venerdì 29 maggio 2015

Muse, "Drones" [Suggestioni uditive]

Muse,
Drones
(Warner Music, 2015)















Se si è fortunati, si capisce che il tempo, la maturità (chiamiamola così, va') e l'esperienza consentono di selezionare e scegliere ciò che ci piace e ci emoziona senza curarsi delle mode, degli imperanti "gusti attuali" e di ciò che tutti (i media, in primis) spacciano per attuale o post-moderno. Questo essere slegati e liberi consente (a me e credo anche a molti altri) di vivere sempre e comunque in un mondo parallelo ben più prezioso di quello ufficiale e di avere un metodo per capire ciò che vale e ciò che dura- a dir tanto -per una sola estate. Nel caso dei Muse, le estati riservate al successo di portata globale e agli applausi della critica più "impostata"  saranno state più di una, ma sempre alla frutta sono arrivati. 
Perciò, mettetevi il cuore in pace (cosa che io ho badato bene di fare nel 2009, all'uscita di The Resistance), ascoltatevi Mercy alla radio fino allo svenimento e andate a letto presto. Drones è il classico disco contrattuale della nostra epoca e non sfigurerà a fianco delle recenti produzioni di Placebo, Killers, Coldplay, Kings Of Leon e Kasabian, tutte band perlopiù coetanee e vicine negli intenti. Tutte abili nell'apparire convincenti quando c'erano da mettere a segno quei primi (buoni) colpi, e tutte insipide nel riproporre, stancamente, sempre la stessa, squallida canzoncina disgraziata. 

lunedì 25 maggio 2015

Gov't Mule, "Dark Side Of The Mule"/ "Sco-Mule"/ "Dub Side Of The Mule"/ "Stoned Side Of The Mule" [Suggestioni uditive]

PREMESSA

Lo scorso autunno iniziai a scrivere la recensione di Dark Side Of The Mule, primo dei quattro box (cinque, se si considerano i due volumi di Stoned Side) assemblati dai Gov't Mule per celebrare i loro primi vent'anni di attività. Conoscendomi bene e sapendo sia che sarebbero trascorsi alcuni mesi fra l'uscita di un cofanetto e l'altro, sia che li avrei comprati tutti man mano che venivano pubblicati, ho aspettato di recuperarli tutti e di recensirli in un unico colpo tutti assieme. Come già successo, ho dunque stilato una fila di micro-recensioni per ognuno dei box di questa straordinaria band che ha indelebilmente segnato gli ultimi due decenni della storia del rock.

Dark Side Of The Mule
(Evil Teen Records, 2014, 3 Cd+ DVD)
★★★








Il primo bootleg legale della serie è forse anche il meno bello. Registrato all'Orpheum Theatre di Boston il 31 ottobre 2008, altro non è che un lungo (24 brani), amorevole concerto che ripesca pagine e pagine conosciutissime del repertorio dei Pink Floyd. Il granitico stile southern di Haynes e soci potrebbe apparire lontanissimo dalla psichedelia stellare della band di Rogers e Gilmour, ma in realtà viene a crearsi un incrocio di sonorità omogeneo e riuscito (soprattutto nella polverosa versione di Money), sebbene non stravolga troppo le canzoni originali. Tuttavia, encomiabili sono The Great Gig In The Sky (arrangiata come un disco Motown o poco ci manca), Wish You Were Here (mai ne potrete udire una versione più bucolica e rurale di questa), Have A Cigar (forse il brano che preferisco dell'intero box) e Time (riletta in chiave puramente sudista). Poche sorprese nel resto della scaletta, in cui, da ricordare, sono sempre e comunque covers: la bellissima Eternity's Breath di Jeff Beck e la successiva St. Stephen dei Grateful Dead.

