lunedì 26 gennaio 2015

Napalm Death, "Apex Predator- Easy Meat" [Suggestioni uditive]

Napalm Death,
Apex Predator- Easy Meat
(Century Media, 2015)

★★★½
















I Napalm Death hanno sempre scritto più canzoni di quelle che il mercato poteva assorbire, ma finchè i dischi contenevano una buona selezione di quanto di meglio la band inglese stesse producendo in quel momento, non c'erano recriminazioni da parte di critica e pubblico. Però, a partire da Inside The Torn Apart (1997), per un bel pezzo, i conti non sono più tornati. Una volta che il gruppo presentava dal vivo pezzi intensi e sanguinari, il disco che usciva di lì a poco cominciava a sembrare poca roba, neanche paragonabile alla carneficina grindcore degli anni Ottanta e alle contaminazioni death e industrial degli anni Novanta. Ci sono voluti un cambio di etichetta (dalla Earache alla Century Media) e l'egida dell'illuminato produttore Russ Russell per riportare i Napalm Death a degli ottimi livelli, e tutto ciò che è venuto da The Code Is Red... Long Live The Code (2005) in poi non somiglia più all'equivalente culturale di una scarica di elettricità statica e non c'è niente a giro a cui paragonarlo.
Il sedicesimo album dei Napalm, Apex Predator- Easy Meat, non fa parte di alcuna tendenza del momento ricollegabile al grindcore. Gli Impaled, i Brutal Truth, gli Aborted o i Carcass pensano a soddisfare pubblico e critica, ma i risultati sono magri. I Napalm Death lavorano nell'oscurità, tengono le cose nascoste e se ne saltano fuori, a neanche tre anni dal precedente Utilitarian, con quattordici canzoni che rappresentano la cerimonia di questa oscurità, una conversazione desolata, di poche parole, fra Mark Greenway e lo Spirito della Carne, condotta sull'orlo della fine del tempo. Non è un materiale per un tour mondiale di genere, ma un lavoro purissimo, dove non è sopravvissuto alcuno strascico di influenza groove o death. Ogni canzone corre veloce dall'inizio ala fine, la produzione è lineare, diretta, senza sbavature. La title-track funge da intro perfetto all'universo nichilista descritto dai Napalm: un cosmo regolato da fondamentalismi e schiavitù, urla e distorsioni, fruste e alberi spogli che affondano le radici in discariche abusive, una tribù post-apocalittica che canta in coro. Tutta roba a cui ci hanno abituato sin dai tempi di Scum (1987) e che negli ultimi tre, quattro dischi hanno saputo tratteggiare con incredibile minuzia di particolari. Smash A Single Digit (disponibile, su YouTube, il video) è una fucilata allo stomaco di un minuto e mezzo. How The Years Condemn è un'invocazione per far concludere le invocazioni. Se negli anni Ottanta fu proprio Scum ad annunciare, nel mondo del metal, la morte dell'Anima oltre a quella della Carne, oggi i Napalm Death ribadiscono che lo Spirito di entrambe è morto mille altre volte e mille altre volte è rinato, e che ogni sua scomparsa è una catastrofe a sè stante. I testi di tutto Apex Predator somigliano a uno di quei sogni in cui si vorrebbe fuggire e le gambe non si muovono. L'incomprensione del mondo coincide con l'ostilità di un determinato sistema, e sta solo all'ascoltatore decidere se i fantasmi del passato riaffiorano casualmente o sono frutto di un preciso piano della società odierna. Anche se, come dimostra beffardamente la bellissima conclusione di Adversarial/ Copulating Snakes, nessun male di quelli che incombono sul presente verrà spazzato via.

venerdì 23 gennaio 2015

Due o tre cosette sugli Oscar 2015 [Scosse]

Il 2015 è un'annata da Oscar "scomodi".
Non c'è il film sull'Olocausto, non c'è il film sulle terme miracolose, non c'è il film sull'angelo custode, non c'è il film sul bambino bianco ricco che gioca col bambino nero povero, non c'è un film italiano, non c'è un film con cui Leonardo Di Caprio perde di nuovo la statuetta come miglior attore dando vita a nuove catene di imbecillità e ignoranza. Ma, del resto, gli Oscar di ignoranza ci vivono. Non sono un festival (e se ne guardano bene dall'esserlo), ma una festa ferocemente ancorata alle tradizioni, al galateo, al denaro, al potere, al sesso. Ogni edizione può risultare molto diversa da un'altra: una buona parte delle modifiche dipende totalmente da chi presenta. Quest'anno spetta a Neil Patrick Harris, il bietolone biondo che viene sgozzato nel bellissimo L'amore bugiardo, il compito di condurre le danze dell'ottantasettesima fiera dell'incongruenza cinematografica più ipocrita e trash al mondo. E, in tutta onestà, non lo invidio. Dirigere la cerimonia degli Oscar in diretta sulla ABC è davvero difficile: devi far ridere e far commuovere, devi saper premiare, annunciare e assolutamente non annoiare. Insomma, non te ne stai lì a leggere le notizie della sera come un Mentana qualsiasi. Pagano bene? Neanche troppo, sembra.
Ma forse non esiste un compenso abbastanza equo per passare una nottata a pronunciare nomi propri e aprire buste rinchiusi fra le quattro mura di un vecchio teatro di Hollywood. La stessa Hollywood che- come ci mostra Maps To The Stars -non esiste, o almeno non esiste più. La fabbrica dei sogni è anche fabbrica di incubi e perfino questa sua consueta e fanatica autocelebrazione nasconde lati oscuri e inquietanti. Se togliamo i film, eliminando così la finzione, cosa rimane? La realtà, e cioè un ammasso informe di persone che si muovono attraverso un mondo prefabbricato e fittizio fatto di soldi, soddisfazioni inutili e merda.
In una sola parola: gli Oscar.

