lunedì 29 dicembre 2014

Sam Peckinpah e le storie che fermano il tempo [Ombre elettriche]

In memoria di Sam Peckinpah (1925-1984)
La festa di capodanno del 31 dicembre 2004 fu l'ultima che passai coi miei genitori. 
Eravamo a cena da amici che avevano un figlio di un anno inferiore a me: lui faceva prima liceo scientifico, io quinta ginnasio, lui aveva buoni voti, io no e a tavola si parlava molto di scuola, docenti, materie di studio, compiti per le vacanze. In televisione, Ciampi annunciava che il nostro paese avrebbe destinato settanta milioni di euro alle popolazioni colpite dal terribile Tsunami del 26 dicembre. Il discorso del presidente lasciò spazio ai conti alla rovescia cialtroni di RAI 1 e Canale 5, che se la giocavano a colpi di share, mentre i primi cellulari a colori vibravano senza tregua a causa dell'ingente flusso di catene di Sant'Antonio e messaggi di auguri per un felice 2005. E mentre i tappi di sughero saltavano via dalle bottiglie di spumante dolce, io fissavo il mio Swatch nuovo di pochi giorni e pensavo che, in quello stesso istante, il videoregistratore di casa mia stava facendo partire la registrazione di due capolavori di fila: L'arpa birmana di Ichikawa e Pat Garrett & Billy The Kid di Peckinpah, entrambi in onda su La7.
Al mattino seguente, mi svegliai tardi come è giusto fare ogni primo dell'anno che si rispetti e mi precipitai in sala a controllare che tutto fosse andato per il verso giusto. Era la prima volta che la televisione italiana passava la versione non censurata di Pat Garrett & Billy The Kid, quella di due ore e quattro minuti, ed era la prima volta che io- già allora consumato cinefilo -vedevo un film del genere. Fu un bel modo di entrare nel 2005, accompagnato da Dylan che cantava Billy e la Band che lo accompagnava, e nel mezzo amici che sono costretti a spararsi ma non vorrebbero, ladri di bestiame e politici affaristi, pistoleri che non sono bravi a contare e le lacrime, incontrollabili, che sgorgano fin da dentro l'anima di fronte alla scena in cui il vecchio sceriffo bussa alla porta del Paradiso.  Da qui iniziò una caccia senza quartiere a tutto quello che riguardava Sam Peckinpah. Lessi avidamente la lunga intervista uscita su Playboy nel 1972 e quelle rilasciate ad Assays per i Cahiers, così come per mesi non tolsi dal comodino il Castoro di Valerio Caprara, una monografia coraggiosa e incompleta (si trattava della prima edizione, uscita nel 1974, quando il maestro era sempre in vita) sul cui retrocopertina trovava spazio una foto del regista intento a mimare una scena con tanto di bandana in testa e camicia di jeans stropicciata: guardavo quella faccia spigolosa, irriverente e al contempo malinconica, ed era come guardarmi allo specchio.  Quando poi presi in prestito in biblioteca la videocassetta di Getaway!, capii che scappare con una valigia piena di soldi e la ragazza che ami armato solo di un fucile a pompa e dei tuoi sogni è tutto ciò che conta davvero nella vita.
Imparai questi film a memoria, ogni inquadratura, ogni dialogo; erano trame scritte senza filtri e senza veli con protagonisti persone che avevano perso tutto, narrate con la voce dei fuorilegge, dei rebels without cause, dei sognatori disillusi a cui però venivano riconsegnati dignità, rispetto e anche un po' di speranza. Nessuno dopo Peckinpah è più riuscito a raccontare quei temi con quella violenza primordiale e disarmante e quel romanticismo crepuscolare, perchè certe cose non saltano fuori dal nulla, ma abitano dentro a chi un giorno dovrà raccontarle e magari, nel farlo, avrà pure un prezzo da pagare. Quel prezzo, nel caso di Peckinpah, fu di morire a sessantuno anni solo, povero, distrutto da droghe e alcool, tormentato da avvocati e debitori e ormai totalmente abbandonato dall'industria cinematografica.
Successivamente, complice il palinsesto "datato" di Rete4, recuperai i primi western del regista: Sfida nell'alta Sierra mi piacque, La morte cavalca a Rio Bravo e Sierra Charriba un po' meno, anche perchè si avvertiva l'ombra invisibile ma gravosa della censura. Del resto, i produttori sono stati i più grandi nemici di Peckinpah: hanno dato freno ad un talento che non aveva limiti. Oltre ad avergli letteralmente rovinato la vita, gli tolsero di mano soggetti e sceneggiature prestigiose (sia Cincinnati Kid che L'imperatore del nord dovevano essere diretti da lui), gli impedirono di lavorare, gli mutilarono fino alla fine (Osterman Weekend circola da soli dieci anni nella formula voluta dal regista) le sue creature predilette.
