lunedì 30 marzo 2015

Grateful Dead, "The Best Of" [Suggestioni uditive]

Grateful Dead,
The Best Of
(Rhino Records, 2015)
★★★★★















Poche realtà musicali possono godere della longevità e del successo che il destino ha riservato ai californiani Grateful Dead, da cinque decenni la band di hard rock psichedelico per eccellenza, nonchè la jam-band più popolare del mondo, nonchè la band che ha inventato il concetto di musica live, nonchè la unica band per cui è stata istituita- in occasione della morte dello storico leader e chitarrista Jerry Garcia -una giornata di lutto nazionale negli USA (la volle a tutti i costi Bill Clinton, l'11 agosto 1995).
Maggiormente noti per la loro leggendaria attività concertistica (ampiamente documentata dall'irraggiungibile cifra di 138 live album legalmente registrati e messi in vendita fra il 1967 e oggi), i Dead hanno paradossalmente inciso solo tredici dischi di inediti in studio, l'ultimo dei quali è stato Without A Net (1990). La passione mostrata nel selezionare e curare maniacalmente la proposta discografica delle loro esibizioni non è mai stata controbilanciata dalla volontà di concedere al grande pubblico un'antologia sensata e omogenea della loro attività praticamente "secondaria". Ma adesso, per fortuna, la band si è mostrata decisa a mandare in porto la compilation definitiva, appartenente alla Fare Thee Well, ovvero l'agenda di iniziative legate al cinquantennale del gruppo e alla fine di carriera annunciata da tempo (per chi fosse tanto pazzo quanto facoltoso, forse sono rimasti alcuni biglietti per i concerti del 3 e 5 luglio al Soldier Field di Chicago): questo The Best Of è quanto di più semplice e perfetto la Rhino potesse mandare in stampa. 32 brani spalmati su due dischi, comodamente acquistabili per la modica cifra di quindici euro. La tracklist è studiata e intelligente, specie nel secondo disco, quello a cui spetta l'ingrato compito di tirare fuori il meglio dal periodo "buio" della band di Jerry Garcia: la scelta dei pezzi è talmente buona che perfino Shakedown Street potrebbe risultare un disco rivalutabile. Go To Heaven e Built To Last, no, mi dispiace.
Perciò, tirando le somme, può essere questo il mezzo migliore tramite cui i neofiti, specie i più giovani, potranno avvicinarsi alla più grande band partorita dall'era della psichedelia? Pur da appassionato dei Grateful Dead più hard e rigorosamente live, posso dire di sì. La spesa è ottima e il prodotto pure. Fatevi un bel regalino di pasqua e ascoltate qualcosa di bello e di nuovo (si fa per dire!).













sabato 28 marzo 2015

Foxcatcher- Una storia americana [Recensione]

Voi lo sapevate che uno degli uomini più ricchi del mondo, discendente diretto di un magnate delle armi e presidente di una delle più famose multinazionali del globo fosse uno psicopatico appassionato di lotta libera afflitto da un complesso di Edipo grande perlopiù come il suo patrimonio immobiliare? Io no, e ne sono rimasto fortemente impressionato.
Sarà per il modo in cui Steve Carrell ha vestito i panni di John Du Pont (patron della Du Pont, l'azienda chimica che ha inventato, fra le tante, il nylon), sarà per la fotografia priva di vie di mezzo e tutta giocata su fuoco e fuori-fuoco di Greg Fraser, sarà per gli incessanti silenzi con cui i fratelli Schultz (Channing Tatum e Mark Ruffalo, egualmente bravi) portano avanti il loro rapporto difficile ma non scevro da affetto, ma a me Foxcatcher è proprio piaciuto. Il regista, Bennett Miller, è un amante delle storie vere, un autore attratto esclusivamente dal biopic che dopo essersi concesso al lato più luminoso e quasi "spielberghiano" della novella sportiva (lo scialbo L'arte di vincere) ha optato per una vicenda oscura, complessa e dalle dinamiche empatiche, in grado di inquietare e di andare ben oltre l'aspetto sportivo. Anche perchè la sportività che Du Pont ammirava e promuoveva con i suoi insegnamenti era un qualcosa di estremamente imperialista, tutta giocata sul malato rapporto fra Capitale e vigore fisico, fra amore patrio e atteggiamento belligerante. In più, va considerata la rivalsa nei confronti della madre e dell'ippica: non è un caso che i lottatori e i purosangue della tenuta Foxcatcher si ritrovino a condividere, a conti fatti, lo stesso perimetro e a popolare il medesimo, idealizzato e utopico micro-stato partorito dalla mente subnormale di un miliardario inetto e mai realizzato.
A suo modo, un film horror terrificante.

venerdì 27 marzo 2015

Vizio di forma [Recensione]