- Rido già passando al setaccio quei settimanali che dicono che saranno "Oscar noiosi", o addirittura "Oscar letterari". E rido perchè capisco perfettamente che questi giornali nostrani hanno una concezione degli Oscar più americana degli americani stessi. Stesso dicasi dello spettatore medio che, come al solito, delle dieci pellicole candidate a migliore film ne ha viste a fatica una, ma che non rinuncerà comunque a bere caffè e guardare tutta la cerimonia (paga Sky, dovra pur vedere gli Oscar in diretta, o no?).
- Sinceramente, non mi aspettavo questa pioggia di nomination su film così belli, intelligenti e poco hollywoodiani come The Grand Budapest Hotel (chi mi conosce sa del mio rapporto amore-odio col cinema di Wes Anderson e sa che The Grand Budapest Hotel è forse il suo film che mi è piaciuto di meno, pur restando un'opera che nessuno sarebbe in grado di concepire, costruire, girare all'infuori di Wes Anderson stesso) o Boyhood, e così approfitto di questo spazio per fare spudoratamente il tifo per qualcosa e qualcuno: ricoprite Boyhood e Richard Linklater di Oscar, porca puttana!
- Sulla Gazzetta dello Sport di ieri c'è un articolo intitolato Il mistero di "Boyhood": il film girato in dodici anni. Sveglia, signori! Boyhood è uscito a ottobre. 
- La grande (e sicuramente legittima) attenzione riservata a Birdman (che con nove statuette è, al pari di The Grand Budapest Hotel, il favorito) mi ha lasciato già meno basito. Alla fine, Inàrritu è un regista molto ben considerato negli Stati Uniti e Birdman approda agli Oscar con una valigia piena di premi collezionati da Venezia in poi. Forse vale la pena specificare che... no, brutti dementi, non è un cine-comic Marvel e nemmeno DC! Ormai la gente pensa male ogni volta che legge il suffisso "-man" nei titoli, non ci si può fare niente.
- Ovviamente, anche American Sniper ha le sue candidature: sei, fra cui migliore film. Tutte meritatissime. Del resto, è bello. E più cercano di affossarmelo e sminuirlo e più me lo fanno piacere. Non mi metto a fare confronti fra Linklater e Eastwood su meriti, bravura, capacità, perchè non sono cose che mi interessano.
- Ma ecco. Parliamo di Interstellar che a detta di alcuni è candidato  "solamente" a cinque Oscar. "Solamente" perchè sono tutti "soltanto" Oscar tecnici. Embè? Cinque Oscar sono molti e, in questo caso, giusti. A cosa dovevano candidarlo? A migliore sceneggiatura? Suvvia, gente... Continuate a perdervi nell'eterno, sterile dibattito del "Nolan nuovo Kubrick", se volete. Continuate a non far sussistere i fatti. Continuate  a parlare del nulla. E magari, ogni tanto, andate a vedere qualcosa di uno zinzillino diverso. Oppure abbonatevi al mensile Il mio giardino e smettete di andare al cinema. 
- Ci sono due brutti film candidati: si chiamano The Imitation Game e La teoria del tutto e ovviamente faranno strage di applausi, lacrime e statuette. Dispiace, perchè sono davvero vergognosi e accomodanti e a me l'arte accomodata sta sui coglioni.
- Sui film stranieri, il nostro orgoglio nazionale ne uscirà sicuramente ferito: fra quelle in concorso- oltre al russo Leviathan, del quale ho visto alcune sequenze che risultano di una bellezza superlativa -troviamo pellicole mauritane (Timbuktu) e argentine (Storie pazzesche). Oltre a scoprire il cinema mauritano, aspetto che qualche mente superiore si interroghi su come un paese in default come l'Argentina abbia un film candidato agli Oscar e la superpotenza italica no. Mi spiace, ma i dibattiti patriottici mi hanno sempre stimolato poco, specie se di mezzo c'è l'Arte.
- Ho avuto un sussulto quando ho letto che Maureen O'Hara riceverà l'Oscar alla carriera. Credevo che fosse morta.

martedì 20 gennaio 2015

Ryan Bingham, "Fear And Saturday Night" [Suggestioni uditive]

Ryan Bingham,
Fear And Saturday Night 
(Lost Highway Records, 2015)

