martedì 27 ottobre 2015

Janis [Recensione]

"Il Rock&Roll è un lavoro duro."
                                                     Patti Smith, 1977

Anticamente, alle donne era preclusa l'arte della musica. Nell'età dell'oro della musica barocca, i conservatori europei non potevano ammettere studentesse e i soprani erano spesso maschi castrati (una moda che addirittura approdò anche nel Nuovo Mondo). Il gentil sesso non sempre poteva calcare le scene teatrali e ai tempi dello Stato della Chiesa qualche papaccio se ne saltò addirittura fuori con una legge che mirava ad esiliare da Roma le cantanti donne.
La donna e la musica erano due entità considerate fonte di pericolo e di immoralità, qualora unite. I bordelli straripavano di valide (e maledette) cantanti anche ai primi del Novecento. I borghesi e gli aristocratici mantenevano le ballerine e le riempivano di belle promesse fin quando non se ne stufavano, abbandonandole sulla strada o, peggio ancora, alla mercè di qualche pappone. Il jazz fu un'ancora di salvezza e un appiglio primario per moltissime cantanti della prima ora: Billie Holiday, Ma Rainey o Big Mama Thornton nascevano come prostitute o donne poverissime, ma anche forti e disposte a tutto pur di arrivare il più lontano possibile grazie al dono del canto. Bessie Smith, detta anche "l'imperatrice del blues", fu una delle prime a stipulare un contratto con una casa discografica (la Columbia) e a vendere miriadi di dischi (800.000 copie nel 1923!), ma fu anche un'artista avvolta nella sofferenza più cieca e destinata a morire giovane in seguito ad un incidente automobilistico, devastata da alcool ed eroina. Gli stessi vizi che fecero ammalare di epatite e uccisero, nel 1959, Billie Holiday e che, undici anni dopo, si sarebbero portati via anche un'altra cantante, una bianca. Janis Joplin, la cui vita è narrata in un bel documentario di Amy Berg al cinema in questo periodo.
Janis parla della vita di Janis Joplin, folle e geniale figura che gettò il ponte fra le grandi black singers della tradizione popolare e le hippies della prima ora. Texana, di Port Arthur, crebbe ascoltando Bessie Smith, Ella Fitzgerald, Hank Williams e Leadbelly. Militò in alcune formazioni bluegrass prima di scoprire le droghe e la bottiglia e, soprattutto, prima di scappare di casa per trasferirsi a San Francisco, dove nel 1966 si unì ai Big Brother & The Holding Company, punto di partenza della sua inarrestabile ascesa artistica. Tutto ciò che avvenne dopo il Festival di Monterey (1967) è storia: l'uscita di Cheap Thrills (1968) e l'allontanamento dai Big Brother, il soul screziato di rock di I Got Dem Ol'Kozmik Blues Again Mama! (1969), la fondazione della Full Tilt Boogie Band e l'incisione di Pearl, uscito postumo nel 1970.
Il documentario della Berg indaga su quei brevi e furiosi ventisette anni di vita passata a cantare, bere, drogarsi, soffrire e fare l'amore. Racconta di come la Joplin, col suo carattere egocentrico e ardentemente lunatico, divorasse chiunque decidesse di averla accanto sia come partner musicale che nella vita. Descrive le disavventure amorose di una voce possente e intensa, svela i segreti reconditi di testi un po' amari e un po' dolci, come quel Southern Comfort di cui era accanita consumatrice. Ma al di là della sua dimensione prettamente biografica, Janis mette sotto la lente di ingradimento il mestiere della cantante come nessun altro rockumentario ha mai fatto prima d'ora e non tanto casualmente decide di partire da lei, da Janis: la più grande di tutte le cattive ragazze del rock&roll.

domenica 25 ottobre 2015

Sinfonie di autunno (Pt. 2) [Suggestioni uditive]

