultare effimeri il tempo, l'amore, la felicità e, per fortuna, anche il dolore: e i personaggi di Boyhood, sorprendentemente simili a personaggi della vita reale, questo sembrano impararlo bene, ed è forse l'insegnamento più grande che Mason trae quando il film finisce, anzi, si interrompe, con una persona nuova di cui innamorarsi e un tramonto del Sud talmente bello da sembrare eterno. I detestabili Arcade Fire intonano Deep Blue, una delle loro nenie tutte uguali, ma a me torna in mente un'altra canzone del film, quella in cui Dylan dice "Beyond the horizon, behind the sun/ At the end of the rainbow life has only begun/ In the long hours of twilight ‘neath the stardust above/ Beyond the horizon it is easy to love".  Ed è proprio quello che penso: Linklater ci ha portati, per quasi tre ore, ben oltre gli orizzonti emotivi (e anche artistici) a cui la nostra epoca ci ha abituati e se è vero che non necessariamente la verità aiuta a capire meglio le cose, quella presente in Boyhood, anche se solo per un momento, sembra potercela fare. 

sabato 8 novembre 2014

The Marshall Tucker Band, "Live! Englishtown, NJ September 3, 1977" [Suggestioni uditive]

The Marshall Tucker Band,
Live! Englishtown, NJ September 3, 1977
(Ramblin'Records, 2014)
★★★★














Dopo gli Allman della Allman Brothers Band e i Van Zant dei Lynyrd Skynyrd, i fratelli Toy e Tony Caldwell del South Carolina hanno rappresentato, con la loro Marshall Tucker Band, il terzo complesso più prestigioso e importante della storia del southern rock. Buona parte del merito va alla straordinaria tecnica pickin' di Toy, che, accompagnato dalla sua Les Paul e dal suo inseparabile cappellone, ci ha regalato grandi pagine di musica; ma anche la voce morbida e country di Doug Gray e il flauto jazz di Jerry Eubanks hanno giocato un ruolo fondamentale nel plasmare e affermare un sound più soft di quello dei Lynyrd (con cui i fratelli Caldwell condividono, in maniera forse ancor più accentuata, gli ideali conservatori e la volontà di raccontare un sud fieramente ancorato al passato) e più orientato al country-western anche rispetto agli Allman della fase Dickey Betts (quelli di Brothers And Sisters, per intenderci). E così, ecco nascere una musica polverosa ma pure pulita, semplice nei testi ma profondamente innovativa e alternativa nella forma, in grado di richiamare alla mente attacchi degli indiani alle diligenze così come romantici, solitari bivacchi sotto le stelle. 
La capacità di sfornare dischi belli (se non bellissimi) della MTB non conosce ostacoli per almeno un quinquennio: dall'esordio omonimo, nel 1973, fino al già più discusso e "accomodato" Together Forever (1978), è difficile trovare un neo nell'attività in studio dei fratelli Caldwell, spesso intenti a scalare le posizioni più alte delle classifiche nazionali e ad organizzare- sempre supportati dalla leggendaria Capricorn Records -tour lunghi e imponenti. Ed è in questa epoca magica e irripetibile che va ad iscriversi il leggendario concerto tenuto al Raceway Park di Englishtwon il 3 settembre 1977, coi Marshall come headliners di una dodici ore che avrebbe visto succedersi sul palco, fra gli altri, i sudisti Sea Level, i New Riders Of The Purple Sage e i ben più noti Grateful Dead. Gli Allman sono momentaneamente sciolti, mentre la tragedia aerea del 20 ottobre in cui sarebbero periti tre quarti degli originali Lynyrd Skynyrd per ora è solo una minaccia invisibile che si staglia lontana all'orizzonte: per i Marshall è il momento di massimo splendore e popolarità. Il southern rock è forse al suo apice come genere, e questo paesino del New Jersey- che non arriva neanche a mille abitanti -si ritrova ad accogliere gli ultimi hippies della East Coast e orde di selvaggi cowboys venuti da sud per vedere trionfare la band dei fratelli Caldwell. Quale occasione migliore, per la MTB, di sfoderare i migliori pezzi tratti da quelli che la Storia avrebbe fatto risultare i loro capolavori assoluti? E se la lunga "jammatissima" Never Trust A Stranger non convince proprio a pieno, ci pensa la meravigliosa, potente Searchin'For A Rainbow ad aprire maestosamente questo bel live. Da questo momento in poi ci aspetta un'ora di canzoni fenomenali suonate con un estro e una capacità di improvvisazione insospettabili, specie se si pensa che le uniche testimonianze dal vivo della MTB sono iniziate a fioccare in tempi relativamente recenti (nel 2006 Doug Gray dette alle stampe il doppio Live On Long Island, contenente un concerto del 1980, fra gli ultimi registrati con Toy come frontman) e che la massiccia attività in studio dei nostri ha finito con l'adombrare quella concertistica. La fa da padrone il flauto di Eubanks in Heard It In A Love Song, mentre il pubblico esplode beatamente di fronte ai singoli di maggior successo dell'epoca, cioè la spedita Take The Highway e l'eterna Fire On The Mountain. Una delle sorprese maggiormente gradite è In My Own Way, un pezzo dei meno noti del catalogo MTB tratto dai solchi del doppio, graffiante Where We All Belong (1974), qui suonato con una mano (ma sarebbe più corretto dire con un pollice) divina da Toy Caldwell. Si va avanti di hit in hit, fino ad una chilometrica 24 Hours At Time, che coi suoi quattordici minuti risulta essere il brano più lungo del disco. La performance sembra finita, ma ecco che il flauto torna a risuonare qualche sparuta nota, modulando una bella introduzione a Can't You See, la Free Bird (o la Starway To Heaven) della MTB che non può che chiudere in maniera più degna un trionfo quale è Live! Englishtown
Senza ombra di dubbio ci troviamo di fronte alla migliore performance dal vivo della band del South Carolina, un mezzo capolavoro che aveva circolato in qualche bootleg di bassa lega (alcune tracce sono udibili anche su YouTube) e che ora trova finalmente una degna masterizzazione. Non potrà mancare nelle collezioni dei rocker sudisti più sfegatati, ovviamente, ma per chi non li conosce potrebbe essere- complice anche un prezzo abbordabile -il miglior mezzo con cui avvicinarsi ad una grandissima band, qua colta veramente all'apice della propria espressione artistica e professionale.