Sco-Mule
(Evil Teen Records, 2015, 2 Cd)
★★★½







Raccolta più piccola della precedente ma enormemente più impegnativa e preziosa, Sco-Mule è la fedele documentazione di due serate che la formazione originale dei Muli (quella col compianto Allen Woody al basso, per intenderci) tenne ad Atlanta alla fine degli anni Novanta in compagnia dell'asso della chitarra jazz John Scofield, a sua volta accompagnato dal tastierista Dan Matrazzo. Viene a crearsi un quintetto che ricorda molto quello di Miles Davis (con cui lo stesso Scofield aveva suonato negli anni Ottanta), solo con le chitarre al posto dei fiati. Virtuosismi come se non ci fosse un domani, note che piovono da non si sa dove, reminescenze psichedeliche e funky che vanno a braccetto col jazz-rock proposto da questa formazione unica e irripetibile. Tosto, poco accessibile, eppure incredibile per tantissimi versi.

Dub Side Of The Mule
(Mascot/ Edel Records, 2015, 3 Cd+ DVD)
★★★★







Il più chiacchierato e discusso dei box nati per le celebrazioni del ventennale dei muli, è indubbiamente il migliore di tutta la serie. Presenta l'intero concerto del 31 dicembre 2006, spalmato su tre dischi e comprendente davvero di tutto: dai classici della band ai sentiti omaggi a band quali Procol Harum, Beatles e Rolling Stones (Cd 1), dalle tanto attese covers reggae suonate con Toots Hibbert dei Toots & The Maytals (Cd 2) ad un incendiario set finale che vede invece l'arrivo di Gregg Allman e John Popper (Cd 3). Magnifiche, sempre alla fine del terzo disco, le covers di Dylan e Bob Seger. Un'opera maxima di incalcolabile valore.

Stoned Side Of The Mule
(Evil Teen Records, 2014-2015, 2LP)
★★★½








Pubblicati (per ora) solo in vinile, i due volumi di Stoned Side Of The Mule sono usciti nel "Black Friday" del 2014 e per il Record Store Day del 2015, e proprio per questo la loro reperibilità è indubbiamente scarsa. Altro concerto di Halloween (31 ottobre 2009), altra location (il Tower Theater di Philadelphia), altra sfilza di canzoni meravigliosamente riadattate dai muli. Ma attenzione: qua dentro non troverete Satisfaction o Jumpin'Jack Flash. Al massimo, le "hits" stonesiane più note al mondo intero riproposte in questo ottimo live saranno Under My Thumb, Angie e Brown Sugar. Per il resto, la tracklist è studiata benissimo: ci sono una Monkey Man da brivido, una Ventilator Blues colossale, e poi ancora perle riscoperte come Doo Doo Doo (Heartbreaker), Slave e Shattered. Un po' ruffiana Wild Horses, mentre Can't You Hear Me Knockin' non sembrava aspettare altro che essere cantata e soprattutto suonata da Warren Haynes, che per l'occasione invita sul palco Steve Elson, già sassofonista di Stevie Ray Vaughan e David Bowie.

giovedì 21 maggio 2015

Youth- La giovinezza [Recensione]