I Dead Weather del 2015 (la Mosshart è bionda... ma perchè?)
Horehound, il primo album dei Dead Weather, uscì nell'estate del 2009 e mi piacque immediatamente. Dopo aver scoperto (con vergognoso ritardo) Elephant (2005), avevo fatto incetta di tutto ciò che riguardava, anche solo marginalmente, Jack White, e Horehound arrivò proprio al momento giusto. Ancora oggi, faccio girare volentieri Hang You From The Heavens, I Cut Like A Buffalo, Treat Me Like Your Mother, Will There Be Enough Water e perfino la cover di New Pony. Addirittura, all'epoca, arrivai a sostenere che i Dead Weather fossero il progetto più completo e rappresentativo che Jack White avesse mai portato avanti. Ma Sea Of Cowards (2010)- se si eccettua lo spettacoloso Blue Blood Blues posto all'inizio -sgretolò tutte le mie aspettative. Fu un album deflagrante, con quelle oscene rifiniture post-indie e quella atmosfera ambient che mal si adattava alla voce di Jack e a quella della Mosshart. Il nuovo Dodge And Burn (Third Man Records,) si confronta con storie violente e urbane, lascia spazio agli archi e alla vena di songwriting della Mosshart (che comunque coi Kills svolge un pregevole lavoro). Ha un paio di bei pezzi (Open Up e I Feel Love), ma per il resto è un'annacquata miscela di rock, country, swamp, garage e pop che non scalfisce minimamente alcuna emozione.
Recuperato in lieve ritardo, ma con vivo piacere, il pregevolissimo Stuff Like That There (Matador Records, ★) degli Yo La Tengo. E' un festoso guazzabuglio di inedite, pezzi propri rivisitati (come è una rivisitazione pure la copertina, ispirata a quella di Fakebook) e splendide cover, fra le quali spiccano I'm So Lonesome I Could Cry di Hank Williams e Friday I'm In Love dei Cure. Piacevole e caratteristico come solo molti dischi del trio sanno essere, non sarà l'album che vi risolve la stagione o la vita, ma merita uno, due, anche tre ascolti.
Altro risultato arriva, invece, da una band che un tempo attirava su di sè un certo scherno, se non addirittura offese gratuite e prive di fondamento: sto parlando dei canadesi Annihilator, che con Suicide Society (UDR, ½) firmano il terzo ottimo album di fila in pochi anni. Sarà merito dell'etichetta, sarà quel che sarà, ma dall'omonimo Annihilator (Earache Records, 2010) in poi si sono reinventati magnificamente, scoprendo come incanalare l'energia del loro viscerale trash metal in una varietà di forme più ampie. Un altro disco metal del 2015 di fronte a cui sarà bene togliersi il cappello, in grado di segnare l'equilibrio fra durezza e fruibilità. Meno cupo del precedente Feast (2013) e forse anche per questo ancora più convincente. 
Poi ci sono domande destinate a restare senza risposta. Una di queste è: ma quanti dischi hanno fatto i Saxon? Oppure: da quanto tempo esistono i Saxon? Grezzi, immediati, beoni, inglesi fino al midollo, questi ultrasessantenni sono a giro da qualcosa come quarant'anni e pubblicano album a cadenza biennale (con qualche eccezione) dal 1979. Il vero problema dei Saxon è che non hanno mai consegnato al grande pubblico un vero e proprio capolavoro: certo, c'è stata una sfilza di buone opere all'inizio degli anni Ottanta (da Wheels Of Steel a Denim And Leather) e qualche discreto lavoro disseminato qua e là, ma ad oggi il talento dei Saxon sguazza allegramente nell'oblio. Ne è un'ulteriore riconferma il nuovo Battering Ram (UDR, ½), che come il precedente Sacrifice (2013) è stato prodotto assieme ad Andy Sneap e che si fregia del bell'artwork di Paul Raymond Gregory. Battering Ram puzza, è pieno di canzonacce e di pochi spunti interessanti, oltre a risultare fondamentalmente anonimo.