★★★★















Talvolta non è necessario stare seduti in una decappottabile che sfreccia per qualche highway americana per sentire l'odore della polvere, vedere l'asfalto arroventarsi metro dopo metro e sentirsi ancora giovane e invincibile. Dico questo perchè non sono americano, non risulto più inscrivibile fra i teenagers, non amo le decappottabili (ma d'altronde, quale macchina amo?) e proprio non soffro il caldo: eppure può succedere, molto di rado, che le canzoni (e come loro i libri o i film) divengano le espressioni perfette di noi stessi. Ad esempio, non capisco come un certo tipo di romanticismo che odora lontanamente di dannazione stia passando di moda, ma non mi interessa: a rimetterci sono gli altri, io ho fra le mani Fear And Saturday Night di Ryan Bingham e conto di ascoltarlo per un bel pezzo.
Per i non addetti ai lavori, Bingham non è un cantautore qualsiasi partorito dall'industria discografica: Bingham è un trentaquattrenne texano, sin da piccolo intento a lavorare nel deserto in mezzo a serpenti e cavalli, cresciuto suonando la chitarra e cavalcando tori. Uno che la prateria la conosce e ne conosce le storie, quelle storie che ha raccontato sin dall'esordio Mescalito (2006) e che, nel 2010, lo hanno portato fino ad Hollywood, dove ha vinto l'Oscar per la migliore canzone con The Weary Kind (nella colonna sonora di Crazy Heart) ed è arrivato alle orecchie di un po' tutto il mondo (comprese quelle del sottoscritto). Da parte mia, sono stato un accanito sostenitore del suo secondo album, Roadhouse Sun (2009), ma pure il successivo Junky Star (2010), prodotto da T-Bone Burnett e maggiormente virato al rock, rimarrà fra i dischi del decennio, sia per la bravura della band di accompagnamento (i Dead Horses) che per l'eccelsa qualità dei testi.
Il nuovo Fear And Saturday Night segna il ritorno di Bingham alla Lost Highway Records dopo una strampalata avventura nel mondo dell'autoproduzione (Tomorrowland è uscito tre anni fa e non vale la pena ricordarlo). Il giovane cantautore lo co-produce assieme a Jim Scott (chi ama Tom Petty, gli Wilco e i Foo Fighters lo avrà sicuramente sentito nominare) e tira fuori un altro mezzo capolavoro sospeso fra alternative country (che poi è l'unica forma di country contemporaneo che valga davvero la pena di ascoltare) e outlaw rock in perfetto stile texano. Il torrido clima del Sud che permeava tutto Roadhouse Sun e ne faceva un autentico e attualissimo disco dell'estate lascia stavolta spazio alle tenebre e alla paura: Nobody Knows My Trouble è una pagina deliziosa, anche se un po' amara, un "notturno" che segue le orme di quei grandi brani di Townes Van Zandt che solo all'apparenza suonavano ironici e spensierati. Con Broken Heart Tattoos l'album inizia sul serio: la canzone è un tenero inno al passato, all'amore perduto, alle illusioni e al fallimento (irrinunciabile tema pregnante di tutta l'opera di Bingham, e prima di lui dell'intera compagine degli outlaw-rockers). In Top Shelf Drug e Island In The Sky, Ryan si abbandona di più a quelle elucubrazioni "acide" che non mi hanno fatto piacere Tomorrowland anni fa e che ora più che mai mi sembrano fuori luogo e inadatte ad un disco dove si parla di tutt'altro. Adventures Of You And Me è una brillante galoppata per boschi e fiumi in cui i protagonisti si fermano a pescare pescigatto, accendono un fuoco e fanno l'amore. E poi arriva la title-track, quella Fear And Saturday Night che dimostra quanto Ryan Bingham non sia affatto un poeta scialbo, meditabondo e zuccheroso come il novanta per cento dei suoi rivali odierni di Nashville. Qualunque idea di paura può cozzare male con il sabato sera, specie perchè è questo l'unico e universale momento di puro divertimento e spensieratezza della settimana, ma non è detto che debba durare per sempre. La fear a cui allude il titolo non è tanto una malinconica riflessione sull'adolescenza ormai tramontata e su quando davvero il saturday night rappresentava quel momento magico su cui investire tutti i sogni e le aspettative, bensì l'espressione della paura che può farsi strada, nella tarda giovinezza di ognuno di noi, sotto forme diverse.
Si va avanti con la solennità acustica di My Diamond Is Too Rough, passando sopra anche a un pezzo bruttino e insignificante come Radio e approdando a Snow Falls In June, un brano che certo non necessita di smosse rock per risultare pienamente riuscito, così come lo è la successiva Darlin', un'autentica canzone di amore texana che però non suona infantile o scopiazzata come un qualunque pezzo dei Kings Of Leon. L'onesta Hands Of Time, oltre a confermare definitivamente che in Fear And Saturday Night non c'è proprio spazio per il blues (ma non gliene faccio certo una colpa), ci porta diretti verso la fine dell'album: Gun Fighting Man è il modo- forse un po' dylaniano -di lasciarsi alle spalle le tenebre e di affrontare di nuovo l'alba. La band suona ancora in un angolo, Ryan Bingham canta in maniera meravigliosa e io mi accorgo che la bellezza di Fear And Saturday Night è merce rara. Musica in grado di commuovermi. Non la evito (perchè evitarla poi?), ma la ascolto. E scopro felicemente che è in grado di descrivere esattamente come mi sento e chi sono oggi e che Ryan Bingham si riconferma come il vero cantautore alternative country del nostro tempo.

lunedì 19 gennaio 2015

La teoria del tutto [Recensione]

Una settimana. Due film biografici su due diversi geni della scienza. Tutti e due i film sono piuttosto brutti, patinati e maldestri.
I numerosi difetti che ho trovato in The Imitation Game me li ha riproposti, in larga parte, questo La teoria del tutto, incentrato sulla vita e le scoperte di Stephen Hawking (Eddie Redmayne). Anzi no, solo sulla sua vita. 
Anzi, solo sulla storia d'amore fra lui e la prima moglie Jane (Felicity Jones). 
Gli studi e le scoperte di Hawking vengono vergognosamente accantonati dopo una mezz'ora striminzita di film, e posso garantirvi che quest'uomo non ha propriamente progettato un nuovo modello di cellulare, ma molto di più. Tutto l'apparato scientifico della storia ha lo spessore e la serietà di un articolo pubblicato su Focus.
La psiche (sicuramente più complessa e sfaccettata di quanto mostrato) di un simile genio non viene minimamente considerata: il regista James Marsh sembra limitarsi a dire <<E' un genio, può dire, fare e pensare quello che cazzo vuole!>>. 
Rimane la storia familiare, quella dell'Hawking privato, quella che più sembra interessare a chi mette in scena (sbattendosene totalmente di ricostruire in maniera decente certe epoche) il film. Peccato che anche questa finisca presto con l'annoiare: è tutto una colpa non dichiarata fino in fondo, una gelosia celata male piagnona, un visto-non visto penoso e- mi auguro -frutto totale dell'immaginazione degli sceneggiatori. 
Musiche prevedibilmente belle, tipiche di questi biopic venuti di moda e girati nella maniera sbagliata.
Protagonista in ottima forma, anche se a momenti siamo indecisi se avvicinarlo di più al Dustin Hoffman di Rain Man o al Ben Stiller che in Tropic Thunder impersonava Simple Jack (che poi parodiava Sean Penn in Il mio nome è Sam).
Globalmente, un film talmente tanto smanioso di piacere da risultare odioso.
E' candidato a cinque Oscar, fra cui miglior film.

venerdì 16 gennaio 2015

The Imitation Game [Recensione]


Non è una novità: le storie prima o poi finiscono. Anche le vite degli uomini illustri iniziano a scarseggiare. Ad Hollywood sono tutti preoccupati: ormai hanno raccontato di tutto. Artisti, giornalisti, scrittori, attori, poeti, cantanti, pittori, registi, magnati dell'industria, cuochi, esploratori, capi di stato, preti, papi, monarchi, leader di partito, colonizzatori, tutto è finito davanti ad una macchina da presa. Tuttavia, negli ultimi anni, è stato scoperto che anche le persone di scienza hanno una vita: forse meno interessante di quella di un figlio di papà che taglia in due la carta di credito e si mette a fare l'autostop, ma comunque una vita. Fragili, timidi, disadattati, sociopatici, geniali, gli scienziati rappresentano ormai una bella sfida per quei soggettisti e sceneggiatori al soldo delle potenti majors sempre avide di premi e denaro. Lo dimostra il fatto che negli ultimi quindici giorni siano arrivati, anche in Italia, due biopic su due diversi scienziati, uno del passato, l'altro del presente: Alan Turing (The Imitation Game) e Stephen Hawking (La teoria del tutto), due geni le cui scoperte hanno segnato in maniera indelebile il nostro tempo.
Per quanto riguarda The Imitation Game, ero relativamente interessato alla visione. Voti altissimi su ogni rivista, consigliato da tutti, anche da quei vicini di casa che vanno al cinema due volte l'anno per sbaglio. <<Un film carinissimo, e poi c'è coso lì... Cumbercatch... maiala, quanto è bravo!>>. Effettivamente, Benedict Cumbercatch è bravo, e non potrebbe essere altrimenti: Sherlock è piaciuto al mondo intero e il signor Weinstein vuole una pioggia di Oscar quest'anno, perciò l'attore deve essere uno amato in tv e al cinema, il film deve fare piangere e se riusciamo a trovare un personaggio che passi un po' anche da martire di qualche minoranza, meglio ancora. The Imitation Game riesce in tutto questo: l'Alan Turing di Cumbercatch è il protagonista di un dramma autentico che si protrae per oltre due ore e non sa veramente di niente. I comprimari (la Knightley su tutti) fanno ridere i polli. Questo Morten Tyldum è un regista che non ha idea di come concepire un biopic, gira a macchinetta, fa il compitino altrimenti lo licenziano e sarà bene che porti a casa una decina di statuette. Dal suo lavoro, viene fuori un film curato ma privo di anima, con l'attore protagonista bravo ma di una bravura "precotta", politicamente corretta e pensata per andare di pari passo con scenografia, fotografia e colonna sonora. 
Ovviamente, sarebbe meglio non parlarne male, ma un film biografico goffo, ruffiano e iperconfezionato come questo non lo vedevo almeno dai tempi di Lincoln.

