martedì 30 giugno 2015

"True Detective", 2x02 [Recensione]

Mentre The Western Book Of The Dead approda su Sky Atlantic frettolosamente doppiata in italiano (la mediocrità del doppiaggio di True Detective deve avere qualcosa di scientifico, e non parlo da talebano che si rifiuta di guardare cose che esulino dalla madrelingua), ecco arrivare Night Finds You, seconda puntata e primo episodio a vedere i tre sbirri intenti a fare (o non fare) il loro mestiere, ossia investigare sulla morte di Ben Casper.
L'indagine vera e propria inizia adesso, portandosi dietro tutti quei piccoli, preziosi dettagli caratteriali e narrativi mostrati nell'episodio di avvio.
Night Finds You è una puntata bizzarra e sfaccettata, una puntata su cui coloro che nutrivano tutte le riserve del mondo su True Detective 2 o si rassegneranno o si lasceranno definitivamente coinvolgere.
Del resto, inizia come un film di Bergman (un solenne dialogo crepuscolare fra una moglie e un marito) e finisce come un flashback di Saw (con tanto di maschera animalesca). Nel mezzo abbiamo la creazione della task-force dalla cui indagine sia Paul che Antigone troveranno modo di fare carriera (a Ray della carriera, come di tutto il resto, non gliene frega una beata), un interrogatorio a un oscuro psicoterapeuta delle Hills nel cui studio confluiscono particolari di arredo che vanno dall'Overlook Hotel ai quadri dell'Arcimboldo e un bel dialogo automobilistico fra Farrell e la McAdams (che è davvero bella e sarebbe da sognarla la notte).
La Notte è una componente importantissima sotto tutti i punti di vista, e non solo il momento su cui Frank racconta un'angosciosa storia di infanzia o in cui Ray ci porta verso il primo, autentico colpo di scena della stagione.
Continuo a non mettere bene a fuoco il personaggio di Taylor Kitsch: Pizzolatto gli fa avere la metà dello spazio destinato ai due colleghi, lo fa parlare pochissimo e si limita a fargli desiderare il ritorno in sella alla moto e a concedere una visita alla madre, prode proletaria californiana che vive in una roulotte con Maggiolone scassato annesso e tira avanti a pollo fritto e Pall Mall.
Al bar, Lera Lynn suona i soliti due accordi e canta canzoni che si somigliano molto (chissà se quello del bar è un teatrino che vedremo in ogni puntata), la cameriera latina sfregiata inizia a sbottonarsi e Vince Vaughn è formidabile. Probabilmente, la sua, è la parte meglio scritta e interpretata dell'intero episodio. Di contro, invece, va disperdendosi un po' l'interesse per i travagli familiari di Velcoro, personaggio che si presta meglio ad obbedire alla volontà del nulla (un tema già carissimo a Cohle che si riaffaccia anche in questa seconda stagione): il suo atteggiamento di fuga e disgusto nei confronti del mondo reale sembra ostacolato sia dal rimorso che da un ambiguo rapporto di protezione-repulsione nei confronti del figlio. Va anche detto, però, che il detective moderno- protagonista di una crime-story nietzschiana -non può che essere lui, in quanto è l'unico che, di fronte ad una latenza di scopo e di valori supremi, finisce sempre con l'affacciarsi sull'abisso del Vuoto.

giovedì 25 giugno 2015

#TBT Best Of 1995 [Suggestioni uditive]

#TBT Best Of 1995

Anno intenso il 1995: il grunge muore definitivamente ed esplode il brit-pop, grazie agli Oasis e al loro capolavoro, il seminale (What's The Story) Morning Glory?. Inoltre, la musica elettronica è sempre più interessante, variegata e aperta alle contaminazioni, e non è un caso che due giovani disc jokey inglesi (destinati a passare alla storia col nome di Chemical Brothers) segnino proprio nel 1995 un contratto con la Virgin e facciano uscire il loro primo LP, Exit Planet Dust.
In compenso, l'Heavy Metal attraversa una profonda crisi, ma i Dream Theater insistono con la loro formula progressive e pubblicano un bizzarro, bellissimo disco intitolato A Change Of Seasons.
Nel rock americano, c'è una splendida rinascita che arriva da chitarristi e cantautori del Sud (Terrell, Sonny Landreth, Tony Joe White), ma i veri paladini del movimento sono i Gov't Mule, che arrivano sul mercato con l'impatto di un meteorite. Come se non bastasse, i Phish pubblicano A Live One, uno dei dischi dal vivo più belli del decennio.