Con l'acquisto del primo lettore DVD cambiarono molte cose, e con Cane di paglia mi trovai di fronte ad un Peckinpah molto diverso, ancora più oscuro e nichilista nei contenuti e perfettamente a suo agio in una produzione europea che aveva però, come protagonista, una super-star americana del calibro di Dustin Hoffman. Mentre tutti i film che avevo già visto potevano essere letti in almeno due modi diversi, questo no: dall'inizio alla fine, era un'opera disperata, nera, senza speranza. Ed era quella stessa disperazione, quel senso del non avere più nulla da perdere, a portare Pike Bishop e i suoi amici ad abbracciare la morte nel finale de Il mucchio selvaggio, il film di Peckinpah più famoso, amato e mitologizzato. Ricordo che il giorno dopo averlo visto corsi a cercare la locandina e la appesi all'armadio di camera, dove è stata fino a poco tempo fa: quelli erano i miei eroi, quello era ciò che volevo che il cinema fosse in grado di restituirmi. L'edizione director's cut (145 minuti) de Il mucchio selvaggio riassumeva al suo interno la formula dell'intera opera di Peckinpah, quella secondo cui un film doveva rappresentare sempre un'esperienza intensa, un qualcosa che non fornisse allo spettatore la possibilità di distrarsi. E' andata sempre così, perfino nel caso de La ballata di Cable Hogue, un flop clamoroso (anche se ben accolto dalla critica europea) che Peckinpah si ostinava a definire, divertito, il suo film migliore. Non me la sono mai sentita di dargli ragione, ma da subito vidi in Cable Hogue le qualità di un'opera ispirata e in grado di fondere perfettamente due distinti aspetti della poetica western, quello della caducità umana e della crudezza fisica e quello dell'importanza degli affetti e del cameratismo: ne derivava una tragicommedia di frontiera, ruvida, liberatoria e costruita sulla bravura di Jason Robards e sull'idilliaca fotografia di Lucien Ballard, più che mai perfetta per esorcizzare i demoni che già stavano ronzando attorno a Peckinpah all'inizio degli anni '70. Iniziava allora, infatti, ad essere l'uomo rude, vizioso e scontroso che sarebbe stato fino alla morte. Sempre con la valigia in mano, perennemente ubriaco e impasticcato, si rifugiava per lunghi periodi in Messico, ospite di qualche puttana o dell'amico attore Emilio Fernàndez. L'ultimo buscadero nacque in questo contesto e Peckinpah riuscì a riversare, in un soggettino standard da dramma contemporaneo, tutta la sua visione del mondo e delle cose e tutto il suo odio verso il sistema che aveva sgretolato la dimensione del suo passato, e cioè la prateria selvaggia e indomata. Come ne Il temerario (1952) di Nicholas Ray- al quale L'ultimo buscadero mi somigliò fin dalla prima volta che lo vidi -tutto stava nelle mani di un immenso protagonista (in questo caso, Steve McQueen), uno di quelli che in ogni inquadratura andrebbero fermati, fotografati e incorniciati sopra il letto, quasi volessimo che a vegliare su di noi non fosse qualche rassicurante icona sacra ma un desperado pagano e senza Dio.
Lo stesso genere di persona risultava essere il Bennie (Warren Oates, compagno di sbronze del maestro) protagonista di Voglio la testa di Garcia, capolavoro della maturità, unico film su cui godette del final cut ed ennesima pellicola da studiare a scuola e nella vita. Come in tutta la produzione post-Pat Garrett, Peckinpah si muoveva già sulle ceneri della propria arte e del mondo che aveva tentato di raccontare. La troupe si trovava in Messico,  c'erano fondi per meno di due mesi di riprese (se raffrontato alla quantità di tempo impiegato a girarlo, il risultato è ulteriormente stupefacente) e il regista decise di non gravare ulteriormente sulle spese alimentari: di fatti, come racconta la sua segretaria e assistente Katy Haber, per tutta la lavorazione del film Peckinpah non mangiò praticamente mai e portò avanti una dieta ferrea fatta di psicofarmaci, integratori e vodka. Molti anni dopo, persone come Tarantino, Rodriguez e perfino Tommy Lee Jones (Le tre sepolture) si sarebbero ricordate di Voglio la testa di Gracia, mentre, all'indomani della sua uscita, il Wall Street Journal consigliava a Peckinpah di ricorrere a un analista. Quell'articolo, perfettamente rintracciabile ancora oggi, desta dei simpatici risolini (specie a fronte dell'enorme rivalutazione ottenuta dal film), ma soprattutto fa capire quanto la critica americana non fosse assolutamente in grado di mettere a fuoco il livello a cui ormai Peckinpah aveva portato la propria poetica. E Voglio la testa di Garcia andrebbe visto davvero come il film della maturità, quello in cui saggezza ed esperienza riescono a bilanciare riflessione e rabbia, istinto e ragione.