<<Poteva andare peggio: poteva piovere>>, dice Marty Feldman in Frankenstein Junior. Parafrasando, anche a me poteva andare peggio: potevo non avere visto Vizio di forma, uscito in Italia il 26 febbraio e proiettato- in un comune limitrofo al mio -per due soli spettacoli serali il 25 e il 26 marzo, ossia un mese dopo.
Uno dei pregi del "circo" degli Oscar è che prepara gli spettatori più esigenti a un marzo di buoni, se non ottimi film, ma quest'anno qualcosa deve essere andato storto, fra interi cinema che per un mese hanno proiettato esclusivamente tutte le sfumature di grigio possibili, commediacce "made in Italy" pre-tropicalizzanti e la rispolverata Cenerentola di Kenneth Branagh. Hoc est aliquid, sed non est satis, questo è quanto ma non è abbastanza: di fatto, il Piccione seduto sul ramo che ha trionfato a Venezia è stato visto da quei due, tre fortunati che sapevano di una sua oscura, segreta proiezione a prezzo ridotto e io, ovviamente, non ero fra quelli. Mentre del Blackhat di Mann, uscito da una settimana, si fatica a vedere perfino un trailer o un poster fuori dai cinema. Situazione triste, ulteriormente intristita dal fatto che Vizio di forma di Paul Thomas Anderson ha praticamente riempito i 221 posti del "cinemino" in cui sono andato a vederlo. Segno che l'imbecillità, spesso, è soltanto imposta e che il gusto del pubblico può andare ben oltre un certo tipo di offerta. Anche quando la pellicola a cui si assiste è un contorto noir tinto di commedia psichedelica che parte da una semplice sparizione di una ragazza legata a un magnate del mattone per arrivare a raccontare- con toni sempre grandiosi e malinconici -il tramonto dell'era hippie, il risveglio da un sogno già infranto (da Manson e la sua setta, da Nixon, dalle droghe pesanti). Il pirotecnico romanzo di Thomas Pynchon poteva offrire ad Anderson l'occasione di girare  il suo film più complesso e sfrenato sul piano figurativo e narrativo, ma il regista di Magnolia ha preferito affidarsi nuovamente al suo grande amore: la classicità.
Con Anderson siamo sempre nell'ottica che ogni film corrisponde a un modello di grande romanzo americano, anche se con Vizio di forma si ritorna più alle atmosfere di Boogie Nights (forse il suo film meno noto) che non a quelle di The Master o Il petroliere. Non mancano le incessanti conversazioni, i dialoghi lunghi e serrati, i primi piani che si allargano o si ristringono, la volontà di dipingere un ritratto corale e mitologico di un determinato contesto. Una volontà che ricorda molto il maestro di Anderson, ossia Robert Altman, e che rende impossibile non accostare, anche solo per poco, Il lungo addio a Vizio di forma. Il monumentale cast viene successivamente, così come la cura dei vari characters e il peso quasi marmoreo del protagonista Doc Sportello (Joaquin Phoenix, che non ha certo bisogno di essere definito eccezionale per l'ennesima volta e la cui occhiata nell'ultima inquadratura ricompensa tutte le attese del mondo). Si entra facilmente nel trip di Sportello, tant'è che neanche noi si sa più distinguere dove finisca l'allucinazione e inizi la cruda, terrificante realtà. Ci si abbandona al flusso, ad eventi visivi, percettivi e sonori in grado di generare emozioni magari anche violentissime che però, ineluttabilmente, svaniscono nel momento stesso in cui le consumiamo. E lo stesso accadrà, poi, nella memoria.
Rimane un viaggo attraverso il passato (Journey Through The Past di Neil Young, meravigliosamente utilizzata), dove l'innocenza, la paranoia, le case in legno sulla spiaggia, l'erba, le ragazze fuggite di casa, i motociclisti cattivi e le automobili degli sbirri sfrecciano veloci tra le rovine di una città assolata, dirette chissà dove. E dove l'amore sembra l'unico modo per saturare le proprie ferite. 

mercoledì 25 marzo 2015

Seasick Steve, "Sonic Soul Surfer" [Suggestioni uditive]

Seasick Steve,
Sonic Soul Surfer
(Fiction Records/ Third Man Records, 2015)

★★★
















"Sei un sognatore perso, senza senso pratico nè degli affari. Così le persone credono di poterti fregare a loro piacimento. Poi però ti metti al tavolo e scrivi un libro su di loro per mostrare che razza di maiali sono."
Christopher Isherwood,  Addio a Berlino (Garzanti,  Milano 1966)