Fa piacere notare come l'Oscar vinto lo scorso anno e il gigantesco successo "commerciale" scaturito da La grande bellezza (2013) non abbiano snaturato l'arte di Paolo Sorrentino, sommo maestro napoletano che a quarantacinque anni, col nuovo Youth in concorso a Cannes, si dimostra di nuovo costituzionalmente incapace di fare del cinema mediocre.
Alla base di tutto c'è un capolavoro della letteratura del Novecento, ossia La montagna incantata di Thomas Mann. Ma se nel libro, era il giovane ingegnere Hans Castorp a trascorrere le sue vacanze nel sanatorio del Berghof di Davos e ad entrare in contatto con una schiera di personaggi che gli avrebbero cambiato per sempre l'esistenza, Youth, al contrario, vede protagonista una coppia di vecchi amici, Fred e Mick (Caine e Keitel). Se proprio si vuole, il ruolo di Kastorp potrebbe spettare a Jimmy (un eccezionale Paul Dano), giovane attore californiano che, "quando non tira coca o si sbatte la fidanzata anoressica", legge Novalis. Ma come già accaduto ai tempi de Le conseguenze dell'amore (che con Youth condivide l'ambientazione alberghiera, lo sfondo svizzero e non in ultimo una profonda, toccante concezione dell'amicizia fra due esseri umani) qui è il contorno a fare la differenza: che siano monaci presumibilmente incapaci di levitare o figlie scontrose e insoddisfatte (un po' discutibile il personaggio di Rachel Weisz), l'umanità con cui Fred e Mick si confrontano quotidianamente altro non è che il panorama di (quasi) tutte le correnti di pensiero del nostro tempo. Per colmo di ironia, in mezzo a tante forze contrastanti e al termine di riflessioni venate dall'amara constatazione di essere giunti al tramonto della vita, Fred finirà col trovare il proprio equilibrio e a compiere un ultimo, purificante atto di amore. Perchè Youth, come ogni film di Sorrentino, anche di amore parla, certo senza ricorrere alle massime dei Baci Perugina o ai toni erotici di una marca di slip (a quello ci pensano i video musicali della pop-star Paloma Faith, nuova, discutibile fiamma del figlio di Mick). Dalle mucche agli alberi, prende forma un'idea di luogo (cinematografico ancor prima che geografico) dove Sorrentino fa convergere impressioni, sensazioni, riflessioni ed emozioni: quelle stesse emozioni che Fred definisce "sopravvalutate" ma che, anche grazie a Mick, scoprirà essere "tutto ciò che abbiamo e tutto ciò che ci rimane". 
Non ci sono le carrellate incredibili de La grande bellezza (forse sarebbero state di troppo), nè gli strazianti primi piani di Must Be The Place, nè la tensione de Il divo, ma tutto è più morbido, perfino più dolce. La fotografia di Bigazzi si evolve di nuovo facendosi più contenuta, esalando i profumi della montagna, il respiro del sanatorio, le ombre della sera, il silenzio degli orizzonti. Ad accompagnare il tutto, le grandi ballate di Mark Kozelek e i dondolii sonori che confinano con la musica classica (Fred è un compositore e direttore d'orchestra in pensione). E su questo mondo dove il tempo sembra fare strani scherzi e in cui tutto è profondamente simbolico e al contempo profondamente vero, gli occhi dell'ottantenne Michael Caine osservano luci e ombre della vita passata e disegnano una estrema e confortante radiografia dell'anima. 

mercoledì 20 maggio 2015

Canned Heat & John Lee Hooker, "Carnegie Hall 1971" [Suggestioni uditive]

Canned Heat & John Lee Hooker,
Carnegie Hall 1971
(Cleopatra Records, 2015)

★★★★
















Si prospetta un finale di primavera bello intenso sotto il profilo delle ristampe e, più in generale, degli album da archivio. Smaltita la sbornia del Record Store Day 2015 (qualche perla qua e là, ma anche tanta, tanta merce superflua) e, soprattutto, decimate le proprie economie, per gli appassionati sarà bene orientarsi su prodotti validi e meno costosi rispetto a quelle cataste di LP, raccolte e boxset vari protagonisti di quell'ameno evento giunto quest'anno alla sua ottava edizione. E così, cosa scegliere fra il concertone del 1976 pubblicato solo oggi su Willin' In L.A. di Linda Rostandt, Blues Alive NYC uscito ora dal cassetto di John Mayall, il poco primaverile Virginia Avenue di Tom Waits (testimonianza di una glaciale serata chicagiana dello "zio Tom" pre-Swordfishtrombones) e il perduto (negli anni '80) ma ritrovato bootleg St. Valentine's Day Massacre dei Little Feat?
Semplicemente, nessuno di questi.
Infatti, la Cleopatra Records, officina losangelina specializzata perlopiù in metallo pesante e tribute-albums, ha pensato bene di fare un piccolo e poco dispendioso dono a chi ama il boogie di John Lee Hooker e il fruttuoso successo che questo incontrò presso i devastanti Canned Heat. Un matrimonio felice che condusse all'ottimo doppio album collaborativo Hooker N'Heat (1970) e a cui fece seguito una luna di miele dal sapore agrodolce. La morte di Alan Wilson (armonicista, cantante e co-autore, con "The Bear", dei Canned Heat storici) nel settembre del 1970, non impedì alla casa discografica di organizzare un tour con lo stesso Hooker, tour che- a dispetto del relativo successo del disco e della grave perdita che aveva colpito la band -si sarebbe rivelato un calderone di blues luciferino in cui la tradizione nera e quella bianca si fondevano insieme ancora una volta. 
Vale la pena ricordare che da quella serie di concerti, nel 1981, la Rhino trasse Live At The Fox Venice Theatre, pubblicato in onore di "The Bear", oggi difficilmente reperibile e di qualità piuttosto scarsa. Motivo in più per procurarsi, a cifre davvero contenute, questo nuovo Carnegie Hall 1971. Personalmente, lo sto ancora aspettando di importazione, ma non ne ho disdegnato l'ascolto sul tubo. Sei canzoni per una cinquantina di minuti contro le dieci tracce da un'ora e venti del disco dell'81. Va bene, ma vogliamo proprio fare paragoni?
A parte il fatto che questo disco contiene la più bella Shake 'N Boogie mai registrata finora (quasi venti minuti di fuoco e fiamme), l'opera di remastering dei nastri è ottima (non perfetta) e la scaletta è nettamente superiore alle aspettative. "In scena" finiscono pezzi quali Framed, Let's Work Together, Hey Babe, Tease Me Baby e le pièces de résistance Shake 'N Boogie Back Door Man. Il risultato è un gran live di blues rock massiccio in cui si dimostra pienamente quanto il palco fosse un ambiente congeniale per l'accoppiata Hooker&Heat. Musicisti in forma smagliante e del tutto in grado di scagliare il proprio macigno di note nei modernissimi impianti degli appassionati di ieri e oggi. Canzoni di crudo boogie rurale in cui vengono innestate chitarre cruente e ritmiche hard. E niente fronzoli.
E' il Carnegie Hall 1971, bellezza!