Joe Bonamassa
Va da sè che "il troppo stroppia", ma Joe Bonamassa esagera. Sono uno dei pochi a non avere particolarmente gradito i suoi recenti lavori (sia Different Shades of Blues che Muddy Wolf At Red Rocks mi hanno lasciato freddo): è vero che, a trentotto anni, vanta un curriculum che farebbe invidia a chiunque (11 dischi in studio, 3 di collaborazioni, 12 live), un numero di copie vendute da far scomparire qualunque gazzilloretto fuoriuscito dal G3 e un prestigio oramai inattaccabile, ma un altro concerto pubblicato or ora è troppo. Live At Radio City Music Hall (Provogue, ★) sancisce il ritorno di Bonamassa ad una dimensione urbana del suo blues solido e duro come una roccia: c'è la solita band di fenomeni alle sue spalle, una maggiore iniezione di R&B, un paio di pezzi nuovi e una sfilza di grandi performances del pianista Reese Wynans, vero lato positivo di tutto il concerto. Per il resto, grandi schitarrate, qualche chiacchiericcio col pubblico newyorkese e una boria introvabile altrove, almeno nel grande panorama del blues.
Sempre parlando di boriosi, è vero che la nostalgia può avere rotto le scatole, ma di fronte a 1989 (PAX AM, ★) di Ryan Adams non si può fare a meno di essere nostalgici e di rimpiangere i lontani fasti degli Whiskeytown e del loro Strangers Almanac (1994). Il povero Ryan approda ad un particolare esperimento, quello del cover album track-by-track e decide di riproporre un disco di Taylor Swift, disco che non conosco, come non conosco la musica di Taylor Swift: tutti dicono che questo rifacimento è assai migliore dell'originale. Non voglio azzardarmi a pensare allora a come possa suonare quello della Swift! E pensare che quel Live At Carnegie Hall uscito ad aprile mi era sembrato uno dei migliori risultati dell'Adams solista. 
Ma questo autunno- cocenti delusioni a parte -me lo ricorderò perchè davvero ha visto uscire uno dei dischi più belli della stagione e di tutto quest'anno: Gates Of Gold (Proper/Bertus, ★) dei Los Lobos. Un ritorno in grande stile per una delle più grandi american band di ogni tempo (a detta di alcuni, la più grande fra quelle in attività). A spasso da 35 anni, reduci da successi e insuccessi, i lupi di Los Angeles sono ormai padroni di quel microcosmo sonoro e immaginario che hanno costruito esclusivamente grazie alla propria abilità di musicisti e compositori. L'ibrido punk-mariachi dei primi anni si è sviluppato, ha assunto forme (letterarie prima ancora che musicali) mutevoli ed è maturato nei numerosi capolavori che hanno disseminato lungo la strada (io li ho scoperti con l'opera maximaThe Neighborood, del 1990) . Quella stessa strada oggi li conduce a canzoni autunnali e solari, lontanissime da quanto hanno prodotto di recente (penso ai disgraziati frutti usciti dalle fucine Disney o anche a Tin Can Trust) e vicinissime ad un'idea di disco perfetto e iper-organico che ogni grande gruppo dovrebbe tenere presente. L'artwork è meravigliosamente evocativo, gli undici brani toccano tutto ciò che Hidalgo e compagnia hanno esplorato, in studio, dal 1984 ad oggi: troverete i mariachi messicani (Poquito para aqui, La tumba sera el final), le atmosfere più roots (Made To Break Your Heart, Gates Of Gold), splendide ballads della West-Coast (Magdalena, Song Of The Sun), la ruvidezza del blues (Mis-Treater Boogie Blues, I Believe You So) e qualche parentesi sperimentale (There I Go). 