Uno dei più grandi miti antichi sopravvissuti alla modernità è quello del Giudizio Universale. Alla fine dei tempi, l'umanità sarà divisa senza appello. Da una parte, gli assunti al Paradiso, pottini che si leveranno in volo su un Boeing 777-200LR dotato di tutti i comfort. Dall'altra, i dannati, quelli destinati a restare e a vagare, senza meta nè dimora, per le autostrade dell'inferno terreno.
Il Giudizio Universale è ora e Seasick Steve (nato Steven Gene Wold, classe 1941) rientra nella categoria dei dannati. A tredici anni lascia la natìa California e iniziò a montare sui treni, conducendo una vita di avventura e lavori occasionali fra Tennessee e Mississippi. Si appassiona presto al blues e al country, impara ad assemblare chitarre fatte con materiale di scarto e inizia a suonare con artisti più o meno noti. All'inizio degli anni '60 apre perfino per Joni Mitchell. Dal 1973 in poi, pur senza rinunciare alla sua vita da vagabondo, comincia a bazzicare vari studi di registrazione, distinguendosi come sessionman nell'uso della bootleneck, della stomp-box e del banjo. Il suo esordio discografico è rappresentato da Cheap (2004), cronaca fedele di quegli anni novanta che lo hanno visto vivere per strada fra Parigi e Oslo. Ma il vero successo arriva con Dog House Music (2006), che lo porta a comprarsi un trattore John Deere e a compiere un tour mondiale, attirando il plauso della critica e la stima del pubblico. Specie in Inghilterra riceve gli onori di una divinità: nel 2009 la BBC gli dedica un bellissimo documentario (Seasick Steve: Bringint It All Back Home), nel 2010 è ospite di Top Gear e solca il main-stage di Glastonbury, nel 2011 è di nuovo in Terra d'Albione per registrare Hubcap Music, in cui il basso è suonato nientepopodimeno che da John Paul Jones. Alla fine, complice anche un nuovo matrimonio, l'Inghilterra è divenuta anche il paese di residenza di Seasick Steve, che proprio qua pensa bene di registrare il nuovo Sonic Soul Surfer, uscito il 23 marzo per la Third Man Records.
Composto da dodici brani (sedici sulla versione LP), potrebbe essere la giuntura ideale fra le chitarre acustiche di Man From Another Time (2009) e i fremiti elettrici di Hubcap Music (2013). Steve torna alle sue origini di polistrumentista autodidatta, suonando lui stesso il basso e lavorando, per quanto riguarda la batteria, con una drum-machine. Brani topici sono la fantastica strumentale Bring It On, Roy's Gang e Barracuda '68. Per il resto, gli episodi realmente significativi si riducono a un numero basso, ma fa comunque piacere sentire Seasick Steve che suona il blues con un'energia che, a settantaquattro anni, gli fa solo onore. E anche se certe storie e certi arrangiamenti iniziano a farsi un po' ripetitivi, persiste qualcosa di magico in questo territorio dello spirito e dell'immaginazione descritto da un cigar-box pizzicato e dall'incessante vibrato di una slide come se ne sentono poche. 

















lunedì 23 marzo 2015

Gang, "Sangue e cenere" [Suggestioni uditive]

Gang,
Sangue e cenere
(Rumble Beat, 2015)
★★★★















A più di quattordici anni da Controverso e dopo una fortuita campagna di raccolta fondi già divenuta leggendaria (58.000 euro raccolti rispetto ai 6.000 richiesti come cifra base), i fratelli Severini tornano con un disco in studio bello, maturo e necessario. Con Sangue e cenere, prodotto da Jono Manson e registrato essenzialmente fra New York e Santa Fe, il viaggio al cuore della musica dei Gang sembra giungere a destinazione, strana parola per un complesso on the road da quasi tre decenni. Fondendo le loro radici marchigiane con la poetica gucciniana e l'elettricità riottosa dei Clash, i Gang si sono affermati come una band genuinamente rivoluzionaria, ancora oggi capace di scrivere canzoni che riflettono un'Italia provinciale e non baciata dai "miracoli" del renzismo (Nel mio giardino, Ottavo chilometro). La forza espressiva dei testi, il potere evocativo e la lucidità con cui descrivono storie, illusioni e fallimenti del nostro tempo li riconfermano fra i più grandi del rock italiano. Continuano a non fare sconti a nessuno (Alle barricate e la lunga, "smisurata preghiera" Marenostro) e a raccontare episodi "minori" o dimenticati della storia d'Italia (Perchè Fausto e Iaio?), se non addirittura le vite di personaggi illustri (Nino). C'è spazio pure per l'intima Mia figlia ha le ali leggere, con la quale i Gang prendono le distanze dall'ovattato mondo delle molte mummie del rock politico.
Con Jono Manson in console, i Severini approdano ad una formula sonora italo-americana definitiva, una formula che vede coinvolti  i Round Mountain (già fiatisti di Bruce Springsteen), Garth Hudson dei The Band alla fisarmonica (non tanto casuale è la citazione ai Basement Tapes della copertina, che si potrebbe definire un vero e proprio atto d'amore verso le roots americane), Dave Devlin, Mark Clark e Charlie Cinelli. Ma la vera "parte del leone" spetta al polistrumentista Jason Crosby, il cui organo Hammond spazza via i pochi dubbi che aleggiano attorno al fatto che Sangue e cenere sia uno dei dischi italiani meglio prodotti degli ultimi vent'anni, pieno com'è di country rock assai poco allineato con l'offerta musicale nazionale. Generosi, coerenti e drammaticamente veri, i Gang possono dirsi fieri del risultato ottenuto seguendo l'ispirazione e l'aiuto dei fans. In un mercato che esige solo compartimenti ben distinti, è difficile che trovino spazio canzoni così ribelli, selvagge, pericolose ed eccessivamente sincere. Ci sono voluti quattordici anni e tre mesi di crowdfunding, ma i fratelli Severini  hanno portato a casa il loro album migliore senza mediare con i padroni dell'industria del disco e scrivendo testi che rappresentano il collante perfetto tra radici e modernità, tra musica e letteratura, tra rabbia e poesia. 