Cosa ci fu dopo? Molto altro, tante belle cose e tanti fallimenti. Per cominciare, nel 1975, uscì Killer Elite, il suo undicesimo film e il primo girato in un abbandono pressochè totale. A parte James Caan e Robert Duvall, tutto il cast era composto da interpreti di serie B, C, D, Z. I pochi soldi investiti dalla United Artists servirono più che altro a pagare i coreografi e i maestri d'armi e la sceneggiatura fu gestita esclusivamente "da terzi". Dopo Garcia nessuno credeva in Peckinpah, nessuno voleva dargli lavoro e denaro, neanche i rivoluzionari astri nascenti della New-Hollywood che avevano amato i suoi western degli anni '60 e che tanto gli dovevano in termine di ispirazione e insegnamenti. Le sue cattive abitudini e il suo anticonformismo cozzavano con idee e gusti del pubblico molto diversi. Malato, povero in canna e spossato dalla massiccia dose di ipocrisia e meschinità (oltre che di intolleranza) somministratagli dallo star-system hollywoodiano, decise di tornare a lavorare in Europa. Scelse il romanzo Das Geduldiche Fleisch di Willi Einrich come soggetto per il suo primo (e unico) war-movie.
La croce di ferro uscì nel 1977 e destò pochi clamori: un vero peccato per un film girato benissimo che ancora oggi è in grado di meravigliare per la propria modernità e di rivaleggiare, da solo, con una buona fetta dei film sulla Seconda Guerra Mondiale girati negli ultimi trent'anni. Da parte sua, Peckinpah pretese soltanto che nei panni del protagonista ci fosse James Coburn; le restanti scelte dipesero dalle direttive dalla EMI Films e dal produttore Wolf C. Hartwig, che provvedette a tagliare una decina di minuti di pellicola senza però arrecare troppi danni alla versione finale. E fu sempre grazie alla EMI che Peckinpah potè dirigere Convoy (1978), il film con cui tornò a guadagnare cifre che non vedeva dai tempi di Cane di paglia e Getaway! e che gli permise di lavorare ancora con vecchi amici quali Kris Kristofferson, Ali McGraw, Ernest Borgnine e James Coburn (qui misteriosamente coinvolto non come attore ma come 2nd unit director e compagno di sbornie).
Solo un talento di prima grandezza come quello di Peckinpah poteva riuscire a tirare fuori da un qualunque chase-movie un cult della fattura di Convoy, dove la lotta per la totale indipendenza del singolo diventava azione collettiva contro il potere costituito, strumentalizzata dai media malvagi (la televisione) e promossa positivamente da quelli buoni (la radio). Chi meno di dieci anni prima lo aveva bollato come fascista e misogino, nel 1978 lo promosse a simbolo di una nuova ribellione giovanile, quasi un profeta antesignano dell'America Blue Collar, ma al maestro queste cose interessavano poco. Il terzo matrimonio stava naufragando, la cocaina regnava sovrana, ma Peckinpah non sbandierava i suoi vizi sui giornaletti di gossip: non ne avvertiva il bisogno, erano drammi dolorosi, personali e nulla avevano a che spartire con i suoi film, sempre superlativi e all'altezza del loro autore. Tuttavia, chi si trovava a frequentare il regista sul finire degli anni '70 poteva assistere ad un declino psicofisico inarrestabile. Pallido, emaciato, totalmente assorbito da bottiglie di whisky e sigarette, Peckinpah si ritrovò a soffrire di paranoia e crisi maniaco-depressive che ne compromisero definitivamente la carriera. E fu così che, braccato da avvocati, agenti aguzzini, ex-mogli furiose e produttori ingrati, lasciò la natia California e riparò a Livingston, Montana, dove affittò in pianta stabile una stanza al caratteristico Murray Hotel. Da lì iniziò un suo tormentato e oscuro (e non si sa quanto effettivamente riuscito) periodo di disintossicazione, che egli dichiarò concluso solo nel 1983, quando tornò al cinema con Osterman Weekend, il thriller spionistico con cui prevedeva di aprire una nuova fase della propria carriera ma che sarebbe stato il suo quattordicesimo e ultimo film.