lunedì 18 maggio 2015

Mad Max: Fury Road [Recensione]

Non ero scettico, ma nemmeno euforico.
Ho lasciato che i giorni passassero, fra un film buono e una zotta completa, e infine mi sono deciso ad andare a vedere Mad Max: Fury Road. Un film di cui tutti stanno parlando benissimo, molto atteso dai fans della saga, ottimamente accolto al Festival di Cannes (era la pellicola di apertura) e costato, letteralmente, anni di fatica al suo autore, un genialoide settantenne australiano di nome George Miller.
Il papà di Mad Max (e di Babe maialino coraggioso, e di Happy Feet) ha infatti impiegato circa tre lustri per pensare, scrivere, dirigere e farsi produrre il quarto film di una serie bellissima ma che forse continua ad essere poco conosciuta, almeno in Italia.
Da parte mia, amo molto il primo film, che additai come miglior chase-movie di sempre in una lista sulle pellicole automobilistiche di qualche anno fa e che, oggettivamente, ha fatto breccia nella cultura popolare di tutto il mondo (dal semi-plagio orientale di Ken il guerriero ai post-apocalittici italiani degli anni '80, passando per gli innumerevoli omaggi presenti in Fast & Furious e i videogiochi post-Fallout, fino a certi passaggi di quel La strada che ha valso il Pulitzer, nel 2007, a Cormac McCarthy). 
Comunque sia, vado al cinema.
Ebbene, mi bastano gli otto minuti precedenti la comparsa del titolo per capire che sono davanti ad un grande film e mi basta arrivare alla fine del primo tempo per accostare Mad Max: Fury Road a ciò che oggi il cinema è mediamente  in grado di offrire e realizzare che sto guardando un capolavoro. Il miglior film uscito finora quest'anno, curato in ogni più minimo dettaglio, emozionante a livello di immagine, innovativo sul piano della narrazione.
Tom Hardy è immenso, Charlize Theron meravigliosa. Le riprese non hanno uno sbafo, idem la colonna sonora, la sceneggiatura, le location (per chi fosse rimasto folgorato o pensasse che sono "fatte ai'ccompiute' ", il film è stato girato in Namibia e in Australia). Inoltre, ci si sente delle vere merde- passatemi il termine -di fronte a ciò che un uomo di settant'anni è riuscito a concepire, da solo, sotto un mero punto di vista di immaginazione. Un sogno che prende forma e che odora di polvere, acciaio, fuoco e sangue. Nulla che non avessimo già visto in Interceptor (1979), Il guerriero della strada (1981) e Oltre la sfera del tuono (1985), ma che comunque sa di fresco e non risulta essere "soltanto" il reboot di una delle più belle saghe cinematografiche di ogni tempo, ma un qualcosa di ben più valido. Un'opera d'arte dotata della giusta dose di anarchia, meraviglia e follia, da vedere, amare e rivedere fino a quando non ci si sente sazi.
Solo per poi chiederne ancora.