domenica 22 marzo 2015

Van Morrison, "Duets" [Suggestioni uditive]

Van Morrison,
Duets
(RCA, 2015)

½
















Non bastavano Rod Stewart che canta il Natale e Bob Dylan che demolisce (in maniera non poi tanto brillante) Sinatra. No, ci voleva anche Van Morrison che si prende per il culo da solo. Come? Semplicemente facendo pubblicare un album di duetti bellini giusti realizzati con amici più o meno noti (da Mark Knopfler a Steve Winewood, da Bobby Womack a Mavis Staples) e furbescamente prodotti da Don Was e Bob Rock.
Vengono scelti e reincisi 16 brani che coprono la carriera di Morrison compresa fra il 1970 e il 2012. Ciò significa che qualche anima pia ha deciso di lasciare in pace quei tre album che rispondono ai nomi di Blowin'Your Mind (1967), Astral Weeks (1968) e Moondance (1970), ovvero un trittico di capolavori che nessun cantante (nemmeno Dylan) può vantare come proprio esordio discografico. Il risultato è così riassumibile: le canzoni belle sono peggiorate, le brutte sono ulteriormente imbruttite.
Prendiamo Real Real Gone, un pezzo degli anni Novanta cantato con Michael Bublè, una canzone di cui certamente si ricordavano in pochi: il nuovo arrangiamento dovrebbe funzionare al meglio, spronare il pubblico più becerone all'acquisto di un disco che vede la presenza del suo beniamino canoro canadese, ma in realtà finisce col marcare ancora di più la differenza fra due mondi, quello del rock romantico di Morrison e quello dello swing tamarro e moderno di Bublè. Quello che è (stato?) uno dei più grandi cantautori di sempre finisce qua a fare la figura di un trademark lontano dagli standard qualitativi suoi e degli ospiti, e a poco valgono quei momenti leggermente più felici dei Duets (Fire In The Belly con Steve Winewood e la conclusiva How Can A Poor Boy con l'inossidabile Taj Mahal).
Solitamente, nutro un certo rispetto nei confronti del lavoro di Don Was: del resto, è una delle figure più carismatiche emerse negli ultimi venticinque anni nel mondo della musica, suo è- almeno in parte -il merito di certe "rinascite" artistiche (fra gli altri, Bonnie Raitt, Ringo Starr, Jackson Browne, Kris Kristofferson, Elton John) e sua è la firma apposta sotto diverse perle di Black Crowes, Lucinda Williams, Ziggy Marley e Old Crow Medicine Show. Inversamente proporzionale è la totale sfiducia che provo ogni volta che in un disco vedo accreditato Bob Rock, che in Duets ha indubbiamente lasciato l'impronta di tutti i suoi lavori: un suono di maniera, arrangiamenti attraversati da un basso tenore emotivo e preoccupanti aperture verso l'easy-listening (badate bene, non inteso come quella meravigliosa ramificazione della musica ambient)

giovedì 19 marzo 2015

Fangs Of The Molossus, "Fangs Of The Molossus" [Suggestioni uditive]


Fangs Of The Molossus,
Fangs Of The Molossus
(Italian Doom Metal Records, 2015)
★★★