1.
Oasis, (What's The Story) Morning Glory? (Creation Records)

2.
Phish, A Live One (Elektra)

3.
Gov't Mule, Gov't Mule (Relativity Records)

4.
Chemical Brothers, Exit Planet Dust (Virgin Records)

5.
Smashing Pumpkins, Mellon Collie And The Infinite Sadness (Virgin Records)

6.
Terrell, Angry Southern Gentleman (Virgin Records)

7.
Dream Theater, A Change Of Seasons (East West Records)

8.
Sonny Landreth, South Of I-10 (Praxis Records)

9.
Aphex Twin, ... I Care Because You Do (Warp Records)

10.
Tony Joe White, Lake Placid Blues (Polydor)











lunedì 22 giugno 2015

"True Detective" 2x01 [Recensione]

Si può fare tutto, se si sa come farlo. Ad esempio si può iniziare a scrivere un romanzo un po' giallo, un po' nero, un po' southern-gothic, arrivare a cento pagine e accorgersi che si presta meglio a divenire una sceneggiatura. Magari per un film. Magari per un film lungo otto ore, e a quel punto si realizza che una serie televisiva antologica- che però somigli di più a un lungo film (dunque tecnicamente curatissima, difficilmente riassumibile, lontana dai ritmi standard della serialità) -sia la soluzione migliore. La si chiama True Detective e il gioco è fatto. L'autore del miracolo si chiama Nic Pizzolatto, scrittore nato in Louisiana nel 1975. La producono e interpretano per HBO  due grandi divi di Hollywood (Matthew McConaughey e Woody Harrelson) e diventa un instant-cult.
La prima stagione- leggendaria -si conclue nel marzo del 2014 e di acqua sotto i ponti ne passa tanta prima dell'arrivo della seconda, ma quando l'hype è alto, è alto.
Non faccio paragoni con la stagione precedente, perchè mi pare che non ce ne sia bisogno, nè sento la necessità di scrivere la listina delle cose che "mancano" di Rust Cohle e Marty Hart. Il perchè è presto detto: la prima puntata della seconda stagione- che si fregia dell'eloquente e meraviglioso titolo di The Western Book Of The Dead -è bella. Non carina, discreta o buona, ma bella. L'universo in cui è ambientata risponde ad una California fittizia e profondamente personalizzata, per quanto chi vuole non potrà esimersi dal notare reminescenze che vanno dai romanzi di Chandler alle atmosfere del Lynch di Strade perdute e Mulholland Drive. Attenzione, non sto parlando di citazioni, omaggi e indizi: True Detective si riconferma, al cento percento, un'opera (letteraria, prima ancora che televisiva) di Nic Pizzolatto.
La struttura, per fortuna, è totalmente cambiata rispetto alla prima stagione. A parte alcuni momenti, il flashback non è la colonna portante della serie, ma si va avanti orizzontalmente, con un numero di personaggi maggiore e di conseguenza una massiccia quantità di storie da raccontare. Lo sbirro tormentato e corrotto Ray Velcoro (Colin Farrell, che è di nuovo fra noi e promette benone) ha in comune ben poco con il ligio sceriffo Antigone Bezzerides (Rachel McAdams, ad ora il mio preferito fra i "quattro protagonisti"), e preferisce tessere rapporti col boss Frank Semyon (Vince Vaughn, che con tre primi piani fuga ogni dubbio sulle sue capacità di vestire i panni del villain), bere come una spugna, fumare incessantemente, difendere- con qualunque mezzo -il bimbo obeso nato dallo stupro della sua ex-moglie. Tanto per non farsi mancare niente.
Va da sè che il personaggio della McAdams, fuorchè fare lo sceriffo al meglio delle sue potenzialità e riversare ogni energia nel proprio lavoro, ha un matrimonio fallito alle spalle, una preoccupante propensione al gioco d'azzardo, una sorella ben inserita nel mondo delle webcam porno e un padre santone che non impone scelte a nessuno dal 1978 e, placidamente, cita Allen Ginsberg e annuncia l'estinzione della razza umana.
Ben più difficile da inquadrare, a conti fatti, è Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), ex-marine, biker pieno di cicatrici, agente della polizia stradale momentaneamente congedato. Dei quattro è quello a cui, almeno in questa prima puntata, è stato dedicato meno spazio, ed è indubbiamente quello che parla meno (anche se, va detto, si chiacchiera relativamente poco rispetto alla prima stagione): tuttavia, a lui Pizzolatto riserva l'onere e l'onore di scoprire- in maniera forse fin troppo casuale, perfino per un serial -il cadavere di Ben Casper, funzionario pubblico morto male assai.
Ora, alla luce del fatto che l'atmosfera della prima stagione- nonostante le 1827 miglia che intercorrono fra la Louisiana e Los Angeles -è rimasta intatta (complice il fatto che l'apparato tecnico della HBO ha ricompiuto il miracolo), che Justin Lin ha appena firmato il suo capolavoro registico (dispiace un po' sapere che dalla terza puntata non sarà più lui a dirigere i giochi), che i titoli di testa più belli della storia della televisione fanno ancora parte di tutto questo (e tocca a Nevermind di Leonard Cohen il compito di rimpiazzare Far From Any Road degli Handsome Family), che ci sono il cast, il bar, la Valley, l'eros, il cadavere, Nick Cave, le limousine, il Pacifico, le ville e le lampade da Nighthawks At The Diner, io corro a riguardare tutto questo e a chiederne ancora.