sabato 16 maggio 2015

The Gunman [Recensione]

Io vi troverò non era solo un film brutto: era un film sbagliato. Era sbagliato il modo in cui raccontava una storia abbastanza banale, e soprattutto era sbagliato il messaggio che- per i fortunati che non lo avessero visto all'epoca dell'uscita oppure qualche sera fa in televisione -era una feroce e reazionaria apologia della giustizia privata. Onestamente, mi auguravo che di Pierre Morel- ottuso autore di quella vergogna cresciuto nell'officina di Luc Besson -non avrei più sentito parlare, ma mi sbagliavo. Eccolo infatti tornare con una nuova co-produzione franco-americana: The Gunman, tratto da Posizione di tiro (1981) di Manchette, realizzato con un budget contenuto e arricchito (se di "arricchimento" si può parlare) da un bel cast di star internazionali.
Salta fuori che The Gunman è il classico film-inculata che vorrebbe ricordare l'action-movie semplice e puro degli anni Novanta e assestarsi sulla falsariga di tante dignitose pellicole messe in cantiere negli ultimi anni (mi viene in menteThe Equalizer fra le uscite più recenti), ma niente- e ripeto, niente -è in grado di salvare una simile turpitudine. Neanche Sean Penn e Idris Elba possono farcela, e tantomeno un Bardem che sembra sentirsi (forse giustamente) in imbarazzo. Ormai al cinema d'azione appartengono una serie di situazioni e meccanismi drammatici innumerabili, ma Morel li scavalca tutti, girando un film che vorrebbe essere tosto ma in cui non succede assolutamente niente. La storia dei pochissimi personaggi degni di essere definiti tali è malcostruita, il ritmo del montaggio è disagevole anche per coloro che sono abituati a passare le serate in casa davanti alla peggiore televisione.
Ovviamente il flop che The Gunman sta totalizzando nel mondo è da imputarsi alla sua moscezza, anche perchè è raro che un film d'azione, a prescindere dal bello o dal brutto, risulti così poco divertente. E diffidate di quei due o tre quotidiani che ne consigliano la visione "perchè tratto dal romanzo di Manchette" (segue la lista di tutti i film usciti negli ultimi quarant'anni ispirati ai libri di Manchette): andrebbero denunciati. 

Il racconto dei racconti [Recensione]