Vivissimi complimenti anche all'amico Chris Cornell, che con Higher Truth (Universal, ½) firma il suo quarto disco solista e tira fuori dal cilindro un mazzo di canzoni davvero valide. Registrato con Brendan O'Brien (che per alcuni generi è davvero un altro Rick Rubin, ovvero una sorta di Re Mida della console) nel molteplice ruolo di produttore, chitarrista, tastierista e percussionista, con Anne Marie Simpson al violoncello (gli archi qua sono molto importanti)  e con il veterano Matt Chamberlain (un curriculum che esalterebbe qualsiasi grunger) alla batteria, è un agile disco semi-acustico che funge egregiamente da "lato B" del bellissimo live Songbook (2011). Voce- come al solito -magnifica, arrangiamenti riuscitissimi. Che altro dire? Il più bel disco solista di Cornell dai tempi dell'esordio Euphoria Morning (1999).
Ah, sempre in questo autunno è uscito il disco più brutto dell'anno. Anzi, chiamarlo "disco" è già un complimento: Avicii, Stories (Island Records, ★).


Crimson Peak [Recensione]

C'è un bellissimo film a zonzo per la penisola.
Si chiama Crimson Peak ed è diretto da Guillermo del Toro, un autore ammirevole e versatile, sceneggiatore, romanziere, disegnatore, appasionato di cinema e di forme d'arte assortite. Forme d'arte che nel suo ultimo film vanno unendosi e compenentrandosi. 
Crimson Peak non è un film per teenagers in crisi d'identità, ma una pellicola oscura e angosciosa, con un sostrato psicologico e storico che non lascia affatto indifferenti. Alla base del soggetto ci sono di fatto influenze che vanno dalla fiaba anglosassone agli studi sulle innovazioni (e sperimentazioni) tecnologiche dei primi del Novecento, il cinema horror gotico di Roger Corman e Mario Bava (maestri che del Toro cita sin dagli esordi) e lo Shining di Kubrick (almeno tre inquadrature fanno l'occhiolino). Ma, per esempio, ci sono anche la più bella scena di ballo che sia stata filmata negli ultimi anni, un sottotesto di incesto da brivido, l'eterna (speriamo di no) sfida fra scienza e superstizione, lo scontro fra l'aristocrazia decadente del vecchio continente (gli Sharpe) e il rampante pragmatismo dei capitalisti americani (i Cushing), una importante riflessione sul ruolo della donna in una società sottoposta al cambiamento e una storia d'amore combattuta e venata da un romanticismo fiabesco che non risulta mai melenso, abusato o squallido. 
Se si volesse ridurre ai minimi termini un film, si potrebbe dire che Crismon Peak è in grado di ricreare, in parte, ciò che il cinema di Tim Burton ha irrimediabilmente perso da una decina di anni, ma non sarebbe corretto: del Toro è ancora, in primo luogo, un artigiano, e nel suo ambiente è una figura di rara erudizione (nelle recenti interviste europee, tutti a sciorinare titoli quali Cime tempestose della Bronte o Rebecca la prima moglie di Daphne du Maurier, ma lui se ne salta fuori con libri incredibili quali Il castello di Dragonwyck di Anya Seton e, soprattutto, Lo zio Silas di Joseph Sheridan Le Fanu). Il lavoro svolto, anche solo a livello scenografico, in Crimson Peak, non è soltanto maniacale: è perfetto. La sua non è una pellicola di omaggi iconico-letterari messi lì per la gioia di qualche vecchio critico, nè una schermaglia istrionica di prove d'attore (tutti magnifici, da Jessica Chastain a Tom Hiddleston, da Charlie Hunnam alla Wasikowska, fino agli impagabili Burn Gorman e Jim Beaver), ma una vera e propria rivoluzione del canovaccio gothic horror. L'esperienza del cinema, ovvero la visione di immagini impresse su pellicola, diviene così la storia di fantasmi più importante di Crimson Peak, mirabilmente scandita nei tre, canonici atti dello script.
Meraviglioso.

venerdì 16 ottobre 2015

Suburra [Recensione]