Ormai è palese: il panorama heavy italiano si è fatto adulto, variegato, maturo. La mia non è ruffianeria nazionalista, ma una presa di coscienza definitivamente sviluppatasi nell'arco degli ultimi quattro, cinque anni. Merito delle etichette, certo, ma soprattutto, merito di questi artisti, outsiders le cui creazioni possono ormai rivaleggiare con quelle dei consueti tedeschi, francesi, inglesi, scandinavi e americani. Sono band perfettamente a loro agio nei vari sotto-generi del metal, complessi che arrivano senza problemi nelle compilation e alle radio di tutta Europa. Per non parlare dei numeri che il metallo italiano ha ormai raggiunto in termini di quantità di partecipazioni a rassegne, concerti e festival internazionali.
E fra tutti i meandri del genere, quello del doom sembra particolarmente fiorente nel nostro paese: lo dimostra anche l'esperienza di Simone Pozzolo, che da blogger appassionato di musica  (il sito www.italiandoommetal.it da lui curato è uno dei più autorevoli in materia) ha pensato bene di passare al ruolo di produttore, fondando la Italian Doom Metal Records. Primo pezzo del catalogo è l'omonimo album di esordio dei "maledetti toscani" Fangs Of The Molossus, un disco già uscito in cd nell'estate del 2013 e ora ristampato in una pregevole vinyl limited edition, disponibile nelle colorazioni black (400 copie) o blood red (100 copie). Non un capolavoro, ma sicuramente un'opera che non passa inosservata, composta da cinque lunghi brani che partono dalle lande sabbathiane e approdano a un doom crudo ed esoterico. Si parte con l'ottima Caligula, che già beneficia di un lavoro di composizione e fantasia altamente stimolante, con lunghi assoli di chitarre (ben tre) e un finale libero. Cult Of The Witch Goddess mantiene intatto l'impianto ruvido della band, con Daemon Nox che pompa il suo basso e imprime un groove irresistibile al tutto. Ben più sbrigativa e semplicistica risulta la terza I Drink Your Blood, nulla di memorabile se non fosse per l'efficace lavoro di drumming svolto da Iako. Valida alternativa al terzo pezzo si rivela essere O Fera Flagella, unico brano strumentale del disco, macabro e solenne. La voce di Acid King ritorna nella conclusiva Dead King Rise, un non originalissimo pezzo di puro doom dal finale un po' orgiastico, un po' inconcludente, il che può degnamente rappresentare il binomio "pregi&difetti" di un'opera prima. Ma tutto sommato Fangs Of The Molossus è un buon biglietto da visita per la band toscana, che mantiene l'ossatura tipica di molti album del genere per poi abbandonarsi totalmente a linee melodiche impeccabili e torridi assoli strumentali. Tutti ingredienti che rendono questo esordio un album tosto, potente e suonato da un gruppo che può crescere ancora moltissimo in termini di tecnica e di idee e che maneggia certe influenze space e psychedelic come se stesse suonando negli anni Settanta invece che negli anni Dieci del Duemila.

giovedì 12 marzo 2015

Focus- Niente è come sembra [Recensione]

Niente è come sembra, dice il sottotitolo di Focus, nuova "muccinata" (in realtà non è di Muccino, ma di Glenn Ficarra e John Requa) con Will Smith: e in effetti, almeno nella locandina, Focus mantiene le promesse. Sembra un film, ma non lo è. 
Di cinema c'è infatti ben poco nei suoi centoquattro minuti di durata, e la cosa mi infastidisce: mi infastidisce perchè per colpa di questa cosa orripilante dovrò, ad esempio, ritardare la visione di Blackhat di Michael Mann, senza contare che film un attimino più di spessore (almeno sulla carta) quali Un piccione seduto sull'albero riflette sull'esistenza (Leone d'Oro a Venezia 2014), Whiplash o Vizio di forma non sono praticamente pervenuti dalle mie parti. E io non posso considerarmi un cinefilo sfortunato (ho cinque cinema e sette sale nel raggio di dieci chilometri, e pur vivendo alla periferia dell'impero non mi sono ancora ridotto a recarmi appositamente in queste cattedrali nel deserto che si fregiano di altisonanti nomi anglofoni). Così, non resta che maledire le merdose catene di distribuzione nostrali, rinunciare alla qualità e guardare l'ennesimo film loffio, recitato male e diretto peggio. Ma la cosa veramente irritante è che Focus è davvero una pellicola grezza e provinciale, roba che non si vedeva dai tempi di Don Juan e che esclusivamente a un pubblico di grezzi potrà piacere. Ed è inutile che mi ci piazzino qualche brano degli Stooges o dei Rolling Stones qua e là: non serve a migliorare nulla, nè a far passare questi minuti in maniera piacevole.
Che salto nel buio deve essere stato per Margot Robbie passare da Scorsese a Ficarra&Requan e da di Caprio a Will Smith (sicuramente l'attore più popolare della storia dei social network)! Confido che la abbiano almeno pagata bene, dal momento in cui la Warner ha sborsato cento milioni di dollari per questa fogna di celluloide. Soldi che potevano risultare spesi meglio- senza scomodare i soliti paesi del terzo mondo -in alcool, gratta e vinci, armi o prostitute.

mercoledì 11 marzo 2015

Aphex Twin, "Computer Controlled Acoustic Instruments pt2 EP" [Suggestioni uditive]

Aphex Twin,
Computer Controlled Acoustic Instruments pt2 EP
(Warp Records, 2015)
★★★