Sono uno di quelli spettatori che cercano di andare al cinema a prescindere da qualunque avvenimento pubblico o privato possa coinvolgerli.
Ritengo inconcepibile che la temperatura possa influenzarmi, nonostante capisca che l'ambiente della sala cinematografica, coi suoi bui e i suoi silenzi, non cozzi molto con l'idea dell'aria aperta vigente in un paese mediterraneo. Eppure, basta che la temperatura superi i 18° perchè le persone (non tutte, ma "la maggioranza delle persone") abbandonino in massa le loro città e i loro paeselli e si rechino in cerca di felicità, soluzioni e avventure che nulla hanno a che spartire con quegli uggiosi week-end invernali che tanto associano al cinema.
Perciò, tolti i film-evento, i cartoni animati e poco più, potrebbe apparire del tutto normale che la stagione cinematografica si sia conclusa con Avengers- Age Of Ultron: o meglio, questa è l'idea che passa attraverso lo spettatore medio, lo stesso che non vede l'ora di caricare secchiello e rotocalchi in auto, di cospargersi il corpo di oli benefici, di noleggiare un ombrellone in ventesima fila e di spendere anche una trentina di euro per una (ri)frittura in qualche ristorantino raccomandato da Trip Advisor. Per chi invece ancora non si vergogna a lasciar respirare le strade costiere, c'è un magnifico film in sala proprio in questi giorni disgraziati ed è Il racconto dei racconti di un regista famoso, magari poco "inquadrabile", senza dubbio dotato: Matteo Garrone. Potrei aggiungere che, al contrario dei suoi primi film, a me Gomorra e ancora di più Reality non sono piaciuti. Mi interessavano poco quando uscirono e non ho il minimo desiderio di rivederli oggi. In compenso, da Il racconto dei racconti emerge quel mondo- chiamatelo fiabesco, oppure fantasy - sfuggente e oscuro fatto di intrugli magici, cannibalismi, atti impuri, principesse chiuse in qualche castello, teste tagliate e coronate, cuori di drago e ninfe sfuggenti. Un mondo che a me piace eccome.
Magari un budget altissimo, gli effetti speciali costosi, un cast unico e un apparato tecnico composto in larga parte di mostri sacri non sempre garantiscono il risultato migliore, ma non in questo caso. Le tre fiabe, chiaroscure, barocche e grottesche estrapolate dal difficile Lo cunto de li cunti di Basile (chi non è propriamente digiuno di storia della letteratura italiana lo avrà almeno sentito nominare) sono il pretesto per girare quello che, anche solo a livello estetico, è uno dei film più incredibili mai usciti dal cinema italiano di tutti i tempi. Sullo sfondo di castelli incantati e boschi che sembrano uscire dai sogni tanto sono belli, si muovono strambi personaggi (su tutti, un inatteso Massimo Ceccherini), belle ragazze e creature fantastiche che però conservano intatte numerose analogie con la realtà, restituendo così alla fiaba quel valore moralistico che da sempre la contraddistingue. L'universo fantasy (perchè di fantasy, alla fine, si parla e perchè di fantasy, specie in passato, nel nostro paese se ne sono prodotti innumerevoli) di Garrone è fosco, ma pure intrigante, la musica di Desplat sgorga sinuosa, i protagonisti arrivano da quel calderone che è il folklore campano dove ribollono spiriti maligni, figure misteriose, segreti primordiali. Gli attori sono tutti perfetti e recitano con un brio e un coinvolgimento che nemmeno i sacerdoti di qualche antico rito pagano.
Insomma, nonostante il titolo, Il racconto dei racconti non è un film da coglioncelli che aspettano di vedere una concretizzazione di qualche noto gioco di ruolo, ma vero cinema di fantasia in movimento. Una nuova occasione per mostrare che la Settima Arte, quando vuole, sa ancora incantare tutti.

venerdì 15 maggio 2015

The King Has Gone (in memoria di B.B. King) [Suggestioni uditive]


Che B.B. King stesse male si sapeva.
Da vent'anni soffriva di diabete e di recente aveva subito un paio di ricoveri in quel di Las Vegas, città dove abitava da tempo. Il fatto poi che non fosse più un giovanotto non ha di certo giovato alle sue condizioni di salute.
Tuttavia, neanche in questi ultimi anni si era mai risparmiato e aveva continuato a comporre, incidere e tenere concerti. Dotato di una tecnica sopraffina in cui tutto era affidato al sound icastico della sua fedele Lucille (al secolo, una Gibson ES355) e ad un inquieto vibrato, B.B. King ha portato avanti per oltre sei decenni il suo show, uno spettacolo che affondava le radici nel fango del Mississippi, ma anche nella musica gospel, nella melodia di Memphis, nell'intrattenimento umoristico da vero uomo di spettacolo e in un senso della tensione drammatica rigoroso ed essenziale. 
Influente maestro di musicisti di ogni credo, razza e colore, superstar del blues prestata a salotti jazz e aperta a collaborazioni più hard o pop (dagli U2 a Slash), asso delle classifiche da metà degli anni Cinquanta in poi, titolare di una discografia streminata e talvolta povera di lavori realmente significativi, forse perchè vedeva l'album come una mera raccolta di singoli da piazzare in classifica. Ciò nonostante me la sento di consigliare vivamente tre suoi dischi:

Indianola Mississippi Seed
(MCA, 1970)
★★★★


Il primo album di B.B. King in grado di comprendere e far convivere al meglio tutte le vibrazioni della sua musica. Nove brani, quaranta minuti di esplosivo mix fra blues, R&B, jazz e rock prodotto e missato al meglio dal fido Bill Szymczyk. Forse il perfetto punto di incontro fra la tradizione del Mississippi e quella del sound di Memphis in un disco degli anni Settanta.