Non lo definirei un "capolavoro", nè tantomeno il miglior film italiano uscito quest'anno (come hanno scritto quelli che trovano sempre una scusa per non andare a vedere altri film italiani), ma almeno il Suburra di Stefano Sollima ha fatto smuovere un po' le stagnanti acque del cinema di casa nostra.
Intanto, in molti lo hanno preso come un'indagine di finzione su Mafia Capitale. Sbagliato. Suburra è primariamente un libro di Carlo Bonanni e Giancarlo De Cataldo pubblicato da Einaudi un paio di anni fa (cioè quando la Mafia Capitale prosperava pur senza conquistarsi le prime pagine dei giornali) e prontamente modificato da Sollima in fase di pre-produzione: la storia del romanzo ruotava attorno all'eterna sfida fra la guardia e il ladro, con un ex-malvivente della banda della Magliana e un anziano tenente dei carabinieri come protagonisti. Il soggetto del film cassa in partenza la figura del tenente e mantiene solo il cattivo Samurai (Amendola al suo meglio), a cui vanno ad aggiungersi uno sgradevole politico di maggioranza (la maggioranza dei primi di novembre del 2011) di nome Malgradi (Favino), un viscido PR (Elio Germano vagamente sopra le righe), e ancora un piccolo e orgoglioso boss di Ostia, la sua ragazza tossica, una famiglia di zingari folli e ricchi e una escort di alto bordo. Storie che si intrecciano nell'arco di una settimana, mentre il Paese continua ad affondare e il Papa manifesta l'intenzione di dimettersi.
La sceneggiatura, costellata di colpi di genio ma pure di qualche caduta e di alcune stranezze, viene affidata alla premiata ditta Rulli&Petraglia. Il cast segue la migliore tradizione sollimiana e rinuncia ai soliti attorucoli nostrani antipatici e narcisisti, finendo con lo sfoderare eccelse prove di recitazione: Alessandro Borghi nei panni di Numero 8, Greta Scarano in quelli di Viola e Adamo Dionisi nel ruolo del cattivissimo zingaro Manfredi Anacleti. Ben sfruttata la colonna sonora degli M83, ma niente di nuovo (guardate gli ultimi film di Nicolas Winding Refn e capirete). Grandioso il lavoro di set, costumi e caratterizzazione generale dei personaggi.
Il risultato globale di Suburra è quello di un ottimo noir all'italiana (roba che non si vedeva dai tempi dell'eccezionale Arrivederci amore ciao di Soavi) che non rinuncia a nulla dell'estetica cara al suo autore e di cui, soprattutto, non viene meno la natura televisiva. Tanti additano un certo uso del colore, del montaggio e del taglio dell'inquadratura come un grosso limite del cinema di Sollima, che però in televisione è nato, cresciuto e promette di voler continuare a starci. Infatti Suburra è, in primis, l'episodio pilota di oltre due ore di quella che sarà una serie televisiva prodotta dal colosso americano della comunicazione Netflix in collaborazione con RAI, e poi, secondariamente, è un bel film di genere prodotto e diretto con tutti i rismi del caso, con una storia validissima, dei protagonisti abominevoli e convincenti, tanto rispetto per una tradizione purtroppo andata perduta e un occhio di critica sociale che non guasta assolutamente.

giovedì 15 ottobre 2015

Black Mass- L'ultimo gangster [Recensione]