Marylin Manson, "The Pale Emperor" [Suggestioni uditive]

Marylin Manson,
The Pale Emperor
(Cooking Vinyl, 2015)

★★
















Il periodo di creatività più fervida per un musicista è di dieci anni. Ci sono poche eccezioni che confermano la regola, e non si può certo dire che Brian Warner- meglio conosciuto col nome d'arte di Marylin Manson -sia una di queste. Devoto sin dal prima ora alla causa industrial che investì il mondo della musica metal nei primi anni '90, il buon Brian attese cinque anni prima di pubblicare l'esordio discografico Portrait Of An American Family (1994), che nessuno volle ascoltare. Oggi, in compenso, è considerato un capolavoro, secondo solo al successivo Antichrist Superstar (1996). In quegli anni i dischi di Manson erano prodotti in maniera eccelsa e certosina, dietro la desk trovavano spazio "personaggini" come Trent Reznor e Robin Finck e la band regalava spettacolo in qualunque ambito. Non credo esista album, video o concerto di Marylin Manson concepito fra il 1989 e il 2004 in grado di risultare, anche solo lontanamente, sottotono.
Con The Golden Age Of Grotesque (2003), opera difficile, complessa e aspramente incompresa, Brian Warner ebbe l'occasione di cambiare per sempre la sua carriera: poteva abbandonarsi definitivamente al flusso elettronico della propria opera, consegnarsi al lato sperimentale e oscuro (non che fosse stato una creatura angelica fino a quel momento) del sotto-genere, ma decise di non farlo e tornò sui propri passi. Per me, Marylin Manson finisce lì, specie perchè dopo il solenne, geniale Grotesk Burlesk Tour, rimane ben poco del suo talento e del suo eclettismo. Da comparire nei film di Lynch (chi ha visto quel gran capolavoro di Strade perdute, sa di cosa parlo) passa a operazioni ben più mediocri (La setta delle tenebre), da sputare in faccia ad un'America perbenista, ipocrita e teledipendente approda al doppiaggio di videogames, dall'essere bandito a vita da qualunque evento mondano arriva a tenere mostre di pittura (imbarazzante), a produrre assenzio ed energy drink, a tenere banco con becere operazioni di beneficenza, a pianificare uscite di film, libri e linee di cosmetici da lui personalmente realizzati.
Insomma, Brian Warner è ormai uno pseudo-satanista da salotto: immaginate che il matrimonio con Dita Von Teese è stato officiato da Alejandro Jodorowsky e che i Festival del cinema di tutto il mondo fanno a gara a contenderselo! Ma la musica dov'è finita? Poco lontano.
Marylin Manson ha regalato ben poco di notevole al suo pubblico negli ultimi anni, tant'è che perfino il suo pubblico ha deciso di cambiare. Gli "skonvolti" statunitensi dei primi anni '90 hanno ridato indietro le tessere della Chiesa di Satana, oggi frequentano una parrocchia episcopale, sono ingrassati e bevono solo birra analcoolica. In Europa, invece, ha continuato a mietere vittime e vendere copie anche in trempi recenti: Eat Me, Drink Me (2007) è arrivato nel momento giusto, e tanti emo, vedendo quel ciuffo nero e la cipria, hanno deciso di passare dai Tokio Hotel a qualcosa di leggermente più "hard". La decadenza totale e imperdonabile di The High End Of Low (2009) è piaciuta forse a qualche ex-bowiano d.o.c. che si è voluto far conquistare dalle sonorità glam di questo mediocre disco. Born Villain (2012) è invece destinato a coloro che hanno rovinato Tim Burton, ovvero alla frangia malsana, gotica dell'hipsterismo. I testi si sono fatti sempre meno politici e sempre più surreali, la musica ha perso tutta la cura dark e industrial dei bei tempi che furono, e anche nel nuovo The Pale Emperor ci si discosta assai poco dalla mediocrità degli ultimi anni.
Certo, la musica fa qualche passetto in avanti: il co-produttore Tyler Bates deve avere informato Marylin che, da un paio d'anni a questa parte, libri e cinema strabordano di storie southern-gothic e che ora vale la pena sporcare di chitarre grezze, stradaiole e blues tutti i dischi del mondo. Viene chiamato addirittura il chitarrista outlaw-rock Shooter Jennings per una comparsata, mentre il papà di Sons Of Anarchy Kurt Sutter veste i panni di "consulente" per alcuni testi. Killing Strangers e Third Day Of A Seven Day Binge possono valere, da sole, tutto The High End Of Low, e qualche altro buon brano si ritrova qua e là (Warship My Wreck, Deep Six, Birds Of Hell Awaiting e la ballatona Odds Of Even), ma per il resto siamo a livelli bassi. Gli stessi livelli a cui nuota Brian Warner da quasi un decennio, complice il fatto che il contorno è ormai ben più importante della musica stessa. E non è di certo un bene.

giovedì 15 gennaio 2015

Bruce Springsteen, "The Album Collection Vol.1 (1973-1984)" [Suggestioni uditive]