Fresco del suo primo Grammy (uno dei pochi realmente meritati che la Storia della Musica ricordi), Richard David James è tornato di nuovo agli onori delle cronache dopo il successone di Syro. Di fatti, lo scorso 23 gennaio, Warp ha pensato bene di pubblicare Computer Controlled Acoustic Instruments pt2 EP (la pt1 non cercatela nemmeno, tanto non esiste), un oscuro EP di 13 tracce che variano dai nove secondi di durata (disk aud1_12) ai cinque minuti e mezzo (diskhat ALL prepared1mixed 13). Questo dischetto, pubblicato in vinile (da suonare a 33 o 45 rpm), cd e formato digitale, non è un capolavoro, ma un EP di pura avanguardia ispirato, in egual misura, alle composizioni per pianoforte preparato di Hauschka e a quel periodo- la fine degli anni '90 del secolo scorso -in cui Squarepusher si divertiva a fondere la D&B con l'acid jazz e a pubblicare Music Is Rotted One Note
Come sempre, non ci è dato sapere quando Richard James abbia registrato questi "appunti sonori", ma quasi sicuramente derivano dalle sessioni di Syro, col quale hanno in comune di essere stati registrati in casa con modalità del tutto analogiche. Per il resto, ritroviamo il design futurista di The Designers Republic e una sfilza di titoli criptici che faranno ammattire tutti coloro che da vent'anni si perdono alla ricerca di analogie, simbolismi e significati nascosti fra le lettere e le cifre assemblate da questo genietto anglosassone.
La critica è stata generalmente poco benevola, ma al contempo non sono mancate delle ovazioni fin troppo esagerate (sia su Resident Advisor che su Pitchfork è stato accolto come un capolavoro). Tuttavia, non si può certo dire che Computer Controlled Acoustic Instruments pt2 EP sia la classica opera che "divide". Specie perchè, come se non bastasse, il pubblico stavolta è stato più chiaro di sempre: questi ventotto minuti di musica sperimentale sono infatti finiti all'ottava posizione della Irish Independent Album Chart, quarti nella classifica britannica e- udite, udite! -primi nella Billboard Dance/Electronic US Chart. Per non parlare della quantità di copie vendute in Giappone solo nella prima settimana.
Da parte mia posso solo dire che la musica elettronica che ripete sé stessa, senza innovazione, fantasia, voglia di sperimentare e di spostare i confini, non mi interessa. Ma mi rendo conto che è quella preferita dalla gente. La maggior parte delle persone trova conforto nel luogo comune e nella ripetizione del gesto noto. Molte persone sono piatte come un foglio di carta; io purtroppo amo quelle profonde. E in questo sono abbastanza solo, anche se i dati di vendita nel mondo di Computer Controlled Acoustic Instruments pt2 EP il morale un po' su me lo tirano.


domenica 8 marzo 2015

Le donne della mia vita [Extra]