venerdì 7 novembre 2014

Interstellar [Recensione]

Se un film di Cristopher Nolan in lavorazione da sette anni viene accolto con lo sdegno e la freddezza che il pubblico e la critica gli stanno riservando un po' ovunque, vuol dire davvero che la fine del mondo è vicina. Per carità, bene che anche i critici di professione- e non chi, come me, dice la sua e ragiona tramite un blog -abbandonino un po' il "nerdismo" che li contraddistingue in questi ultimi anni e si preoccupino di fornire ai lettori strumenti con cui giudicare in modo più obiettivo possibile un film. Allo stesso tempo, bene che anche i fans (duri come lecci) di miliardari vestiti da pipistrello, criminali simili a Beppe Grillo, labirinti mentali e cloni ottocenteschi si dotino di un pensiero proprio e assumano una posizione critica nei confronti dell'ultima, ambiziosa fatica del loro pupillo. Tuttavia, questo inatteso cambio di rotta nel rilasciare giudizi sul bravissimo e celebre regista inglese mi trova impreparato, e in tutta sincerità non me la sento di condividerlo, forse perchè- contrariamente al 90% degli spettatori -non mi aspetto il nuovo 2001 da ogni film di fantascienza che esce nei cinema. State tranquilli, rimanete nelle vostre case: 2001 è lassù, in cima a tutto, nessuno gli dà noia. La fantascienza di Kubrick, impareggiabile e fondamentalmente inumana, non è la stessa di Tarkovskij, Scott, Jones, Blomkamp, Cuaròn, Boyle: perciò, perchè quella di Nolan deve somigliarle per forza? Domandatelo a chi, in questi giorni, non riesce a scrivere una recensione o anche solo a tracciare un profilo del film, senza ricorrere a questo futile paragone: magari vi risponderà.
Detto questo, Interstellar è una pellicola (più precisamente una pellicola 70 mm IMAX che a noi puristi innamorati di Scorsese, Tarantino e Abrams piace tanto) sci-fi solo in seconda istanza: per prima cosa, è un melò hollywoodiano d'altri tempi, un dramma ad alto budget gestito come meglio non si poteva, almeno sul lato tecnico. Perchè si può dire quello che si vuole a Nolan, ma non di certo che non sia uno dei registi più dotati in circolazione, e bastano quattro riprese di Interstellar a dimostrarlo. In compenso, questa dote viene a mancare in sede di sceneggiatura (non è un caso che i suoi film siano quasi sempre scritti da o con il più bravo fratello Jonathan), e in questo senso Interstellar un po' risente di certe mancanze: buchetti, facilonerie, dialoghi a volte scialbi, alcuni personaggi troppo quadrati. Inoltre, la storia di un padre (un Matthew McConaughey formidabile come al solito) che lascia i due figli (interpretati, da adulti, dai bravi Jessica Chastain e Casey Affleck) per affrontare il viaggio interstellare non è il massimo dell'originalità, alcuni concetti fisici (il film è ispirato da un saggio dell'astrofisico Kip Thorne, coinvolto anche come co-produttore) e drammatici potranno apparire banalizzati e standardizzati (e in alcuni casi lo sono eccome), e delle venti cose di cui Nolan vorrebbe parlare (fra le tante, la percezione del tempo e dello spazio, i danni del surriscaldamento globale, la possibilità di viaggiare attraverso i wormholes, il rapporto fra un padre vedovo e una figlia bisognosa di amore e attenzioni, l'esistenza di dimensioni parallele, il ritorno alla civiltà agricola, l'amore che trascende le leggi dell'universo, la messa in discussione delle leggi di gravità, i limiti dell'istinto di sopravvivenza) è tanto se riesce a portarne a termine due. Ma è l'esperienza cinematografica in sè, qua, ad avere la meglio su trama, personaggi e contenuti. La corsa in macchina attraverso i campi di pannocchie è epica esattamente quanto il countdown mandato in fuori campo mentre il protagonista lascia la sua casa e la sua famiglia, l'entrata nel wormhole fa restare a bocca aperta così come la galoppante, tragica corsa verso l'ignoto (quasi) finale. Le scelte stilistiche, interpretative, registiche e musicali (Hans Zimmer dà sempre il meglio per Nolan, e si sente) di Interstellar sono tutte azzeccate.
Perciò, è inevitabile che allo spettatore più dotato di materia grigia rimarranno, alla fine dei 169 minuti di durata, alcuni quesiti: ad esempio, il film poteva risultare migliore se privato di una certa retorica americana sbavona? O ancora: davvero il regista crede in un'idea così antropocentrica dell'universo (un'idea, a detta di chi scrive, arrogante, anti-scientifica e con la quale non sono d'accordo neanche un po', ma che neanche impedisce di godersi il film)? E poi, il finale non è ciò che sembra (per fortuna!), ma Nolan a questo ci ha abituati già ai tempi di Inception (2010) e ha riutilizzato un espediente simile anche ne Il cavaliere oscuro- Il ritorno (2012): tuttavia, da spettatore e appassionato, voglio essere sincero e dire che a me questa storia dei finali aperti finisce col sembrarmi una comoda vigliaccata. Ma a Nolan piacciono i soldi (come dargli torto, del resto?) ed è furbo e talentuoso come pochi, per cui non ha mai mancato di accettare patti e costrizioni tipici delle opere su commissione, fra cui uno dei più azzeccati mai concepiti ad Hollywood: <<Lasciamo il finale aperto, è la cosa più democratica e nessuno in sala si sentirà offeso>>.
In conclusione e a prescindere dai difetti, Interstellar è un film da vedere e pure rivedere, interessante e coinvolgente, bellissimo e riuscito da una parte, pieno di occasioni mancate e banalità spielberghiane dall'altra. Rassicura critica e pubblico sul fatto che Nolan non è il genio che tutti decantano e che i suoi film continuano a risultare meno complessi di quanto l'apparenza (e la pubblicità) possa suggerire.  Rimarrà comunque il migliore sci-fi del 2014 e un blockbuster dall'ottima funzionalità, convincente, curato fin nei più minimi dettagli e girato in maniera incredibile, ma finirà col piacere comunque meno degli ultimi film dell'autore. Da parte mia, posso aggiungere che l'ho gradito più de Il cavaliere oscuro- Il ritorno e che ora più che mai da Nolan mi aspetto un film diverso, dove l'autore si erga veramente al di sopra della produzione e non ricerchi soltanto il compiacimento del pubblico e la lacrima facile. Sempre ammesso che lui ne abbia voglia.