La hall del Murray Hotel di Livingston (Montana)
Fu il vecchio mentore Don Siegel a vestire i panni del Deus ex-machina nell'opera di convincimento dei produttori della 20th Century Fox. Nell'estate del 1981 aveva reclutato Peckinpah come direttore della seconda unità di Jinxed! e aveva dimostrato che il regista era perfettamente in grado di stare dietro la macchina da presa. Peter S. Davis e William Panzer, pur diffidando, fecero recapitare a Peckinpah l'adattamento del romanzo The Osterman Weekend di Robert Ludlum: il maestro definì "merda" sia il libro che la sceneggiatura di Alan Sharp e si offrì di riscriverla. Ovviamente, gli fu negata anche questa possibilità, ed egli si limitò a richiedere la totale libertà sul montaggio, arrivando a rispettare perfettamente tempi e budget. Rutger Hauer, Burt Lancaster, Dennis Hopper e le altre star chiamate a vestire i panni dei personaggi di questo film intricato e inquietante si dicevano soddisfatte del risultato, mentre Peckinpah ricominciava a fare capolino sia in televisione che sulle riviste di cinema. Aveva preso peso, era incazzato con i produttori che gli avevano fatto a pezzi Osterman Weekend e raccontava i preparativi di un film scritto da Stephen King e intitolato The Shotgunners (anni dopo, quella sceneggiatura sarebbe divenuta I vendicatori). Per il resto, il film era nelle sale ma ci sarebbe rimasto poco, trattato come un b-movie antisovietico qualsiasi. I problemi sociali e caratteriali di Peckinpah erano noti, Osterman Weekend non era un capolavoro, ma l'abbandono dell'alcool e delle droghe e qualche progetto all'orizzonte rappresentavano, all'epoca, il sereno dopo la tempesta.
Le sue ultime prove registiche furono un paio di video di Julian Lennon (Valotte e Too Late For Goodbyes, presentati anche agli MTV Video Awards 1985), straordinariamente affini al cinema di cui parlava negli ultimi tempi: inquadrature secche, asciutte, potenti e sempre al servizio di un soggetto semplice. Non è un caso che Walter Hill, amico di Peckinpah e sceneggiatore di Getaway!, fosse in quei primi anni '80 l'unico in grado di portare il western oltre la zona del crepuscolo a cui era giunto il maestro con Pat Garrett & Billy The Kid. Stando a un paio di testimonianze, pare che "Bloody Sam" (così lo chiamavano ormai) avesse visto e amato I cavalieri dalle lunghe ombre (1980) di Hill, che fondamentalmente è rimasto l'unico vero capolavoro del genere girato nel decennio della plastica e del sintetico. Forse è stato quello l'ultimo film dove Peckinpah, prima di venire a mancare il 28 dicembre 1984, ha intravisto sia una forma del proprio lascito che un ricordo delle origini: la frontiera era la sua vera casa, e lui la visse, come uomo e come artista, nella sua essenza più profonda. Era un westerner che affermava di girare "commedie morali" (agli antipodi c'era John Ford che apriva le interviste con la frase ad effetto <<Mi chiamo John Ford e faccio western>>) e lo faceva senza perdersi in fronzoli. Poteva essere fatto e ubriaco, ma sul set era concentrato come nessun altro, motivato, impegnato a raccontare storie di vecchi amici, fuorilegge, tempi duri e delusioni. Le storie di amore erano sempre storie di violenza, e il Peckinpah degli ultimi anni finì per somigliare straordinariamente molto al Pike Bishop de Il mucchio selvaggio: era un bandito vittima del tempo che passa, un hobo moderno che aveva vissuto il passaggio dalla ruralità alla metropolitanità e che lottava con tutto se stesso per risultare sempre un non allineato. Imitare gli stili del passato non era nel suo interesse; preferiva rivoltare i generi vecchi e fare cose nuove (di questo parlava, a conti fatti, anche Osterman Weekend, dove tutto è iper-tecnologico). Si guardava alle spalle, ma lo faceva solo per sopravvivere ad un presente fatto di soprusi, prepotenze e ingiustizie.
Sono passati esattamente trent'anni da quando se ne è andato Sam Peckinpah: il sangue, il sudore e la polvere da sparo sono ancora là. Ha girato quattordici film. Guardandone uno al giorno, bastano due settimane per avere la panoramica completa della sua produzione. Come nel caso di pochissimi altri artisti, me la sento di consigliare la sua opera omnia a prescindere.


