venerdì 27 novembre 2015

The Trip/ Il Viaggio [Extra]


THE TRIP
IL VIAGGIO
(testo di Dave Rawlings e Gilian Welch)

Fischiettando, la gente sale sui treni,
senza sapere dove stiano andando.
La figlia di qualcuno, la sorella di qualcuno, l'insegnante di qualcuno
se ne va in fondo alla strada,
con un corpo, un fazzoletto e una scure da delitto abominevole.
Ma non c'è nessuno ad aspettarla, 
nessuno che la giudichi lungo la strada.
Tamburi da banjo, polli urlanti e piccoli bambini-corvo.
L'inverno abbandona, la primavera si snoda e di nuovo arriva l'estate, come sai.
Rosa è il colore del vestito del mio vero amore, e nero è quello del suo cuore,
ma non potrei lasciare la vecchia Virginia, e quindi non partirò mai.
Faccia di ebano, unghie di ebano, bara di ebano sulle rotaie.
Puntando verso Sud, C-O-D-, tornando a casa dalla madre.
Quando per valore, quando per la gloria, quando per un tesoro, quando ancora per l'orgoglio,
a volte un fratello odia il fratello.
Dunque, fatti un viaggio ovunque la tua coscienza voglia vagare.
E' troppo difficile cercare di vivere una menzogna a casa.
I miei stivali incrinati sulla strada sterrata e asfaltata, sputacchi e sogni infranti.
Gomme da masticare e spille di sicurezza sono tutto ciò che mi tiene su le giunture.
I miei pioli sono allentati, le mie viti troppo strettamente avvolte per entrare in sintonia,
ma io continuo a provarci, in quei dorati pomeriggi estivi.
Dunque, fatti un viaggio ovunque la tua coscienza voglia vagare.
E' troppo difficile cercare di vivere una menzogna a casa.
C'è la foto di un vecchio nero, con un cappello di castoro.
Sfoggia un sorriso nascosto e un paio di ghette bianche. 
Non fingere di non aver notato il suo sguardo.
Sei nervoso, sudato e carico per l'orso.
Gli scheletri danzano stasera, porta la tua bottiglia e i tuoi stivali
e il tuo mandolino a cui Bianca Alatorre ha cercato di sparare.
Oh, ma cosa sono uno o due fori di proiettili fra amici?
E chi può dire che quando il pozzo si prosciuga, la storia finisca?
Dunque, fatti un viaggio ovunque la tua coscienza voglia vagare.
E' troppo difficile cercare di vivere una menzogna a casa.
Vite da hotel e mogli da albergo che vanno e vengono con le lenzuola.
Del resto, che matrimonio sarebbe se non fosse tenuto in vita dal focolare domestico?
Una volta conoscevo ogni vallata e quel bel litorale,
ma ormai non prendo più parte alla fiera dell'estate.
Dunque, fatti un viaggio ovunque la tua coscienza voglia vagare.
E' troppo difficile cercare di vivere una menzogna a casa.
La tua armonica fa pena, piccola, gettala via.
La tua camicia di jeans è logora e il colletto è sporco e sfilacciato.
Ho provato a suonare il mio corno per te, ma non riuscivo a intonare una sola nota.
Così ho preso carta e penna e questo è quanto ho scritto.
Dunque, fatti un viaggio ovunque la tua coscienza voglia vagare.
E' troppo difficile cercare di vivere una menzogna a casa.


venerdì 20 novembre 2015

Neil Young, "Bluenote Cafè" [Suggestioni uditive]