Bruce Springsteen,
The Album Collection Vol. 1 (1973-1984)
(Sony Legacy, Box-set 8 Cd, 2015)
★★















Non sono mai stato un fan irriducibile di Bruce Springsteen. Lo stimo molto come poeta, scrittore e performer, e ovviamente avrei voluto esserci anch'io quando, alla fine degli anni '70, portò il suo carrozzone in Europa dando vita ad uno dei tour più belli e imponenti della storia (prima di lui, giusto gli Stones dell'American Tour '72 e la Rolling Thunder Revue di Dylan, dopo di lui i Guns dello Use Your Illusion World Tour e sempre Dylan, ovviamente, col Never Ending Tour, che va avanti da ventisei anni come se nulla fosse, ma di questo ne riparleremo...). Considero almeno tre dei dischi da lui incisi (Darkness On The Edge Of Town, The River e Nebraska) capolavori imprescindibili dell'arte del Novecento, e ne amo almeno un altro paio (Born To Run e The Rising). 
Non credo di averne mai frainteso troppo i messaggi, non l'ho mai accusato di sciovinismo come hanno fatto altri, non mi sono mai fermato a valutare le stelle e le strisce del suo disco più celebre come tanti altri caproni, non amo quanto ha prodotto negli ultimi trent'anni (fatta eccezione per The Rising, che è un disco diverso), non ho mai smaniato per andarlo a vedere in concerto (anche se chi lo ha fatto, perfino in tempi recenti, mi ha garantito che è uno spettacolo autentico) e mi interessa fino a un certo punto il suo coinvolgimento politico: il fatto che rifiutò di cedere i diritti di Born In The U.S.A. per uno spot elettorale di Reagan basta e avanza per regalargli ulteriori fette della mia simpatia. 
Come molti altri artisti, Springsteen negli ultimi anni si è impegnato ad aprire gli archivi, a ripubblicare e perfino a restaurare la propria opera, ma- contrariamente a tanti colleghi -lo ha sempre fatto in maniera molto blanda e superficiale, talvolta addirittura dispersiva. Non esiste, ad esempio un suo live decente pubblicato in maniera ufficiale, mentre gli scaffali dei collezionisti sono stracolmi di bootleg eccellenti accumulatisi in quarant'anni di carriera; allo stesso modo, questo primo volume della Album Collection non presenta neanche uno straccio di bonus track e dei sette dischi proposti già due erano stati rimasterizzati (Born To Run, nel 2005, Darkness In The Edge Of Town nel 2008). Che poi, badate bene, all'infuori di The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle e di The River, neanche c'era tutto questo grande bisogno di restaurazione. Nebraska è un disco registrato in casa con un 4-piste, un capolavoro della musica lo-fi, cavernoso e tetro come Tonight's The Night di Neil Young o come alcune cose dei Pearl Jam di fine anni '90. Born In The U.S.A. non sembra diverso dall'edizione cd del 1984, forse un po' più squillante a livello di suoni, ma finisce lì. E poi sfido chiunque ad ascoltare una qualunque hit presa da Born To Run o Darkness e a trovarmi le differenze con l'originale. 
Bob Ludwig è un grande tecnico del suono, uno dei migliori al mondo, ma qui si parla di un'ottantina di euro (edizione cd) da buttare su un box privo di contenuti speciali, novità o rarità ulteriori. Vale un po' quello che ho detto per i primi album dei Led Zeppelin rimasterizzati di fresco con l'aggiunta di remix, b-sides e pochi, pochissimi inediti: troppi soldi per un'operazione che puzza di disonesto da lontano. E pur sconfinando in tutt'altro genere, preferisco la maggiore onestà dimostrata dai Dream Theater nei confronti dei fans quando lo scorso maggio hanno fatto uscire, per soli 40 euro, la loro discografia in studio completa (1989-2011) e rimasterizzata: anche lì, nessun extra e l'enorme vuoto dovuto all'assenza dell'EP (che per me è sempre stato un album) A Change Of Season, ma a livello di prezzo non ci sono paragoni. 
Per il resto, non ci piove che il miglior Bruce Springsteen sia dentro questi album e che proprio da questi fuoriesca una sfilza di canzoni meravigliose, ma se proprio siete a scoprirlo adesso, procuratevele in un formato più economico e ugualmente dignitoso.

domenica 11 gennaio 2015

Ouija [Recensione]

Il 2014 è stato un anno abbastanza sfortunato per l'horror: ne sono usciti pochi, molti dei quali insipidi, nessun capolavoro, manco mezzo bel film e pochissime operette discrete (Clown è stato un po' la gradita sorpresa, quasi l'eccezione che conferma la regola). Il 2015 non parte meglio, visto che da quattro giorni le sale italiane ospitano Ouija di Stiles White, una sorta di grande prova definitiva che la Platinum Dunes di Michael Bay dovrebbe smetterla di produrre film e diventare una tavola calda. 
In quanti film, da L'esorcista in poi, abbiamo visto questo balocchino? Una trentina? Da parte mia, ricordo molto bene Amityville 3D (1983) del grande Richard Fleischer, la brutta (brutta, ma neanche paragonabile a Ouija) saga di Witchboard uscita a cavallo fra anni '80 e anni '90, Le verità nascoste di Zemeckis e persino il primo Paranormal Activity. Ma qua siamo a dei livelli di insostenibilità unici. 
Con un "piccolo" budget di appena cinque milioni di dollari (vorrei ricordare che Le streghe di Salem di Rob Zombie è costato un milione e mezzo), White si occupa di due soli aspetti: il primo è di fare pubblicità al gioco da tavolo Ouija di cui è proprietaria, dal 1991, la Hasbro (ridicolmente coinvolta nella co-produzione del film); il secondo è di portare il pubblico a vedere uno degli horror più stupidi e incongruenti usciti negli ultimi cinque anni. E il bello (si fa per dire) è che gli sta pure riuscendo: gli incassi sono ottimi e ai pre-adolescenti e agli adolescenti (fascia di età a cui il film si rivolge) il film sta piacendo. Del resto, si sa che tutto ciò che spenge il cervello è portato ad ottenere maggiori consensi. Ma Ouija non è solo un film girato di merda, fotografato alla cieca, interpretato da schifo e montato malissimo: ha pure le musiche brutte e rappresenta, in tutto, la morte del cinema dell'occulto. La psicologia dei personaggi è piatta come un francobollo, la paura non arriva mai se non sottoforma del classico salto sulla sedia, gli effetti speciali non sono pervenuti e lo spirito maligno è trattato come un mobiletto.
Il poster sbandiera in grande il fatto che il film è prodotto dagli stessi di Non aprite quella porta (che di tutti i remake brutti è uno dei peggiori) e Insidious (che non mi piace, ma riconosco che possa trovare un suo pubblico): e dovrebbe essere questo un motivo di vanto? Evidentemente sì. Immaginate quanto siamo nella merda.