domenica 28 dicembre 2014

[Classifica] Il mio 2014 in 10 dischi (e pochi più)

PREMESSA

Ricorderò il 2014 come un anno di grandi concerti a cui avrei voluto assistere. Dagli Iron Maiden a Bologna agli Skid Row a Cascina (PI), dai Gov't Mule a Bagnolo in Piemonte (concerto mancato davvero per un pelo) a Robert Plant & Sensational Space Shifters a Pistoia, dai Pearl Jam a Trieste agli ZZ Top a Milano. E poi ancora quel gigantesco David Crosby, che con la sua chitarra acustica ha "cullato" Lucca appena due settimane fa, la bravissima Sharon Van Etten che è passata da Bologna ora di fresco, Steve Earle che era a qualche festival estivo di cui ora mi sfugge il nome. Insomma, tutto potrebbe far presagire ad un 2014 fatto di pentimenti, rimpianti e amerezze: ma non è stato così.
Del resto, ho un'idea estremamente popolare della musica e ritengo offensive le cifre che molti degli artisti citati sopra (o chi per loro) propongono per essere visti: attenzione, non è una questione di merito, anche perchè andare a sentire gli One Direction può costare molto di più di un concerto dei Metallica. Perciò, non mi mangio le mani- almeno generalmente -a non avere assistito a qualche "concertone" da stadio in cui la mia band del cuore è coperta da cori da stadio e praticamente invisibile ai miei occhi: anche in questo caso, i rimpianti li destino ad altri settori.
A chi durante l'anno si è agitato leggendo certe mie recensioni di musica, posso solo consigliare di rilassarsi. Primo, non devo rendere conto a nessuno di quello che ascolto e di quello che scelgo da recensire. Secondo, sono il primo a sapere che, in fatto di musica rock, tutto quello che si poteva fare è stato fatto; ma sono anche il primo a definire imbecille il ritornello che va di moda da una decina d'anni e che recita <<Il rock è morto!>>. A morire sono gli artisti (l'ultimo famosissimo, in ordine di tempo, è stato Joe Cocker), in quanto esseri umani finiti e mortali, e tanti, troppi appassionati "invisibili". Gente che non ha blog, non scrive su riviste, non lavora nel mercato discografico ma che si intende di musica. La segue, la ama, la ascolta, la compra, la scarica, non affibbia etichette idiote, non parla per slogan insulsi, non si ferma alle apparenze, non si limita a dire che un determinato genere fa schifo solo perchè su RTL 102.5 gli unici pezzi rock che passano sono dei Coldplay. E' vero che le scarse vendite dei dischi non sono solo dovute a motivazioni economiche e sociali, ma  anche ad una vera e propria perdita di qualità nell'offerta musicale globale: tuttavia, da qui a dire che <<il rock è morto>>, cari ignorantoni, ce ne corre.
Come si evince dal titolo: la classifica riguarda il mio 2014, segnato dalla musica che ascolto e che amo e non da quelle stupide top-ten "scelte dai lettori" che potete trovare comodamente su Panorama, La Repubblica o Rolling Stone (una volta rivista di musica, oggi rotocalco che fra una pubblicità di uno shampoo e una di un SUV trova il tempo di regalare a caso 5 stellette all'artista che ha pagato meglio il redattore), liste inique dove trova spazio solo il 5% della produzione musicale internazionale e di genere. E proprio parlando del genere, qua troverete rock di quello vero, metal in tutte le sue forme ed elettronica esclusivamente eccellente, avanguardistica e per cui l'ascolto viene sempre prima della ballabilità (se poi è anche ballabile, meglio): il resto è fuffa. Se vi è piaciuto l'ultimo disco di Thom Yorke o siete abituati a seguire complessi salentini maleodoranti che inneggiano al potere operaio e dopo il concerto lasciano il centro sociale a bordo di una Mercedes coi vetri oscurati, state perdendo il vostro tempo. 
Buona lettura.

1.
Lucinda Williams, Down Where The Spirit Meets The Bone (Highway 20 Records, 2 Cd)

2.
Mastodon, Once More 'Round The Sun (Reprise)

3.
Aphex Twin, Syro (Warp Records)

4.
Tom Petty & The Heartbreakers, Hypnotic Eye (Reprise)

5.
Counting Crows, Somewhere Under Wonderland (Capitol)

6.
Sharon Van Etten, Are We There (Jagjaguwar)

7.
AC/DC, Rock Or Bust (Columbia Records)

8.
Plaid, Reachy Prints (Warp Records)

9.
Black Label Society, Catacombs Of The Black Vatican (Mascot Records)

10.
Damon Albarn, Everyday Robots (XL Recordings)

E SE 10 NON VI BASTANO...