Chris Stapleton, "Traveller" [Suggestioni uditive]

Chris Stapleton,
Traveller
(Mercury Records, 2015)

★★★★★














Essenzialmente, scrivo di ciò che mi emoziona e Traveller, album di debutto di Chris Stapleton, mi ha molto emozionato.
Per una volta, devo ringraziare una delle poche radio ancora ascoltabili del nostro paese, e cioè Radio 3: nonostante tutto, da lì è passata la canzone che dà il titolo al disco, e il fatto poi che una nota rivista di musica italiana (la migliore, nonchè l'unico magazine mensile di cui mi concedo l'acquisto) abbia messo questo giovane cantautore del Kentucky sulla copertina del suo numero di giugno è stato solo un surplus. Di fatti, avevo già ordinato Traveller e ne avevo già ascoltato i singoli in rete.
Grande voce, grande musica, grandi canzoni. Un esordio che descrive un territorio dello spirito e dell'immaginazione che geograficamente sconfina nei grandi spazi dell'outback americano. Storie di viaggi e incontri, poesie di amore dedicate alla moglie Morgane (presente, come voce, in una buona fetta dell'album), due grandi covers (Tennessee Whiskey e Was It, entrambe superiori alle originali).
Stapleton nasce essenzialmente come author, un paroliere che per una decina di anni ha firmato grandi liriche delle stelle country and western di mezzi Stati Uniti, ma Traveller dimostra quanto questi sappia essere molto di più. Fiancheggiato dal produttore Dave Cobb, dà vita ad un immaginario dove converge un'ampia gamma di sensazioni, profumi e suoni. La mitologia del confine non si tramuta mai in pura retorica, mescolata com'è allo swamp rock, al country di Nashville (luogo dove l'album è stato registrato) e, in generale, all'universo roots. L'abilità di scrittore viene pareggiata da una voce magnifica, che canta di strade deserte, paesaggi assolati e serenate sotto la luna. Intorno a Stapleton, suona una band con mandolini, chitarre acustiche, pedal steel, percussioni e armonica, oltre all'organo di Mike Webb, pure chiamato a dare ulteriore colore alle strade e alle storie di un romantico border americano.

giovedì 18 giugno 2015

#TBT Best Of 2005 [Suggestioni uditive]

PREMESSA


Il #TBT è l'acronimo di "Throwback Thursday", il "giovedì dei ricordi".  Nel mondo dei social network, il #TBT serve perlopiù a rispolverare vecchie foto d'archivio o post datati, ma io preferisco prenderlo come un guardarsi indietro alla riscoperta di ciò che è stato dieci, venti, trenta, quarant'anni fa: ed è per questo che sul blog pubblicherò, ogni giovedì, il meglio della musica uscita nell'anno 2005, 1995, 1985, ecc. Una sfilza di top-ten che si occuperanno esclusivamente  della musica che più mi piace e che spero potranno fornire l'occasione per riscoprire (se non scoprire) delle belle appartenenti a un passato più o meno recente.