martedì 4 novembre 2014

Confusi e felici [Recensione]

Apro la recensione dicendo subito che Confusi e felici è un film bellino. Chi si aspettava l'ennesima stroncatura della commediola italiana media (e le premesse per risultare tale Confusi e felici potrebbe averle anche tutte) resterà deluso.
L'analista Marcello (Bisio), professionista affermato e single, entra in depressione non appena scopre di soffrire di una rara patologia agli occhi che lo porterà, entro breve, ad uno stato di cecità totale. Sconsolato e in preda a manie suicide, decide di abbandonare la professione, ma gli verrà impedito dai suoi stessi pazienti.
Ora, a parte che una squadra di casi umani simili non si vedeva dai tempi di Harry a pezzi, la nuova commedia di Massimiliano Bruno, qui giunto alla sua terza opera cinematografica, riesce a cogliere tutta una serie di piccole sfumature che, amalgamate, vanno a comporre un'opera precisa e intelligente. Cadere nel buonismo più ridicolo era un rischio latente, visto il soggetto del film, ma in realtà tutto finisce col funzionare, anche laddove si annida il dialogo melenso e la battuta banalotta: dalla straordinaria coppia in crisi (per cause "virtuali") di Betta (Caterina Guzzanti) ed Enrico (Pietro Sermonti) alle epiche gesta del pusher dal cuore d'oro Nazareno (il grande Giallini), passando per l'autista Pasquale (interpretato dallo stesso regista) che soffre della sindrome di Peter Pan, per la ninfomane tardona e incallita Vitaliana (Minaccioni) e per un indimenticabile Rocco Papaleo, istrione fuori di testa come non mai. Come già detto, una certa faciloneria italica fa capolino qua e là, fra mamme possessive che muoiono e creature innocenti che vengono al mondo, ma tutto viene perdonato quando si ha un finale tutt'altro che comico.
Compiendo passi giganteschi rispetto ai suoi due film precedenti, Bruno gira un film che perfetto non è, ma che non suona neanche falso come una moneta bucata: la sua Roma è una capitale per nulla patinata, povera e non baciata dall'italian dream della Leopolda, la forza comica e la lucidità con cui descrive le illusioni e i tonfi di questa schiera di personaggi lo rendono uno dei pochi commediografi originali in circolazione. Almeno al momento.