Se 10 dischi non vi bastano, andate su Soundcloud e cercate le opere dei d.j. glitch e drone delle isole Faer Oer, scaricate gli EP della rinascente scena house underground di Chicago, perdetevi completamente nei set di qualche oscura discoteca teutonica, e se avete occasione andate a braccare per i club più vicini questi ragazzi e ragazze giovanissimi e ancora poco conosciuti che fanno ballare con una naturalezza e una semplicità raramente rintracciabili altrove (tantomeno in Italia, dove l'elettronica è veramente nella sua fase "poveri noi..."). In casa rock, al contrario, piazzo fra le riserve qualche anziano leone: da John Mellencamp a Bob Seger, da Leonard Cohen a Jackson Browne. Tutti cantautori, tutti grandi artisti, tutti autori di album che non saranno capolavori ma di cui un giorno sentiremo la mancanza.  

IL LIVE.

Se si eccettuano ristampe e raccolte di materiali inediti (quest'anno ne sono uscite di meravigliose, fra cui il cofanetto dell'Irish Tour di Rory Gallagher, il concerto di Passaic, New Jersey di Bruce Sprigsteen del 1978 e quello di Englishtown della Marshall Tucker Band), di album live belli e contemporanei ne escono veramente poco. Registrarli costa, spesso sono lunghi e doppi, e di conseguenza il loro prezzo è alto. Ma quest'anno, con circa quindici euro, è possibile acquistare un album dal vivo straordinario, opera di quel Gary Clark Jr. che da qualche tempo merita davvero di stare al fianco dei virtuosi chitarristi più giovani (Derek Trucks o Joe Bonamassa, per intenderci) venuti alla ribalta negli anni 2000. Il suo Live è puro godimento chitarristico, una libidine doppia che trasuda umori sudisti, hard e blues e che ne rilancia anche le capacità compositive, finora appannate da scarsi risultati in studio e da una campagna mediatica che lo ha spacciato più per il nuovo Lenny Kravitz che non per il nipote bravo di Jimi Hendrix.

Gary Clark Jr., Live (Warner Music, 2 Cd)

IL SINGOLO.

Inizialmente è stato fatto trapelare in rete come una lunga demo, poi mixato e ripulito per meglio affrontare la permanenza su YouTube e infine rilasciato come singolo ufficiale il 24 settembre: sto parlando di Lords Of Summer, brano dei Metallica che anticipa un fantomatico nuovo album in uscita nel 2015 e che lascia ben sperare tutti coloro che, dopo tre lustri ripieni di monnezza (Black Album, Load, Re-Load, St.Anger più live vari, colonne sonore e dischi di covers) erano tornati ad amare il quartetto californiano. Dato che appartengo a quella buona fetta di intenditori che avevano apprezzato il cambio di produzione della band (da Bob Rock a Rick Rubin) e il ritorno al sound degli anni '80 di Death Magnetic (2008), non posso che definire che Lords Of Summer, almeno a livello di singolo, sia un oggetto in cui riporre un minimo di speranze.

Metallica, Lords Of Summer (Warner Music, singolo)

IL BOX-SET.

Ogni anno escono box-set meravigliosi, roba in cui davvero varrebbe la pena buttare tre quarti di stipendio e non sentirsi comunque sazi. Di memorabili, in questo 2014, ne sono usciti almeno sei. Da parte mia, ne ho scelti tre (uno in studio, due live), perchè la vita è piena di decisioni difficili e non sempre è tutto riducibile ad una singola scelta. Sono tre prodotti il cui prezzo varia da cifre molto alte (139 € per Dylan) a numeri sempre sostanziosi ma comunque più bassi (i 49€ di CSNY 1974). Tre capolavori, tre artisti diversi, tre generi diversi, tutti partoriti, bene o male, nello stesso periodo: cioè nell'età dell'oro.

Bob Dylan,                                                                                                       The Allman Brothers Band,
The Bootleg Series Vol.11-                                                               The 1971 Fillmore East Recordings
The Basement Tapes Complete                                                                     (Universal Music, 6 Cd+Booklet)
(Columbia Records, 6 Cd+ Booklet)

Crosby, Stills, Nash and Young,
CSNY 1974 
(Rhino Records, 3 Cd+ 1 DVD)

IL TRIBUTE-ALBUM.