Live In Cook County Jail
(MCA, 1971, Live)
★★★★★


Ebbene sì: il mio disco preferito di B.B. King è questo superbo live registrato nel carcere di Chicago, ma musicalmente non ha nulla a che vedere con lo stile del blues di quella città. Il "Re" inforca la sua Lucille e accompagnato da una band coi fiocchi suona i suoi più grandi successi come mai prima di allora. Un capolavoro.




One Kind Favor
(Geffen Records, 2008)
★★★★


42esimo e ultimo album in studio del "Re", che, pluriottantenne, si diletta con materiale di Blind Lemon Jefferson, Howlin' Wolf, T-Bone Walker e John Lee Hooker. Superba la produzione di T-Bone Burnett per un disco fresco e- almeno all'epoca -inaspettato. Così come inaspettata fu la vittoria del Grammy per il miglior album blues del 2008.





Con lui se ne va uno degli ultimi (se non l'ultimo) bluesman che ha toccato con mano la miseria in cui la "musica dell'anima" è nata e si è sviluppata. Riley B. King era il suo vero nome, quello con cui si esibiva alla fine degli anni Trenta agli angoli delle strade della natia Itta Bena, Mississippi. Si racconta che fu suo cugino, Bukka White, a consigliargli di partire per Memphis, dove avrebbe cambiato nome, chitarra e vita. Una vita lunga, costellata di soddisfazioni e segnata da un inossidabile, cocente amore per il blues
Sia pace all'anima sua.




mercoledì 13 maggio 2015

Emmylou Harris & Rodney Crowell, "The Traveling Kind" [Suggestioni uditive]

Emmylou Harris & Rodney Crowell,
The Traveling Kind
(Nonesuch, 2015)
★★½














Da una parte c'è lei, Emmylou Harris, una vera "signora del rock", una che di sfizi se ne è tolti tanti: il suo nome compare in numerose opere capitali della musica del Novecento e alle sue spalle trova spazio una fulgida, pluriquarantennale carriera come solista, interprete, autrice, poetessa.
Dall'altra parte c'è lui, Rodney Crowell, texano, cresciuto alla corte di Townes Van Zandt, allievo di Guy Clark, emigrato a Nashville, sposato e divorziato da Rosanne Cash, figlia di Johnny. Due autentici outsiders la cui collaborazione non risale solo al recente Old Yellow Moon (vincitore, nel 2013, di un Grammy Award come Best Folk Americana Album), ma a molto prima. Di fatto, proprio dalla penna di Crowell furono partorite Amarillo e Till I Gain Control Again, due belle canzoni che trovarono spazio nel magnifico, terzo album della Harris, Elite Motel (1975). Da quel momento in poi il cammino dei due si sarebbe incrociato più volte, soprattutto nel percorso discografico di Emmylou, che sovente ricorse al cantante texano sia per le sue doti di paroliere che per la sua abilità chitarristica. Agli ultimi successi degli anni Ottanta seguirono oltre vent'anni durante i quali i due non avrebbero più lavorato assieme (fatta eccezione per Tragedy, canzone uscita nel 2000). Poi Old Yellow Moon, il successo, il Grammy e adesso questo The Traveling Kind.
Pur avendo dismesso l'immagine da ragazza di campagna in jeans e stivali da una trentina d'anni, la Harris non ha mai abbandonato il nudo e puro country. Tuttavia, queste nuove canzoni si aprono maggiormente verso le tastiere (The Weight Of The World) e la chitarra elettrica (If You Lived Here, You'd Be Home Now), fino a scendere laggiù nelle torride notti cajun con La Danse De La Joie, uno dei momenti più rappresentativi dell'eclettismo che sembra aver pervaso la coppia. Coppia che firma solo sei brani sugli undici totali: il resto è occupato da covers poco riuscite e ricicli di pezzi già pubblicati da Crowell e di cui si poteva tranquillamente fare a meno. Notevole No Memories Hanging Around, un vecchio successo di Rosanne Cash rivisitato, ma di certo non basta ad accostare The Traveling Kind al suo predecessore.
Emmylou Harris è una delle mie cantanti preferite, lo dico col cuore, un'artista degna di rispetto, ricca di personalità, forza e dignità. Amo molte sue canzoni, mi piacciono sia Elite Motel che Wrecking Ball (il mistico capolavoro con cui tornò in auge, grazie anche alla produzione di Daniel Lanois, negli anni Novanta) e ritengo All The Roadrunning (altro disco di duetti, solo con Mark Knopfler al posto di Rodney Crowell) uno dei dischi più belli usciti negli anni Duemila. Ma dai solchi di The Traveling Kind, mi duole dirlo, spunta fuori un po' di puzza di lezzo: magari non copre quelle tre, quattro belle canzoni, ma è possibile avvertirla. E da appassionato non posso che dispiacermene.