#TBT Best Of 2005

Come quasi tutti gli altri degli anni Duemila, il 2005 non dà i natali ad alcun capolavoro della storia della musica, ma si limita a veder uscire una manciata di buoni (in alcuni casi ottimi) dischi. Molte le band che non hanno più raggiunto i livelli di quell'anno: penso ai Queens Of The Stone Age di Lullabies To Paralyze o ai System Of A Down di Mezmerize. Perfino gli incensati e scialbi Coldplay si prodigano con dell'ottima musica in quello che finirà col rappresentare il loro massimo punto di arrivo, ovvero X&Y, disco dell'anno anche secondo Rolling Stone. Memorabile l'elettronica dei Boards Of Canada e le prove live di Lucinda Williams e dei Lamb Of God (di rado è possibile udire dischi metal registrati dal vivo paragonabili a Killadelphia).

1.
Queens Of The Stone Age, Lullabies To Paralyze (Interscope)

2.
Ryan Adams, Cold Roses (Lost Highway Records)

3.
Boards Of Canada, The Campfire Headphase (Warp Records)

4.
Lucinda Williams, Live At Fillmore (Lost Highway Records)

5.
System Of A Down, Mezmerize (American Records)

6.
Santana, All That I Am (Arista)

7.
Black Rebel Motorcycle Club, Howl (RCA)

8.
Lamb Of God, Killadelphia (Epic Records)

9.
Dream Theater, Octavarium (Atlantic Records)

10.
Coldplay, X&Y (Parlophone)










lunedì 15 giugno 2015

Jurassic World [Recensione]

La mia passione per i dinosauri è cosa abbastanza nota. Sin dall'infanzia, nutro una sincera simpatia per questi bestioni, specie se compaiono sul grande schermo. Fra le altre cose, sono passati quasi due anni da quando dedicai ai lucertoloni preistorici una bella top-ten qui sul blog: all'epoca, il pretesto mi fu fornito dalle prime indiscrezioni che ruotavano attorno a Jurassic World di Colin Trevorow, quarto capitolo della saga avviata da Steven Spielberg nel 1993. 
Oggi Jurassic World è nelle sale di tutto il globo: si è fatto desiderare per tredici anni (lessi la notizia che la Universal aveva messo in pre-produzione un sedicente Jurassic Park IV su un numero di FilmTv nell'estate del 2003), ha già polverizzato ogni record di incasso (non una novità per questo genere di franchise) e si è rivelato un sequel al di sopra di ogni aspettativa. Anche perchè, siamo franchi, dopo Jurassic Park III (2001) il timore di un secondo film diretto à la Joe Johnston ("giullare di corte" paurosamente caro a Spielberg) poteva essere più che fondato. E invece Jurassic World è un film riuscitissimo che gode di un'identità tutta sua, ricco com'è di tante piccole invenzioni originali e riuscite che si preoccupano di coccolare il vecchio fan e, al contempo, di meravigliare il neofita. 
Una buona fetta del merito va alla sceneggiatura, superiore- per dialoghi, ritmo e idee -perfino a quella scritta dallo stesso Michael Crichton per il primo Jurassic Park. E poi la regia, encomiabile, di Colin Trevorow, genietto proveniente dal sottobosco del cinema indipendente: precisa, asciutta ed equilibrata come solo il buon intrattenimento americano sa essere. Per quanto riguarda il cast, siamo su ottimi livelli: finalmente, una buona scelta di personaggi per una pellicola del franchise. Dopo i troppi istrioni coinvolti ne Il mondo perduto (1997) e dopo la disarmante assenza di un vero protagonista in Jurassic Park III, Jurassic World ci regala un nuovo, grande eroe che è Owen Grady (Chris Pratt, ormai decollato), personaggio simpatico e sfrontato che tanti stanno paragonando ad un nuovo Indiana Jones, anche se a me piace vederci qualcosa del Clark Gable di Mogambo.
Eccezionali i nuovi dinosauri mostrati (mi riferisco tanto all'ibrido da laboratorio Indominus Rex, quanto al Mosasaurus, portato a vestire i panni di un vero e proprio deus ex-machina) e magnifica l'opera di rinnovo e recupero della vecchia colonna sonora di John Williams effettuata da Michael Giacchino.
Almeno tre le sequenze che non mi stancherò mai di rivedere: la corsa in moto a fianco dei raptor, lo scontro fra il T-Rex e l'Indominus Rex, l'attacco degli pterodattili ai visitatori del parco. 
Jurassic Park è ancora in piedi. Lo scienziato pazzo ha lasciato il posto ai grigi affaristi al soldo delle multinazionali e a un manipolo di ottusi guerrafondai, ma i dinosauri non si fanno fregare. Il T-Rex fa ancora paura ed è ancora il re indiscusso della foresta, unica gradita certezza in un'era costellata dai dubbi.