mercoledì 7 gennaio 2015

Si accettano miracoli [Recensione]

Durante le ultime settimane, il cinema italiano ha assistito a eventi abbastanza straordinari: il primo è stato che Ma tu di che segno 6? di Neri Parenti è stato bandito dalle sale del regno il 23 dicembre (dopo appena dodici giorni di permanenza) e ha rappresentato uno dei più grandi flop della storia del cinepanettone, complice sicuramente la scarsa attualità dei suoi contenuti e magari un minimo di lungimiranza in più da parte del popolino, che risparmiando su tutto (5% in meno di spese natalizie rispetto al 2013) ha pensato bene di tenersi 7,50€ per comprare un panettone in più. Devastanti anche i risultati della Filmauro,  che con Un natale stupefacente (che ho visto ma non ho recensito per rispetto al mio stesso blog) si sono posizionati quinti nella scala dei film delle feste. Gli unici che si sono difesi sono stati Aldo, Giovanni e Giacomo, scaduti come uno yogurt aperto da sei mesi, ma comunque ancora in grado di attirare un pubblico che ama una commedia leggera e meno volgare della media. Per il resto ha incredibilmente vinto la qualità: l'ultimo Hobbit non è neanche paragonabile ai primi due capitoli, ma è stato il film più visto nelle sale, e quel mezzo capolavoro di L'amore bugiardo ha avuto una risonanza e un successo del tutto inaspettati. Perciò, si poteva quasi dire che la sconfitta ormai definitiva del Cinepanettone potesse essere un segnale di buon auspicio per un 2015 italico all'insegna di una maggiore intellighenzia. E invece no.
In sordina e fuori tempo, torna ad angosciarci la vita Alessandro Siani, il comico napoletano che non fa ridere ma che, con il suo Il principe abusivo, totalizzò, nel 2013, l'invidiabile cifra di quindici milioni di euro di incasso, autoproclamandosi "nuovo Massimo Troisi". Rai Cinema pensa bene di avviare l'anno puntando tutto su di lui e sulla settimana dell'Epifania, mandando in sala il nuovo Si accettano miracoli, film dove l'uomo del sud incontra la religiosità, o meglio ancora la superstizione. Siani veste i panni di Fulvio, un dirigente spietato che licenzia senza pietà, ma che, licenziato a sua volta, tira una craniata al suo superiore e finisce in galera. Ne esce come un cristiano rinato e va ad aiutare il fratello prete Don Germano (De Luigi molto ingrassato) nella parrocchia di Rocca di Sotto, una di quelle in difficoltà economiche e a rischio smantellamento. Un po' come accadeva nei film di Totò degli anni '50 (anche se ai cultori tornerà in mente perfino Celebrity di Allen), Fulvio decide di rilanciare l'immagine turistica del paesello inventandosi il miracolo della statua del Santo che piange. Peccato che i miracoli inizino ad avere luogo veramente, complici anche i bambini del grande vicinato napoletano.
Raramente si trova un film così stupido. Raramente si è vista un'idiozia nella costruzione dei caratteri tale che i personaggi cambino opinione da un momento a un altro senza alcun motivo. Raramente abbiamo visto (e spero rivedremo) un Fabio De Luigi così grosso e sfortunato, intento a recitare in maniera ignobile. E' dura notare le differenze fra la fotografia di Si accettano miracoli e quella di Tempesta di amore, e allo stesso modo è difficile arrivare in fondo alla visione: il film è veramente una merda, è lentissimo, stupido, pieno di quei buoni sentimenti che non esistono e smanioso di descrivere una provincia campana povera, onesta e piegata da un terzo dei problemi che la affliggono nella realtà. La regia di Siani è inesistente: badate bene, non intesa come regia invisibile (Wilder, Hawks, Eastwood, Comencini, ecc.), ma proprio come frutto di una incapacità ineguagliabile.
Gag escatologiche e buonismi onnipresenti fanno il resto e rendono Si accettano miracoli il film insopportabile che è. Quello in cui, nel finale, deve arrivare sempre il premio divino, un atto di fede e bontà che, oltre ad apparire totalmente irreale, si fa sempre più delirante. 

sabato 3 gennaio 2015

2015: l'anno che sarà (al cinema)... [Ombre elettriche]

Potrei tirarla via e dire che in tutto il 2015 uscirà un solo film.
Questo:

Ma non lo farò.
Il web e la carta stampata traboccano di anteprime e previsioni: mappazzoni vuoti e insulsi, news vecchie e risapute a cui viene data l'ennesima rilucidatina. Insomma mai che ci sia "nulla di nuovo sotto il sole". Ormai, le case cinematografiche anticipano titoli, poster, trailer, trame e casting anche con un comodo anticipo di quattro anni. Sappiamo già tutto quello che Disney produrrà da qui al 2019, possiamo navigare su IMDB e leggere tutte le pre-produzioni avviate dai nostri autori preferiti (molti dei miei o sono morti, o anche peggio non vengono fatti lavorare, ma questa è un'altra storia). La cosa peggiore è vedere un pubblico sempre più incompetente e ignorante coinvolto in decisioni precise: sono le ricondivisioni, i "like" di Facebook, i commenti entusiastici su Twitter e il numero di visualizzazioni su YouTube i mezzi potenti e stupidi con cui Hollywood (e ormai non più solo Hollywood) decide quale progetto portare avanti e quale bocciare. Questa cosa fa un po' incazzare, ma non mi impedisce di redigere una piccola lista su cosa assolutamente non dovrò perdermi da qui a giugno.
Dopo Eastwood, gennaio è all'insegna dei blockbusteroni bestiali: Exodus di Scott (15 gennaio) e il war-movie Fury di Ayer (29 gennaio). Sempre il 29, per quanto riguarda la commedia nostrale, potrebbe prospettarsi qualcosa di interessante: mi riferisco a Italiano medio di Maccio Capatonda. Febbraio si apre all'insegna di un grande ritorno (il 2015 sarà un po' un anno di grandi ritorni, di prosecuzioni di vecchie storie lasciate in sospeso e, si spera, di meno remake dell'ultimo biennio), e cioè quello di Alejandro Gonzàlez Inarritu, che dopo aver aperto il 71° Festival del Cinema di Venezia porterà il suo Birdman (fresco di sette candidature ai Golden Globe) nelle sale il 5 febbraio. 
Sempre di volatili veneziani si parlerà qualche settimana dopo: il 19 febbraio, infatti, uscirà l'attesissimo e già ampiamente celebrato Un piccione seduto sul ramo riflette sull'esistenza del cineasta svedese Roy Andersson, vincitore dell'ultimo Leone d'Oro. Il mese più breve dell'anno si chiuderà con l'opera di un giovane maestro del cinema americano: Vizio di forma di Paul Thomas Anderson è un thriller tratto dal romanzo (2009) di Thomas Pynchon e segna un rinnovo del sodalizio fra il regista di The Master e l'inossidabile Joaquin Phoenix. 
USA e Canada la faranno da padroni per tutto marzo. Prima (5 marzo) Wild del bravo Jean Marc Vallee, e poi un altro "ritornante" di lusso: ebbene sì, Michael Mann è tornato, sta bene, ci è mancato tantissimo e si spera che il suo Blackhat (12 marzo) non deluda le attese. Nuovamente nel marzo birichino si spera che Movies Inspired tiri fuori dal cilindro delle distribuzioni The Homesman di Tommy Lee Jones.
Aprile sarà un mese da cinema di genere: arriverà in data ancora da definire e con due anni e mezzo di ritardo rispetto alla sua premiere veneziana, Green Inferno di Eli Roth, assente dalla regia da ben otto anni. Il 9 vedremo Chappie di Neil Blomkamp, che ha già dimostrato quanto può valere un cineasta sudafricano sia con District 9 che con Elysium. Infine, il 22, pompato da una campagna promozionale (quasi) senza eguali, arriverà Avengers: Age Of Ultron. Speriamo che Whedon sia in grado di replicare la magia del cinefumetto perfetto ottenuta col primo capitolo nel 2012.
Siamo già a maggio. Un mese italiano, anzi italianissimo. Vuole il caso che i due più grandi registi del nostro paese abbiano deciso di far uscire quasi in contemporanea i loro nuovi film: Nanni Moretti sarà al cinema con Mia madre, e il premio Oscar Sorrentino ritornerà con La giovinezza.
Dopo undici anni di pre-produzione e innumerevoli soggetti scartati e riscritti, in casa Dream Works ce la hanno fatta: Jurassic World sarà il quarto capitolo della saga e uscirà in tutto il mondo l'11 giugno. Sono sinceramente curioso di vedere cosa potranno tirare fuori e confido in un livello bassissimo (se non inesistente) di serietà.
Non sono ancora fissate le date di uscita delle nuove opere di due grandi Autori: The Hateful Eight di Tarantino (però so che mentre scrivo, da qualche parte in Colorado, questo grande regista sta girando il suo film) e Knights Of Cup di Malick, della cui trama non si sa nulla ma che ha un trailer che da solo vale intere annate di cattivo cinema. 
Benvenuti nel 2015.

American Sniper [Recensione]

Dopo neanche sei mesi dall'uscita di Jersey Boys, nonno Clint Eastwood è di nuovo al cinema con un suo film. Un suo gran bel film, visto che si parla di American Sniper, nuova pagina di storia americana impressa su pellicola ad opera del regista californiano.
Il personaggio scelto è Chris Kyle (Bradley Cooper, che a ogni film migliora), cecchino texano, cristiano a modo suo, patriottico fino all'imbecillità, autore di oltre centocinquanta uccisioni (in guerra si dice "uccisione") e ottuso come un triangolo ottusangolo: insomma, il soldatino perfetto, quello dalla mira infallibile, quello accanto a cui i commilitoni si sentono invincibili e gli ufficiali al sicuro. La sua storia è quella di tante vittime del "sistema a stelle e strisce": cresciuto come "cane da pastore" in una famiglia bigotta, Chris cavalca nei rodei, va a caccia, sogna una vita da cowboy assieme al fratello e alla sera non si toglie il cappello, appoggia gli stivali sul tavolinetto davanti al televisore e beve litri di Lone Star. Alla fine degli anni '90 la sua ragazza lo lascia, perchè a letto "non vale un cazzo" (del resto, è noto l'assioma grande fucile, piccolo uccello) e lui si arruola nei navy-seals, il corpo speciale dell'esercito americano. Diventerà The Legend, la leggenda dei tiratori scelti nella guerra in Iraq, ucciderà uomini, donne e bambini come fossero sagome di cartone, sarà destinato a diventare l'uomo più ricercato dalle milizie irachene e troverà un valido rivale in Mustafa, siriano, ex-oro olimpico nel tiro a segno. Ma soprattutto Chris Kyle diventerà un vero eroe, uno di quelli per i cui funerali si chiudono le scuole, si bloccano le autostrade e si issano le bandiere a mezz'asta. 
Eastwood gira, non giudica. Prende un soggetto affrontabile da punti di vista differenti e lo fa suo, complice quella sorta di "regia invisibile" che ha fatto grande il suo Cinema: ci mostra la vita di un interventista che in quanto tale è qualcuno solo con un fucile in mano, un personaggio che non sta bene all'inizio del film e che in tempo di pace è un padre di famiglia afflitto da manie di persecuzione e incapace di trovare un suo posto nel mondo. La costruzione del carattere del protagonista è la forza autentica di American Sniper: Kyle è cieco, non vuole vedere quello che una buona fetta di mondo (Eastwood compreso, come si legge in molte interviste) può avere visto nella guerra in Iraq. Per lui, sul campo di battaglia si combatte davvero la guerra fra buoni e cattivi, fra bene e male, manco fossimo in un fumetto di super-eroi (quel numero del Punisher che il suo compagno di branda legge all'inizio). Non c'è pentimento e non c'è redenzione, non siamo di fronte all'uomo a cui la guerra fa cose terribili ma che, tornato a casa, diventa mansueto come un agnellino e più tollerante di un buddista olandese. Anche per questo, American Sniper era un soggetto ingestibile sia per il buonista Spielberg (nel 2012 doveva dirigerlo lui) che per l'ultra liberal David O. Russell (indicato da Cooper come regista del progetto più per motivi di amicizia che per altro): e invece, grazie a Eastwood- che gira uno, due film l'anno con una grazia impagabile -tutto è perfetto, tutto è dove deve essere (perfino le impressionanti immagini dei titoli di coda) e tutto è aperto alla chiave di lettura che lo spettatore preferirà adottare.