Per un tragicomico scherzo del destino, spesso ci si inizia ad interessare alla musica e alle donne nello stesso periodo, verso la fine delle scuole medie e l'inizio delle superiori. Ancora non lo si può sapere, ma sono due cose, nell'arco della vita, si prenderanno spesso a braccetto, e insieme potranno fare scintille e portarti su, fino in Paradiso, oppure scaraventarti ai bordi delle strade e farti vagare per giorni, mesi, anni nelle tenebre.
Inutile dire, però, che un maschietto tredicenne non vorrà sentirne di ascoltare voci di donne che cantano: meglio una chitarra sferragliante e la voce grintosa di qualche macho. In altre parole, meglio l'acne eterno. L'unica cura che potrebbe rivelarsi efficace contro la grettezza è qualche ascolto "passivo": anche io, del resto, capii che le donne sapevano essere delle grandi cantanti rock perchè, saltuariamente, in casa, avevo modo di sentire pezzi fantastici. La prima voce femminile di cui mi innamorai perdutamente fu quella di Bonnie Raitt, che cantava in coppia con Jackson Browne My Opening Farewell: questo duetto live degli anni Novanta soppiantò l'amore che avevo per l'originale, e tuttora continua a non esserci lotta. Sempre verso i quattordici, imparai ad apprezzare Crazy di Patsy Cline, Memory di Barbra Streisand e, soprattutto, la Kathy's Song di Eva Cassidy. Non sapevo che volto avesse e mi piaceva immaginarla con le fattezze fisiche di chi piaceva a me in quel momento. Mi sembrava di averla accanto, mentre la ascoltavo, e ignoravo del tutto che fosse morta nel 1996 per un tumore e che non avesse pubblicato nulla in vita. Una triste storia. 
So che non potrà apparire molto originale, ma il primo disco di rock femminile che comprai fu Pearl di Janis Joplin. Al Liceo parlavano tanto di questa tizia, e ne parlavano- fra di sè -creature del cielo coi glutei pronunciati e i seni morbidi. In una compilation trovai A Woman Left Lonely, feci qualche ricerca, scoprii l'album che la conteneva e lo trovai senza difficoltà. Era roba talmente bella da sentircisi male. Un insieme di musica, parole e voce che toglieva il fiato e che, tuttavia, conosceva dei detrattori potenti anche fra gli studenti della mia scuola.
Gente che già allora era senza speranza e che oggi cuoce nel proprio meschino maschilismo, passando da una soddisfazione inutile all'altra. 
Comunque sia, da Pearl in poi, fu un continuo conoscere e innamorarsi di donne fantastiche: dai quindici anni in poi sarei uscito con Patti Smith, Bonnie Tyler, Aretha Franklin, Sheryl Crow, Norah Jones e perfino con la Dido di No Angel, quella della prima ora. Di Patti Smith sarei arrivato a conoscere vita, segreti e miracoli, ne avrei letto i libri e assorbito la poetica, e infine la avrei vista dal vivo nell'estate del 2012, in un concerto senese un po' sciamanico ma comunque godibilissimo.
Furono storie d'amore folli e un po' screanzate quelle che mi coinvolsero con Debbie Harry dei Blondie (ma del resto come potevo resisterle?) e amara fu la delusione che mi dette Joan Jett, che dapprima mi promise amore eterno con le sue Runaways per poi abbandonarmi per quei coglionazzi dei Blackhearts. Solo qualche fugace incontro clandestino con Siouxsie Sioux e Live Through This delle Hole mi fecero rappacficare con un certo tipo di punk-band al femminile.
Non andarono molto a buon fine i miei appuntamenti con donne adulte e molto più mature di me: Marianne Faithfull mi lasciò freddo come un ghiacciolo, anche se di storie da raccontare sui bei tempi andati, la swingin'London, le droghe e i filmetti a luci rosse perduti ne aveva eccome. Nico, eliminata These Days, mi sembrò una tedescona col vocione e non volli più nemmeno sentirne parlare. Oltretutto, emanava una tristezza che tendeva a mettermi un po' a disagio. Allo stesso modo, non riuscii a costruire nulla che andasse oltre ad una solida stima verso le grandi cantautrici impegnate: so che per molti è un'eresia, ma a me di Joan Baez piace Diamonds And Rust, la sua voce e il modo in cui fa proprie le canzoni altrui (Cohen, Dylan), poi basta. Anche Carolyne Mas non riuscii a farmela piacere: "il Bruce Springsteen in gonna" la chiamavano, però io tutte queste grandi assonanze col Boss facevo fatica a metterle a fuoco. Preferivo scendere per i verdi pascoli e andare a trovare queste ragazze di campagna con la voce calda come un bourbon, le guancette rosa e il letto vuoto. Bimbe come Alison Moorer o Shawn Colvin, semplici, dirette, sexy a modo loro.
Un'altra grande storia d'amore ebbe inizio di fronte al cestone dei cd in offerta del supermercato. Nella primavera del 2010, per quattro euri e novanta, comprai Elite Motel di Emmylou Harris, un'altra delle donne della mia vita. Ovviamente conoscevo il suo magico apporto dato in opere capitali come Grievous Angel di Gram Parsons o Desire di Bob Dylan, ma la scoperta della sua carriera solista fu, per me, un fulmine a ciel sereno. E se il ben più maturo Wrecking Ball (l'album prodotto da Daniel Lanois con cui vinse il Grammy nel 1996) rappresentò la metà oscura di Elite Motel, lo splendido All The Roadrunning inciso con Mark Knopfler mi accompagnò in un bel periodo di rinascita umana e sentimentale.
In anni recenti, soltanto l'irruzione nella mia vita di Lucinda Williams ha avuto un impatto altrettanto (positivamente) devastante, ma non per questo ho smesso di frequentare altre brave o cattive ragazze: è bello uscire a sbronzarsi con Juliette Lewis, tornare a casa la sera e farsi dare la buonanotte da Sharon Van Etten o Hope Sandoval, che ogni due morti di papa si degna di pubblicare musica con i Mazzy Star. E a dimostrazione che davvero non è mai troppo tardi per imparare, posso dirmi felice di aver avuto, allo scoccare del primo quarto di secolo speso su questo pianeta, l'accesso  all'arte di Joni Mitchell, una vera regina della poesia in musica.
Devo ammettere che ce ne sono state davvero tante, e altrettante ce ne saranno domani. Non so di preciso da dove arrivino, nè cosa vogliano da me. Certo è che io ho un gran bisogno di tutte loro e che fa sempre piacere scoprire che al posto del cuore non ho un sasso.

sabato 7 marzo 2015

James McCurtry, "Complicated Game" [Suggestioni uditive]