Sono passati poco più di sei mesi dalla distribuzione nelle sale di Run All Night di Jaume Collet-Serra, pregevole action movie su un ex-killer della mafia irlandese che tenta di salvarsi da un cattivissimo boss di Hell's Kitchen interpretato da Ed Harris. Sempre Ed Harris era il boss di Hell's Kitchen nel dimenticato Stato di grazia (1990) di Phil Joanou, dove Sean Penn giocava di già a fare il poliziotto stradaiolo infiltrato. Risalendo ulteriormente un'ideale cronologia sulla malavita irlandese in America si arriva fino a Gli amici di Eddie Coyle (1973) di Peter Yates, film su una papabile trattativa mafia-FBI con un Robert Mitchum in stato di grazia. All'epoca delle riprese, Mitchum insistette con la produzione per incontrare un certo James Bulger, gangster di South Boston, ma non fu possibile. La storia di quel James Bulger viene narrata oggi in Black Mass di Scott Cooper, approdato in laguna (fuori concorso) lo scorso settembre e anticipato da mille chiacchiere riguardanti più l'attuale stato fisico di Johnny Deep che non la reale validità cinematografica dell'opera in sè.
In effetti, Cooper fornisce a Deep il suo miglior ruolo da diversi anni a questa parte (per chi scrive, dai tempi del magnifico Nemico pubblico di Mann, datato 2009): biondo, stempiato, occhi glaciali, buzza alcolica, denti orribili e una cattiveria orticante. Intorno a lui si raduna un cast dove irlandesi semi-sconosciuti funzionano meglio di tante star. La performance di Cumbercatch- per quanto osannato a destra e a manca -nei panni del fratello senatore Billy non è niente di straordinario, così come puzza di macchietta il federale gigione Kevin Bacon. 
Ancora una volta, guardie e ladri dialogano, si stimano, si ammirano. Non mancano cadaveri e tensioni assortite, doppiogiochismi e tradimenti. Insomma, non manca nulla di tutto quello a cui Scorsese (inevitabilmente tenuto d'occhio, specie nella prima parte), Mann, De Palma e recentemente perfino Ridley Scott (Black Mass ha diversi debiti con American Gangster) ci hanno abituati. Peccato che la prova di Cooper (bravissimo nelle assolate praterie musicali di Crazy Heart) sia soltanto una copia sbiadita, facilotta e perfino un po'noiosa di quelle di questi maestri. Black Mass non inventa, ma nemmeno reinventa, non osa e non rilascia giudizi. Lascia freddi come un serial poliziesco discretamente congegnato da guardare in seconda serata per poi andare a letto e non conservarne memoria alcuna al risveglio.

#TBT Best Of 1975 [Suggestioni uditive]

PREMESSA

Da agosto non ho più aggiunto altri "capitoli" all'esperienza del mio #TBT musicale, e sono stato uno sbadato incosciente. Il perchè è presto detto: ho lasciato fuori due meravigliose annate musicali, quella del 1975 e quella del 1965. La prima è qualcosa di incredibile e- assieme a quella del 1978 -di irripetibile. Mentre scrivevo, appuntavo, ricordavo, ascoltavo, mi risultava pressochè impossibile selezionare soltanto dieci dischi. Alla fine ce l'ho fatta. Sono dieci capolavori a fila. L'ordine va ovviamente di pari passo con il mio gradimento e con l'importanza che rivestono sia nella mia vita, che nella storia della musica. A conti fatti, quarant'anni fa sono usciti uno dei tre capisaldi di Bob Dylan e con ogni probabilità il suo disco che amo di più (finalmente, l'ho detto!), l'esordio di Patti Smith, il massimo punto di arrivo di tutta la carriera dei Pink Floyd, le prime convincenti prove di gente del calibro di Springsteen e Aerosmith, una perla unica e molto importante come Searchin' For A Rainbow della Marshall Tucker Band, uno dei manifesti dell'outlaw country firmato Guy Clark e tante altre seminali opere. 
Ho lasciato fuori per un pelo Zuma e Tonight's The Nite di Neil Young: il primo perchè è un ottimo disco senza essere un capolavoro, il secondo perchè uscì nel 1975 ma era a pieno titolo un album di quella "Trilogia del Dolore" e come tale aveva visto la luce nel 1973. Sono infine rimasti fuori il più bel disco in studio di Joan Baez, ovvero Diamonds And Rust, e lo splendido Young Americans di David Bowie.

1.
Bob Dylan, Blood On The Tracks (Columbia Records)

2.
Patti Smith, Horses (Arista Records)

3.
Pink Floyd, Wish You Were Here (Columbia Records)

4.
Bruce Springsteen, Born To Run (Columbia Records)


5.
The Marshall Tucker Band, Searchin' For A Rainbow (Capricorn Records)


6.
Aerosmith, Toys In The Attic (Columbia Records)

 7.
Bob Marley, Live (Island Records)

 8.
Bob Seger, Beautiful Loser (Capitol Records)
9.
Joni Mitchell, The Hissing Of Summer Lawns (Asylum Records)

10.
Guy Clark, Old N°1 (RCA Victor)





martedì 13 ottobre 2015

Sopravvissuto- The Martian [Recensione]