venerdì 2 gennaio 2015

Angra, "Secret Garden" [Suggestioni uditive]

Angra,
Secret Garden (Universal/Edel, 2015)
★★★½

















All'inizio del Nuovo Millennio, complice un'analisi autocritica coraggiosa e preveggente, i chitarristi degli Angra Kiko Loureiro e Rafael Bitencourt posero seriamente il problema della mancanza di ispirazione di cui la band sembrava soffrire. Al contrario, il primo cantante Andre Matos, il bassista e il  batterista incolpavano agenti e management di non essere in grado di gestire il successo internazionale a cui il gruppo era approdato dopo l'uscita di Fireworks (1998). Ne derivò che i primi istituirono un ciclo di provini per reclutare nuovi componenti, mentre i secondi fondarono gli Shaman. Paradossalmente, bisogna ringraziare la crisi d'ispirazione e di fiducia dei chitarristi, perchè è proprio dal 2001, quando uscì Rebirth (un titolo che non suonava già all'epoca per niente casuale), che gli Angra divennero una delle band progressive più prolifiche e amate della storia. 
Chi ha avuto di modo di apprezzare- spesso acriticamente -tutto quello che la band brasiliana ha prodotto negli ultimi quindici anni, avrà potuto notare come l'ispirazione testuale e dei contenuti sia cresciuta fino a diventare pericolosamente ingombrante rispetto alla qualità musicale e sonora della band: si prenda, ad esempio, il recente Aqua (2010), che somiglia tanto ad una raccolta di dieci poesie ispirate a loro volta a La tempesta di Shakespeare. Un disco riuscito solo in parte, buono forse per pubblicarci un libretto da stampa alternativa e paurosamente povero di idee compositive rispetto a un capolavoro come Temple Of Shadows (2004): eppure le doti di scrittura di Loureiro e Bitencourt riescono comunque a salvarlo e a farlo svettare al di sopra di una buona fetta dei concept-album che sovraffollano il panorama progressive ogni anno. Con il nuovo Secret Garden, invece, ci troviamo di fronte alla classica "inversione di marcia" e allo spartito che torna ad essere il protagonista assoluto sulla scena. Gli ultimi rimasugli etno-brazil (che negli anni '90 permisero agli Angra di arrivare al successo, specie con Holy Land) vengono spazzati definitivamente via dalla rigida produzione di Jens Borgen, svedese che accoglie la band ai Fascination Street Studios di Orebro e la ospita per tutto agosto, lavorando su una quindicina di pezzi dal forte sapore symphonic e newclassical metal. Il disco esce in Giappone il 17 dicembre ed è già perfettamente reperibile nei vari siti di streaming. Per la versione fisica  europea dovremo aspettare ancora un paio di settimane.
L'impatto di Newborn Me è quello di una grande opening-track, minacciosa come una palude infera, mutevole come il colore di un camaleonte. La voce del nuovo cantante Fabio Lione, così arrogante e sdegnosa, conquista già al primo ascolto, pur essendo messa al servizio di testi infinitamente meno significativi rispetto a quelli redatti nell'ultimo decennio dagli Angra. Ma la cattiva poesia non va confusa con la poesia banale, noiosa o irrilevante: i testi di Secret Garden somigliano al risultato finale dell'opera, sono eccitanti, nuovi, interessanti. Gli Angra maldestri di Aurora Consurgens testimoniavano un divorante amore per gli esperimenti linguistici di cui poche band potrebbero vantarsi, specie nel panorama del Metal, ma il risultato era quello (mediocre) di un grande edificio senza fondamenta e tetto. La successiva Black Hearted Soul è rapida e aggressiva, symphonic metal perfettamente arrangiato, con tanto di cori power e con il basso di Felipe Andreoli più martellante che mai. La più calma Final Light appartiene invece a un altro genere, la voce di Lione è per la prima volta in primissimo piano, perfino di fronte al muro di chitarre del duo Loureiro e Bitencourt: è una cavalcata sub-psicotica nella quale la "luce finale" evocata esce dalla rassicurante dimensione onirica e diviene unica e vera visione infernale. L'adrenalina con cui Final Light si conclude lascia spazio alla sottigliezza di Storm Of Emotions, in cui il testo si fa più enfatico e i sintetizzatori ci riportano alle origini del gruppo, dando vita ad un'avventura in technicolor riuscitissima. Con Violet Sky Secret Garden ci troviamo a metà del disco: la prima si perde un po' nel ricalcare gli stili del passato prossimo della band, mentre la title-track (che vede impegnata alla voce Simone Simons degli Epica) è la classica canzone da prendere, chiudere in un baule e dimenticare. E per quanto amore si possa avere per l'immediatezza, non c'è paragone tra l'estremo controllo compositivo della prima parte del disco e la simpatia senza freni tutta progressive di Upper Levels. Ben più indovinato è il duetto con Doro Pesch in Crushing Room, un brano semplice e innocente, lontano dalla sofisticazione che invece ritroviamo, subito dopo, nella penultima Perfect Symmetry, che deve un po' troppo forse ai Liquid Tension Experiment e che riflette, in toto, ogni luogo comune sul virtuosismo dei giganti del progressive metal. Ma proprio la ricerca del luogo comune è quella che porta Lione, nella conclusiva Silent Call, a raccontare di un uomo solo che si ritrova a camminare per le strade deserte della vita.
Perciò, si può affermare che soltanto alla fine di Secret Garden gli Angra lascino trasparire il desiderio di abitare un paesaggio musicale indifferente al tempo, al marketing e a ogni nozione di progresso artistico o di lavoro di gruppo. Un desiderio alieno a molte band progressive (si pensi ai Dream Theater del dopo-Portnoy o agli Opeth) e vicino ad un gusto molto più pop della musica rock. Ed è solo non cessando di essere gli Angra che questa tendenza alla banalità si riveste di un carattere sperimentale, transitorio, pronto ad essere bruciato e sostituito da una nuova fase creativa che- ne sono certo -non tarderà ad arrivare.
(Anche se, vi dirò, questa bella sbandata sinfonica a me piace un sacco!)