venerdì 12 giugno 2015

Rolling Stones, "Sticky Fingers- Deluxe Edition Boxset" [Suggestioni uditive]

Rolling Stones,
Sticky Fingers- Deluxe Edition
(Universal Music, 2015, 2 Cd+1 DVD+Booklet)
★★★★















Prima dei rotocalchi e del jogging, prima dell'acqua minerale e dei concerti al Circo Massimo, prima del  caro-prezzi dei biglietti e dei Pirati dei Caraibi, prima del Super-Bowl e della musica sintetica, prima delle iperproduzioni di Don Was e delle settimane mondiali della moda, esistevano i Rolling Stones, una rock band inglese che nel 1970 aveva già venduto milioni di dischi e godeva di un successo che aveva lasciato di stucco tutti, perfino quei Beatles loro contemporanei e conterranei. Il contratto con l'istituzionale Decca si era concluso alcuni mesi prima, all'uscita del seminale capolavoro Let It Bleed (1969). Il gruppo era ancora scosso per la morte del suo storico leader e fondatore Brian Jones, l'uomo che in meno di un lustro aveva preso gli Stones e, partendo dagli standard R&B e blues, li aveva fatti rotolare attraverso tutte le tendenze della musica rock degli anni sessanta. E se Beggar's Banquet (1968) aveva esemplarmente incarnato il lato oscuro degli anni Sessanta, Let It Bleed rappresentava l'incandescente, mistico finale umano e artistico dell'epopea terrena di Jones, nonchè l'apertura verso nuove formule produttive e sonore (il coinvolgimento, fra gli altri, di Ry Cooder, Jack Nitzsche e Al Kooper, l'arrivo di Mick Taylor alla chitarra solista, la fusione fra il rigore britannico e le ruvide influenze d'oltreoceano, la produzione di Jimmy Miller). Il risultato era un disco magnifico e variegato, registrato on the road, dove capitava, un po' come Led Zeppelin II, uscito sempre nello stesso anno. Ogni brano, in Let It Bleed, faceva storia e genere a sè, e forse fu proprio per questo che il capolavoro successivo (perchè quella che gli Stones tirarono su dal 1968 al 1973 fu una sfilza di capolavori, c'è poco da fare) sarebbe stato un album omogeneo e inscrivibile in toto in quella grande Bibbia che è la musica americana. Questa grandiosa opera si sarebbe chiamata Sticky Fingers, avrebbe avuto una gestazione rilassata (le incisioni iniziarono addirittura nella primavera del 1969) e sarebbe uscita per la loro nuova etichetta indipendente (The Rolling Stones Records) il 23 aprile 1971.
L'atmosfera delle dieci canzoni era quanto di più lontano si potesse immaginare dai primi embrioni di hard rock disseminati per il mondo in quel periodo o dal beat britannico che la band si era già lasciata alle spalle. Canzoni come I Got The Blues, Dead Flowers o Sway non solo rappresentavano una continuazione ideale di Love In Vain, Country Honk e Midnight Rambler, ma incarnavano compiutamente i suoni della storia e degli spazi degli Stati Uniti. Merito degli umori sudisti recepiti ai Muscle Shoals, della produzione di uno strafatto Jimmy Miller, di turnisti come Billy Preston, Ry Cooder, Nicky Hopkins, Jim Price e Bobby Keys, di fonti d'ispirazione quali Gram Parsons, Eric Clapton e Duane Allman (di fresco è saltata fuori una sua misteriosa "visita" agli studios in quei giorni lontani). Sticky Fingers è in larga parte un disco pastorale (Wild Horses), evocativo (You Gotta Move, Moonlight Mile) e romantico (Dead Flowers), ma pure robusto (Sway, Brown Sugar, Can't You Hear Me Knockin') e doloroso (Sister Morphine), segnato da quella musica delle radici che avrebbe permeato tutte e quattro le facciate di Exile On Main Street e che faceva leva primariamente sull'intensa bellezza delle canzoni. Come già avevano fatto Clapton, Dylan, i Byrds e i Grateful Dead, gli Stones avevano