Scrivo in ritardo rispetto alla visione effettiva dell'ultimo film di Ridley Scott, giunto con The Martian al suo quarto traguardo in ambito di science fiction
Poco da dire.
E' il miglior film di Scott da qualche anno a questa parte (anche se a me The Counselor, pur con i suoi difetti e le sue grottesche esagerazioni, continua a piacere assai), ma non è un filmone.
Arriva in un momento florido per il genere e regge male il confronto con pellicole degli ultimi anni: sia Moon, che Gravity, che Interstellar sono di un'altra categoria. 
Matt Damon nello spazio è ingiovabile. Per il resto, il cast si comporta benissimo. E non potrei essere di altro avviso, visto che ci sono sia Jessica Chastain che Kate Mara, due delle attrici che preferisco.
Le scene girate su Marte sono troppo poche, ed è un peccato, dal momento che la fotografia di Wolski e i set curati da Arthur Max rappresentano indubbiamente il punto di forza di The Martian.
Dura troppo. Non ho letto il romanzo di Goddard, nè ho idea delle sue effettive dimensioni, ma a prescindere da tutto, 141 minuti sono tantissimi. 
Nel complesso, è un film godibile e funziona discretamente (meglio di Prometheus, senza dubbio!), ma forse da Ridley Scott, in termini fantascientifici, potevamo aspettarci di più.
O no?

giovedì 8 ottobre 2015

Anderson East, "Delilah" [Suggestioni uditive]

Anderson East,
Delilah
(Elektra Records, 2015)















Come spesso succede, scopro un autore e un album grazie al Buscadero. Mi fido, ascolto e viene fuori una chicca come quella di questo Anderson East. 
L'avventura musicale di Michael Anderson (in arte Anderson East), nato ad Athens in Alabama nel 1988, comincia nel coro della chiesa dove il padre svolge il mestiere di pastore battista. Suona il piano e già da adolescente si esibisce nei locali dello stato, nelle parrocchie, nei bar e in qualche teatro. Passa attraverso l'autoproduzione di due album e alcuni EP prima di finire nelle grazie di Dave Cobb (personaggio a giro da una decina di anni, ma già impagabile per la quantità di talenti scovati), che lo porta ai Muscle Shoals e gli fa incidere questo Delilah con uno stuolo di musicisti magnifici. Un'occasione più unica che rara per un ragazzo di neanche trent'anni che ama Wilson Pickett, Solomon Burke, Joe Tex, Aretha Franklin, Bobby Womack, Percy Sledge, Otis Redding e Dusty Springfield. Con ogni probabilità, Delilah è uno dei migliori album di soul bianco ad essere usciti negli ultimi anni, nonchè la realizzazione di un bel sogno da parte di Anderson, che dimostra, in dieci canzoni e poco più di mezz'ora, di possedere una voce della madonna e di saper mediare fra le lezioni canore dei vecchi maestri e le moderne tematiche di un southern singer
Numerose le firme ad essergli giunte in aiuto nella scrittura dei testi (non ultimo, Christ Stapleton, che ha firmato per lui la splendida Quit You) e tante le canzoni degne di una menzione speciale: Satisfy Me, Devil In Me, All I'll Ever Had, What A Woman Wants To Hear, Lying In Her Arms (unico brano scritto dal solo Anderson), oltre alla scalpitante cover di Find 'Em Fool 'Em Forget 'Em di George Jackson. Orchestrazione perfetta, essenziale quando lo necessita, ma pure più vicina al gusto di un Van Morrison di annata in un paio di momenti: tutto Delilah trasuda intensità e passione da ogni solco e merita almeno un ascolto. Almeno.

venerdì 2 ottobre 2015

Don Henley, "Cass County" [Suggestioni uditive]

Don Henley,
Cass County
(Capitol Records, 2015)