giovedì 7 maggio 2015

Dwight Yoakam, "Second Hand Heart" [Suggestioni uditive]

Dwight Yoakam,
Second Hand Heart
(Reprise/ Warner Music, 2015)
★★★★
















Stavolta la faccenda è seria. Molto seria.
Essendo nato a Pikeville, Kentucky, nell'ottobre del 1956, Dwight Yoakam viaggia tranquillamente per i sessanta, e viene da chiedersi perchè abbia aspettato così tanto prima di pubblicare il suo capolavoro.
La risposta, forse, è all'interno di Second Hand Heart, fatto uscire a metà aprile per la Warner e subito additato dagli esperti del settore come uno dei suoi migliori dischi (per chi scrive, il migliore), splendidamente prodotto assieme a Chris Lord-Alge e nettamente distaccato da quanto egli ha suonato e pubblicato in trent'anni di carriera. 
Infatti- a dispetto della sua copertina che mischia l'Elvis di Warhol con l'estetica western e con i trascorsi del suo autore -Second Hand Heart non è un album country, ma un disco di puro, solido rock con tutte le risme del caso. E' l'album che manda a casa tre quarti della musica commerciale di Nashville, quello che Bruce Springsteen non riesce più ad incidere dai tempi di The Rising, quello che arriva laddove neanche i migliori Hiatt, Pearl Jam, Mellencamp, Foo Fighters e rockers assortiti riescono ad arrivare e, infine, quello che riesce a dare finalmente un senso di compiutezza artistica agli ultimi anni di attività dello stesso Yoakam, che già sembrava rinato nell'ottimo 3 Pears (prodotto da Beck per la ritrovata Reprise un paio di anni fa).
I puristi del mondo country, quelli che masticano tabacco, non si tolgono mai il cappello e non vivono di certo nel nostro paese, dovrebbero indignarsi e dare Second Hand Heart in pasto ai propri cavalli, ma non è così, visto il debutto alla seconda posizione della Country Chart (l'album è invece diciottesimo, come numero di vendite, nella Billboard USA) e le oltre ventimila copie fatte sparire solo nei primi cinque giorni di permanenza nei negozi. Del resto, Second Hand Heart contiene canzoni una più bella dell'altra, ognuna con una sua identità, grintosa o evocativa che sia. Yoakam, che poteva ritirarsi a produrre country commerciale a Nashville e campare di rendita, passa con una naturalezza inusuale dagli swing elettronici alla malinconia di quel paio di ballate che trafiggono il cuore e arrivano sempre al momento giusto.  E il punto non è mai il genere, il pubblico o il marketing, ma l'opera in sè. E l'opera in sè profuma di straordinario.
Le chitarre di In Another World sono un godimento che scende dal cielo, e preludono ad una sferragliante trafila di brani meravigliosi: She, Dreams Of Clay, Believe, Liar, la title-track e la conclusiva V's Of Birds. Rimangono fuori solo il bluegrass di Off Your Mind, la scatenata Man Of Constant Sorrow e l'unico anello debole della catena, ossia The Big Time (che ha però ottenuto grande successo come singolo radiofonico). Vale la pena sottolineare che attorno a Yoakam si sono radunati musicisti straordinari, con ogni probabilità fondamentali nella creazione dell'amalgama che compone queste dieci tracce di grande musica americana. Un impasto strumentale sopraffino e un calore musicale davvero contagioso (almeno per chi si lascia contagiare volentieri dalla buona musica), fanno il resto. E poi ancora cuore, radici, presente e- perchè no? -futuro.