definitivamente seppellito ogni umore da Summer Of Love nel giardino di casa e si erano convertiti alle camicie di flanella, ai cappelloni e al bourbon. Vuoi per Music From Big Pink della Band, oppure per i primissimi album della Capricorn, anche Jagger e soci si ritrovarono a miscelare il rock col country e il country col soul di stampo Stax, e il risultato è tuttora stupefacente. Anche perchè oggi, senza badare a ricorrenze o anniversari, Universal ripubblica un'edizione espansa e definitiva di questo disco, rimasterizzato per la quarta volta (la prima nel 1994, la seconda nel 2009 e la terza, solo come SACD, nel 2011) e distribuito in quattro differenti versioni: standard (1 Cd o 1LP), extended (2 Cd), deluxe edition boxset (2 Cd+1DVD+Booklet) e super-deluxe edition boxset (3 Cd+1DVD+Book). I prezzi variano, rispettivamente, dai 14,90€ ai 130€, soldi che fareste bene a spendere, in ognuno dei quattro casi, solo se avete intenzione di ascoltare con decenza (cioè su un buon impianto o in una cuffia che non sia una Monster Beats qualsiasi) e religioso rispetto lo Sticky Fingers definitivo.
Da parte mia ho scelto la Deluxe Edition composta da: un primo disco contenente lo Sticky Fingers rimasterizzato, un secondo cd scisso fra cinque alternate takes e cinque pezzi registrati dal vivo alla Roundhouse sempre nel '71, uno scarno DVD che contiene Midnight Rambler e Bitch catturate in un celebre concerto al Marquee (il concerto completo è previsto per l'home video in estate), un bellissimo libro di 72 pagine e 4 cartoline. Premesso che la miglior riedizione di un disco dei Rolling Stones è stata e rimane quella di Some Girls, nel 2011, la Deluxe di Sticky Fingers aggiunge relativamente poco a quello che già si sapeva su questo capolavoro, ma le chicche non mancano. C'è una Brown Sugar completamente intagliata dalla slide guitar di Eric Clapton, la splendida Bitch "estesa", Wild Horses più semplice e vicina a quella incisa dai Flying Burrito Brothers di Gram Parsons (che tanto influenzò l'intera lavorazione di Sticky Fingers), Can't You Hear Me Knockin' scorciata di quattro minuti e orfana del mordente di quella definitiva, una Dead Flowers velocizzata e che ci mette un po' a conquistare l'orecchio. Molte takes di gran pregio, che si ascoltano volentieri, ma che davvero non hanno nulla da aggiungere alle canzoni confluite in quel perfetto disco di quarantaquattro anni fa.
Altro discorso vale la pena spenderlo per il "lato B" del secondo cd, ossia per i momenti live registrati alla Roundhouse di Londra il 14 marzo 1971, quando la scelta di auto-esiliarsi era già stata presa e gli Stones stavano solo facendo le valigie per la Costa Azzurra. Oggi è di gran moda parlare di "concerti di addio": ecco, la serata alla Roundhouse è un addio (che poi si sarebbe rivelato soltanto un arrivederci) rabbioso, infuocato, pervaso dall'eroina e da un'energia che la band di Jagger e Richards avrebbe dominato per i successivi cinque anni. Live With Me è al limite dell'hard rock, Stray Cat Blues (pezzo notoriamente jonesoniano) conosce un nuovo "direttore" in Mick Taylor, Love In Vain è nella norma, Midnight Rambler e Honky Ton Woman chiudono il set come meglio non si potrebbe.
Sempre live, sempre interessante, ma pure fastidiosamente breve è il DVD contenente Bitch e Midnight Rambler registrate al Marquee Club. Fra il pubblico, spettatori d'eccezione come Eric Clapton e Jimmy Page; sul palco, va in scena uno dei più grandi spettacoli rock di sempre e le telecamere lo filmano con la freddezza di una regia da telegiornale, ignare di assistere ad un qualcosa che non ritornerà mai: i Rolling Stones degli anni Settanta.