Entrare in un supermercato e ascoltare Hotel California (oltretutto, in una deflagrante radio edit di tre minuti e cinque secondi) non basta a dare per scontato che la poetica degli Eagles (e dunque di Don Henley) sia stata necessariamente digerita, assimilata e rivomitata dalla pop-culture. E' così oggi e deve essere stato così anche trentanove anni fa, quando uscirono singolo e album omonimi. Inutile scomporsi. Del resto, si sa, Hotel California è soltanto l'apice della produzione degli Eagles: prima di lui, tre dischi bellissimi e quella che ritengo la loro canzone più bella (Desperado, altrochè Hotel California!); dopo di lui, The Long Run (1979), testimonianza fedele di una mitomania consumata senza freni, malamente musicata e orrendamente prodotta e che avrebbe sancito lo scioglimento del gruppo. 
Ma Don Henley- texano, classe 1947, batterista dotato di una voce con cui può fare tutto ciò che desidera -incassa il colpo magnificamente e abbraccia con dedizione la carriera solista. Già nel 1982 pubblica l'accomodante I Can't Stand Still, disco di cantautorato mainstream che la Asylum Records consegna direttamente al macello della programmazione regolare. Poi passa alla Geffen, ed escono i suoi due capolavori: Building The Perfect Beast (1984) e The End Of Innocence (1989). Per tutti gli anni Ottanta e buona parte dei novanta (almeno fino al 1994, anno della reunion degli Eagles), Henley svolge, onestamente, il mestiere della rockstar. Dà titoli ai suoi tour, prenota stadi, vende dischi, scrive canzoni per terzi, compare sugli album di amici e colleghi. I quindici anni che intercorrono fra questo periodo  di immenso successo e l'intimismo, artisticamente melenso e commercialmente fallimentare, di Inside Job (2000) sono molto diversi da quelli che ci conducono oggi a Cass County.
Sin dall'incipit di Bramble Rose, cantata con Mick Jagger e con la giovane Miranda Lambert, è possibile evincere che non siamo di fronte ad un disco ampolloso o alla moda, nè tantomeno ci ritroviamo fra le mani un revival album dove Henley riabbraccia i suoni della sua fortunata new-wave. Anzi, queste dodici canzoni (anche se ne sono state incise in tutto diciotto) a tutto sembrano mirare fuorchè a tournè epiche e prestazioni da megagruppi. Cass County (contea dove il cantante degli Eagles è nato e si è avvicinato alla musica) è un disco che travalica la California degli Eagles, si riappropria di suoni e poesie texane e sboccia, definitivamente, a Nashville. La voce di Henley è fresca e riposata, i suoni sono perfetti, liberi da orpelli, pronunciamenti e vanità di ogni sorta. The Cost Of Living, un duetto con Merle Haggard, e Take A Picture Of This sembrano azzerare gli oltre quarant'anni che ci separano da Desperado, capolavoro a cui Henley ammicca a più riprese. Evitabili, sebbene suonate benissimo, Waiting Tables e No, Thank You: momenti troppo leggeri e "saloonistici" per un disco che, quando affronta il passato, lo fa con profondità e convinzione. L'intro di pedal steel di Praying For Rain inaugura la ballata più bella del disco, una pista di terra battuta attraverso la quale Don Henley passa come attraverso un varco che conduce ad un mondo parallelo, ad un'altra faccia dell'America. Words Can Break Your Heart e la possente e solenne That Old Flame (cantata assieme alla bella voce di Martina McBride) anticipano When I Stop Dreaming, altro momento troppo Radio America e troppo vicino ai diktat imperanti del country di Nashville che vede la collaborazione con Dolly Parton. Alla mediocrità risponde però Train In The Distance, uno dei momenti più selvaggi e suggestivi di tutto Cass County: sarò di parte, ma vista anche la presenza della signora Lucinda Williams, me la sento di dire che qui l'album tocca il suo apice. Ascoltandola torna in mente quello che disse John Fahey dopo aver visto in concerto Hank Williams: "le cose che accadono in queste canzoni non hanno causa, è come se piombassero giù dal cielo". Il breve e concludente passaggio rock di Where I Am Now diverte e chiude senza infamia e senza lode un disco che di lodi ne meriterebbe parecchie e che riconferma la grandezza di un rocker di primo ordine, un po' sparito dalle scene, certamente, ma ancora in grado di cantare, raccontare e commuovere.