Non è piaciuto a tanti: nè agli appassionati più conservatori, nè ai neofiti. Tutti a puntare il dito sulle alte capacità di commercializzazione di un prodotto simile e sugli scarsi risultati artistici dello stesso. Va bene, si può dire che del compianto JJ Cale e di molti capolavori del suo repertorio abbiamo sentito covers migliori di quelle approntate da Clapton&friends in questo The Breeze. Ma guardiamoci intorno. Ne trovate altri di atti d'amore del genere in circolazione? Io non penso. Sedici canzoni per un'oretta striminzita di musica, un omaggio ad un grande artista, capace da solo di dare vita ad un genere (il Tulsa-Sound). Da tenere di conto anche solo per riscoprire gli originali.

Eric Clapton & Friends,
The Breeze: An Appreciation Of JJ Cale (Bushbranch/Surfdog)

LA COLONNA SONORA.

C'è solo un momento in cui, come compositore di colonne sonore, Hans Zimmer riesce a risultare superiore a se stesso: e cioè quando Hans Zimmer scrive musica per un film di Christopher Nolan. Anche se Interstellar non vi è piaciuto, provate ad ascoltare da soli, in silenzio, pezzi del soundtrack del film. Fatelo e sognate. Poi se ne riparla.

Hans Zimmer,
Interstellar: Original Motion Picture Soundtrack (Water Record)

Non so cosa c'è in meno o in più rispetto all'anno scorso (forse mancano il "miglior esordio" e la "peggiore delusione"). Se vi siete persi qualcosa, cliccate sull'etichetta "Suggestioni uditive" e poi fa tutto Blogspot.
Buona fine e buon inizio!





mercoledì 24 dicembre 2014

[Classifica] Il mio 2014 in 20 film (10 buoni e 10 cattivi)

PREMESSA

Per la terza volta mi ritrovo a tracciare la doppia classifica annuale del bello e del brutto cinematografici. Cerco di ordinare le idee, rileggo i titoli, ripenso a molti dei centoventotto film usciti e visti nel 2014 (sul blog ne trovate recensiti un centinaio) e non mi resta che trarre una sola conclusione: la cosa più bella che ho visto non l'ho vista al cinema ma in casa, in una qualità audio-video ottima (specie se raffrontata a certi supplizi che i siti di streaming propinano a occhi e orecchie) e rigorosamente in lingua originale con sottotitoli. Questa "cosa" si chiama True Detective, è andata in onda fra gennaio e marzo negli USA e in Italia è arrivata (doppiata in un modo che rasenta il parodistico) a settembre. 
Ammetto che la serialità televisiva mi è sempre interessata poco, pur avendo rivisto qualche puntata di prodotti che svettavano rispetto alla media (i primi episodi di Lost, la prima stagione di Breaking Bad, e poi ancora Il trono di spade, I Soprano, Boardwalk Empire, e, attualmente, Fargo). L'unico vero problema di tutte le serie sovracitate, per me, è sempre stato rappresentato dalla durata: stagioni e stagioni, puntate e puntate, ore e ore. Ho poca pazienza e poi, obbiettivamente, mi pare che tutto vada a disperdersi a lungo andare. True Detective no: forse perchè non è una serie tv, ma un film lungo otto ore. Un film dove la recitazione è a livelli stellari (molto probabilmente imparagonabili), la sceneggiatura (vero fulcro di ogni prodotto tv dignitoso) non cade mai, la regia vive di vita propria e fa scomparire centinaia di lungometraggi cinematografici e la colonna sonora sarebbe da raccogliere, masterizzare e fondere a suon di passaggi sulle lenti laser. All'interno, una coppia di protagonisti che da sola riscatta anni di cinema poliziesco e una storia unica, meravigliosa, talmente bella che non voglio neanche mettermi a raccontarla. Se poi volete approfondire, il buon Diegozzilla ha scritto sull'argomento un articolo che mi trova pienamente d'accordo e che trovate sul suo celebre blog; se invece volete farvi un regalo di Natale, guardatelo prima possibile: True Detective, serie antologica scritta da Nic Pizzolatto, otto episodi da un'ora l'uno, il film più bello dell'anno (pur non essendo propriamente un film).

True Detective di C. Fukunaga (USA, 2014)

E adesso che mi sono sfogato in totale sincerità, posso passare ai film veri e propri. Dieci belli e dieci brutti- come ormai è tradizione -e qualche appendice a seguire. La classifica comprende solo ed esclusivamente film usciti nei cinema italiani fra il 1 gennaio e il 24 dicembre 2014 e rispetta soltanto le mie opinioni, che non sono quelle di un critico o di uno studente di cinema, ma solo di una persona che ha passione e che dentro una sala si sente smisuratamente viva e felice.