James McCurtry,
Complicated Game
(Blue Rose Records, 2015)
★★★★















Mesi fa, su YouTube, fece capolino il divertente video di How I'm Gonna Find You di James McCurtry e io mi domandai da quanti anni non sentissi nemmeno pronunciare il nome di questo cantante. Possibile che fosse almeno dal 2008, anno della pubblicazione di Just Us Kids e del mio conseguente innamoramento per le sue liriche e la sua voce (in misura minore, per la sua musica)? Molto probabile.
Non so cosa abbia fatto James McCurtry in questi sei anni e mezzo, ma so cosa ho fatto io e cosa non ho fatto, cosa avrei potuto e cosa non ho potuto fare. Ed è curioso come Complicated Game, suo nono album in studio di dodici, nuovi pezzi, finisca per essere dotato di un'identità e di una forza pazzesche, che me lo fanno sentire affine e amare follemente. 
"L'antichità non ci è data in cosegna di per sè", diceva Novalis, "al contrario tocca proprio a noi saperla evocare": e questo McCurtry lo sa fare benissimo. Il pezzo che apre le danze, Copper Canteen, è il primo di una lunga fila di capolavori, una ballad tutta texana che profuma di fiori del deserto e di spremuta di cactus. E sempre figlie di questa ruralità un po' arcaica sono You Got To Me e Ain't Got A Place. Bisogna attendere il singolo How I'm Gonna Find You per avere il primo brano dalla marcata fattura rock di Complicated Game: coi suoi cori black, la batteria elettronica e il banjo infuocato di Curtis McCurtry è sicuramente la canzone più ricca anche a livello produttivo. Del resto, uno degli innumerevoli pregi di questo disco è proprio la studiata moderazione con cui James e il suo produttore CC Ardcock hanno dosato la presenza degli altri strumenti. In un serrato confronto fra tradizione folk e modernità roots-rock, spuntano fuori altre perle in cui il banjo, l'organo, il piano e la batteria sono solo lievemente accennati (She Loves Me, Carlisle's Haul, Cutter), ma non spariscono neanche pezzi più "radiofonici" quali These Things I've Come To Know e Long Island Sound. Il country svampito e post-moderno di Forgotten Coast rappresenta un episodio minore, ma dotato di una personalità unica e genuina, ulteriormente supportata dalla chitarra di un ospite d'onore come Dereck Trucks.
Finale straordinario quanto l'apertura: South Dakota è una canzone che poca gente sa scrivere, suonare, cantare, come un po' tutto Complicated Game, un album che testimonia che James McCurtry è vivo e vegeto e vuole solo essere lasciato in pace, proprio come molti di noi. 

martedì 3 marzo 2015

Doomraiser, "Reverse (Passaggio inverso)" [Suggestioni uditive]

Doomraiser,
Reverse (Passaggio inverso)
(BloodRock Records, 2015)

★★★★














Con dodici anni di attività sulle spalle e quattro album all'attivo, i romani Doomraiser sono la band che più di ogni altra persevera nel condurre la propria efficace ricetta doom ben oltre i confini nazionali. E se è vero che il loro ultimo disco Reverse (Passaggio inverso) potrebbe suonare come un passo indietro rispetto al capolavoro Mountains Of Madness (2011), è altrettanto palese che il ritorno a sonorità più scarne e dirette non coincide assolutamente con una perdità di qualità della loro musica. Questo perchè Reverse, di nuovo pubblicato dalla BloodRock Records, ha una storia da raccontare: quella del complesso che vive nei bassifondi del Metal ed è ben deciso a non uscire più dalle ritmiche lente e solenni del genere doom. Devoti alla funereità dei Black Sabbath, al suono scabro e minimalistico dei Kyuss e al doom puro dei Cathedral, i Doomraiser aprono il loro quarto album con la superba Addiction, dominata dalla magnifica voce di Nicola "Cynar" Rossi. La coppia successiva (Mirror Of Pain e Ascension: 6 to 7) riconferma l'estrema bravura dei chitarristi Montagna e Serpico e la certosina precisione del batterista Pinna, oltre a segnalare a chi ascolta che in Reverse non c'è più spazio per le lisergiche sperimentazioni di Mountains Of Madness: le lunghe, psichedeliche code dell'album precedente sono ormai solo un ricordo. Certo, anche qua c'è qualche momento in cui "Cynar" si presta a suonare le tastiere (la splendida In Winter), ma basta un riff marmoreo e distruttivo come quello di Aphosis a riportare tutto dalla dimensione del sogno a quella, ben meno rassicurante, del delirio.
Difficile poi comprendere quale soluzione offra la conclusiva Dio Inverso, uno dei passaggi più enigmatici dell'intera produzione del quintetto romano. E' un brano angoscioso e oscuro, guidato da un organo che sembra fare del caos un proprio, personalissimo oggetto di rappresentazione. Fino a quel momento, Reverse ha rasentato la follia e lo stato confusionale, e solo da ultimo sembra uscirne per raccontarci come è andata, incrociando il doom con lo stoner rock, offrendo innumerevoli sottigliezze di intonazione, scarti microtonali, impercettibili frammentazioni ritmiche.
Tirando le somme, solo l'apparenza potrebbe suggerire che Reverse sia un'opera meno riuscita rispetto a Mountains Of Madness: basta scavare (poco) più a fondo per scoprire che non è così e che ci troviamo di fronte ad un disco superbo, maturo, forse meno ambizioso, ma- almeno a parere di chi scrive -molto più bello.