lunedì 8 giugno 2015

Fury [Recensione]

Era forse dai tempi de La croce di ferro di Peckinpah (per chi non l'avesse visto, anomalo capolavoro del 1977 i cui protagonisti sono dei soldati tedeschi in Russia) che il cinema bellico non sfornava un film sulla Seconda Guerra Mondiale crudo, antieroico, iperrealista e totalmente disinteressato a qualunque forma di epòs militaresco come Fury. Certo, potrebbe fare eccezione quella summa che è La sottile linea rossa, ma l'approccio risulterebbe comunque del tutto diverso dall'ultimo film di David Ayer, sceneggiatore divenuto regista e qui alle prese con la sua prova migliore, intrisa di fumo, sangue, cenere e disperazione. 
Nell'aprile del 1945, un carro armato Sherman battezzato "Fury" attraversa la Germania nazista ormai in ginocchio. Al suo interno trovano spazio il sergente Don Collier (Pitt), il cattolico attendente "Bibbia" (LaBeouf), l'ispanico "Gordo" (Pena) e lo squinternato Grady (Bernthal). Al gruppo si aggiunge Norman (Lerman), un giovanissimo dattilografo che è stato destinato, per un tragico errore, al reggimento sbagliato. Insieme, costretti in quella che chiamano "casa" e asserragliati fra quattro spesse mura di lamiera, si faranno strada fra bambini-soldati, civili impiccati dalle SS, carri Panzer indistruttibili e fra tutte le ultime, estreme follie perpetrate dal Nazionalsocialismo. E tutto questo non viene affrontato con il presupposto macho e impavido dei videogiochi, nè con la sconcezza patriottica spielberghiana (e quindi hollywoodiana). Chissà che anche Ayer non sia- almeno in questo -come il Peckinpah esule del 1977: un cineasta che indaga sull'orrore, la follia e la paura di ogni conflitto e che, nel farlo, adotta un linguaggio libero da ogni retorica dell'american dream. Fury è cinema puro, incontaminato e scevro da dialoghi pomposi e lezioncine inutili. Lo stesso, formidabile Brad Pitt preferisce tacere di fronte alla Storia crudele e spietata. E anche laddove la vittoria è dietro l'angolo, sussistono la distruzione e l'annientamento dell'essere umano, perfino del più innocente (il giovane Norman).
Ayer studia ogni scelta estetica con fine perizia: un terzo del film è girato all'interno del carro armato, la cinepresa è devastante sul campo di battaglia come nel momento da kammerspiel a casa delle due tedesche, momento in cui si rimanifesta, ineluttabile, la falsa illusione di ogni speranza.

sabato 6 giugno 2015

La risposta è nelle stelle [Recensione]

Ha ancora senso andare al cinema dopo Mad Max: Fury Road? Sì, ce l'ha: serve a capacitarsi di come niente, e ripeto, niente possa lontanamente competere col film di George Miller. Neanche ciò che dovrebbe conquistarmi a un primo, sfuggevole sguardo (un cappello da cowboy) ce la può fare. Ma col cappello che Scott Eastwood adagia sulla testa di Britt Robertson nella locandina di La risposta è nelle stelle, purtroppo, Mad Max c'entra poco. E lo sottolineo perchè neanche nel più buio periodo "di magra" cinematografica avrei tollerato un film del genere. 
Eccessivo nel suo formalismo melò, fastidiosamente conservatore, una ricerca dell'estetica country ridotta ai minimi termini (se non del tutto assente) e rimpiazzata da una fotografia stucchevole. Gli attori risultano tutti bonariamente incapaci e la colonna sonora non ne azzecca mezza, fra soft-country contemporaneo che suona falso come un brano degli Aqua e quadretti orchestrali assemblati alla meno peggio con Pro Tools. Insomma, si gira e si ambienta un film nel North Carolina e neanche l'ombra di una canzone dei Marshall Tucker Band? Pura eresia.
Perciò, mi limito a salvare le sequenze del rodeo (buone, ma neanche accostabili a quelle girate da Vallee in Dallas Buyers Club), i bellissimi cavalli (mostrati per due minuti) e la bellezza delle location. Per il resto, neanche se gira un vero western tornerò mai a vedere un film di questo Tillman Jr., capacissimo di sfornare pellicole tanto vanitose quanto noiose.