I 10 MIGLIORI...

1.
Maps To The Stars di D. Cronenberg (Canada, 2014)

2.
Nebraska di A. Payne (USA, 2014)

3.
Snowpiercer di Bong Jon-hoo (Corea del Sud, 2014)

4.
Dallas Buyers Club di J. M. Vallee (USA, 2014)

5.
12 anni schiavo di S. McQueen (USA, 2014)

6.
The Wolf Of Wall Street di M. Scorsese (USA, 2014)

7.
L'amore bugiardo- Gone Girl di D. Fincher (USA, 2014)

8.
Alabama Monroe di F. Van Groeningen (Belgio, 2014)

9.
La sedia della felicità di C. Mazzacurati (Italia, 2014)

10.
Interstellar di C. Nolan (USA, 2014)

... E I 10 PEGGIORI

1.
I, Frankenstein di K. Grevienaux(USA, 2014)


2.
Tutta colpa di Freud di P. Genovese (Italia, 2014)

3.
Lo sguardo di Satana- Carrie di K. Peirce (USA, 2014)

4.
Storia di una ladra di libri di (Regno Unito, 2014)

5.
Transformers 4- L'era dell'estinzione di M. Bay (USA, 2014)

6.
Lucy di L. Besson (USA, 2014)

7.
La scuola più bella del mondo di L. Miniero (Italia, 2014)

8.
47 Ronin di C. Rinsch (USA, 2014)

9.
RoboCop di J. Padilha (USA, 2014)

10.
Godzilla di G. Edwards (USA, 2014)

APPENDICE

Il cinefumetto dell'anno: Guardiani della Galassia (USA, 2014) di J. Gunn. Poco da aggiungere a ciò che hanno detto già in molti. E' uno dei cinefumetti migliori di sempre (se non il migliore in assoluto). Non sta per un pelo nella classifica dei migliori 10 ed entra di diritto nella Storia del Cinema.
Il fantabellico dell'anno: Edge Of Tomorrow (USA, 2014) di D. Liman                                                  Non è un film perfetto, quello di Liman, che ha riportato alla ribalta un genere che andrebbe coltivato con cura e amore. Tuttavia, la coppia Cruise-Blunt funziona misteriosamente bene, la regia è ottima e la storia buona. Intrattenimento di questa qualità è merce rara.
Il cartone animato dell'anno: The Lego Movie (USA, 2014) di P. Lord               Confesso che ho visto pochi cartoni animati in questo 2014, ma questo li ha battuti tutti. Perfetto per ogni età, battute eterne, citazioni impagabili, animazione formidabile.
Il "meglio tardi che mai" dell'anno : Mud (USA, 2012) di J. Nichols                   Un mezzo capolavoro che ha avuto solo la sfortuna di arrivare nel Belpaese con due anni di ritardo. Nel 2012, sarebbe stato sicuramente fra i miei primi tre film preferiti.
La sorpresa dell'anno: Solo gli amanti sopravvivono (USA, 2014) di J. Jarmusch                                                                                                             Jarmusch, regista bravo, originale, ma spesso altalenante fra film riuscitissimi e operette indie orchitiche. Pensavo che Solo gli amanti sopravvivono appartenesse alla seconda categoria, ma mi sbagliavo di grosso. 
Il grande assente: Locke (UK, 2014) di S. Knight                                                                                       Quest'anno mi sono sfuggiti Eastwood, Godard e The Nightcrawler- Lo sciacallo (la cui uscita è stata adombrata dal terzo Hunger Games, che neanche ho visto). Ma il film in assoluto che ho rimpianto di più è stato questo.
L'action dell'anno: The Equalizer- Il vendicatore (USA, 2014) di A. Fuqua       Non è che il cinema d'azione (strombolate a parte) abbia goduto di grandi pellicole quest'anno. Tuttavia, The Equalizer è stato una sorta di fulmine a ciel sereno, specie in una filmografia in crisi come sembrava destinata a rimanere quella di Antoine Fuqua.

Il documentario dell'anno: Muscle Shoals- Dove nascono le leggende (USA, 2013) di G.Camalier                                                                                                                                   La cosa scandalosa è che un film del genere ha circolato pochissimo (in tutta la provincia di Siena è stato proiettato in una sola sala), ma è una vera chicca: straordinario per gli appassionati, istruttivo per i neofiti. Per chi se lo fosse perso, pare sia in arrivo un'edizione home video curata da Feltrinelli.