Neil Young & Bluenote Cafè,
Bluenote Cafè
(Warner Music, 2015, 2 Cd)
½














Giunta al suo undicesimo volume delle Performance Series , la fortunata NYA (Neil Young Archives) ha la premura di occuparsi del periodo più controverso di tutta la lunga carriera del cantautore canadese: gli anni Ottanta. Un decennio affatto facile nè per Bob Dylan, nè per i Rolling Stones, nè per chiunque altro fosse riuscito a chiudere i '70 sopravvivendo al punk e sfornando grande musica (nel caso di Neil, Rust Never Sleep, nel caso dei colleghi appena citati Slow Train Coming e Some Girls), di quella destinata a restare se non addirittura ad inaugurare la "seconda ondata". 
Neil Young ha all'attivo oltre quaranta album in studio ed è dura trovarne di identici, ripetitivi o mediocri. Eppure, anche per chi lo ama, è difficile porsi positivamente nell'ascolto di un buon sessanta percento della sua 80's production. Sia lui che i discografici erano convinti che la totale libertà conferita agli artisti dalla neonata Geffen Records avrebbe potuto solo giovare ad una vena creativa che stava stentando a partorire capolavori. Hawks&Doves e Re-ac-tor furono i due dischi "di passaggio" da un'etichetta all'altra, ma fu con Trans (1982) che il canadese esordì su Geffen, nascosto dietro un muro di sintetizzatori, batterie elettroniche, vocoder e tutto quello che all'epoca arrivava dalla Germania. L'album vendette discretamente, ma suscitò le ire dei fan, della critica e della Geffen stessa, che rimangiandosi ogni promessa di "carta bianca" impose a Young l'incisione di un rock più classico: venne fuori Everybody's Rockin' (1983), un dischetto R&R e rockabilly che tuttora suona più come una sonora presa per il culo piuttosto che come un'opera partorita dall'autore di Harvest
Il resto degli anni passati alla Geffen proseguì allo stesso modo: usciva un mediocre album di avanguardia (Landing On Water, per esempio) e immediatamente dopo Neil provvedeva, anzi simulava un'ammenda (Old Ways o peggio ancora Life). La rescissione del contratto portò un sospiro di sollievo sia all'etichetta che all'artista e ancora oggi David Geffen- che di Neil Young è amico di lungo corso -racconta di come il suo più grande fallimento professionale abbia riguardato proprio il canadese. Ma gli anni Ottanta non erano finiti.
Young tornò alla Reprise, cambiò di nuovo pelle e band e nel 1988 dette alle stampe This Note's For You, un album R&B metropolitano e canzonatorio nei confronti del music business di quegli anni. Basta fare una visitina su YouTube e dare un'occhiata al video della canzone omonima per accorgersi di quanto accusatorie fossero le notes che il rocker canadese indirizzava ai suoi nemici. MTV decise addirittura di non trasmetterlo. This Note's For You non è un capolavoro, nè è il miglior disco di Young del decennio (Freedom, uscito l'anno seguente, è alcune spanne al di sopra), eppure emana un certo fascino. Quella atmosfera- più vicina a Tom Waits o Lou Reed che non all'assolata California in cui il canadese ha trascorso buona parte della sua vita risulta ancora, incredibilmente -rimane perfettamente intatta in tutto il successivo tour, di cui Bluenote Cafè riporta i momenti salienti: brani registrati fra New York, San Francisco, Hollywood, Toronto e alcune località della provincia americana. Un doppio live che odora di funk, di club fumosi e che a tutto sembra appartenere fuorchè ad un decennio di deriva quale quello degli 80's. Del resto, basta guardare la scaletta per scorgere brani minori se non del tutto dimenticati del cantante canadese. Non è il solito best of trasposto sul palco, con cori, applausi, fischi e macelli vari. Pensate che l'unico pezzo famosissimo finito qua dentro è Tonight's The Night, ipnotica e interminabile (20 minuti), una chiusura fantastica.
Neil Young è un cane sciolto, lo è sempre stato e lo era anche nel 1988. E si sente. Qua dentro ci sono una forza e un'energia di cui gli album in studio dello stesso periodo difettano. Con arrangiamenti diversi, le canzoni di quegli anni negativi e difficili covavano un fuoco diverso. C'è il sax di Ben Keith che ci trasporta nel ghetto nero e dal palco saltano fuori amori insospettati e fino ad allora solo corteggiati da Neil: il gospel, l'R&B, il soul e, appunto, il funk.
Vale per molte altre cose, ma di una turnè si capiscono contenuti e contorni col passare del tempo. Forse, quella con cui Neil Young attraversò USA e Canada fra l'inverno del 1987 e tutto il 1988 è soltranto un'altra di queste. E in quanto tale è piacevolissimo ascoltarne, a distanza di oltre un quarto di secolo, i frutti maturi.

giovedì 19 novembre 2015

Dave Rawlings Machine, "Nashville Obsolete" [Suggestioni uditive]

Dave Rawlings Machine,
Nashville Obsolete
(Acony Records, 2015)
















L'odissea artistica di David Rawlings sembra aver trovato, da alcuni anni a questa parte, il meritato riconoscimento. Principalmente noto come produttore e chitarrista, è legato sentimentalmente a Gillian Welch, famosa stellina della musica country che fu dapprima scovata da T-Bone Burnett e portata dalla natìa New York City a Nashville verso la fine anni Novanta del secolo scorso . Qua registrò due dischi, uno acerbo e uno belloccio. Nel 2001 conobbe Rawlings, scrissero insieme Time (The Revelator) e lui suonò e produsse. A questo notevole album ne seguirono altri, tutti basati sulla stessa ricetta e non sempre pienamente riusciti. 
La voglia di formare un duetto vero e proprio, richiamando celeberrimi esempi di cantanti innamorati quali Gram Parsons ed Emmylou Harris o Richard e Linda Thompson (oppure i più recenti Jack e Mag White) arrivò relativamente tardi, verso il 2008, quando iniziarono a registrare con vari turnisti alcune covers confluite in Friend Of A Friend, fatto uscire per la Acony nel 2009 e comprendente nove brani di pura musica bluegrass. Il progetto prende il titolo di Dave Rawlings Machine e come tale sono tornati a suonare in questo nuovo Nashville Obsolete, un disco dal titolo accusatorio che ha visto la luce proprio a Nashville ma che riscende lungo il Mississippi alla ricerca di quella "Repubblica invisibile" e di mondi perduti, dimostrando di saper valorizzare tecnicamente le risorse e l'ispirazione di entrambi. Le loro ballate tristi e sofferte, scarne e scritte col cuore, incontrano un corretto retroterra produttivo e musicale. Rawlings produce splendidamente ed effettua una scelta di musicisti ospiti invidiabile: Willie Watson degli Old Crow Medicine Show, Brittany Haas dei Crooked Still e Paul Cowert dei Punch Brothers. Pochi ma buoni, come suol dirsi.
Nashville Obsolete è un album magniloquente, sia che lo si restringa al campo della musica americana, sia che lo si confronti con una buona fetta dell'offerta discografica attuale. Friend Of A Friend era un disco piacevole, ma con musica roots e bluegrass come se ne trova a palate a giro, e soprattutto era un'operetta solare, spensierata e contraddistinta da testi originali all'acqua di rose. Qua invece Rawlings e la Welch sfoggiano una sequenza di canzoni di lacerante country fuoriuscito dai bordi della società, suonate come le avrebbe suonate il Dylan con la Band (o quello del 1976), vociferate in certi momenti, corrosive in altri. Su tutte primeggiano The Weekend (corredata da un video semplice ma di forte impatto), l'epica The Trip, Short Haired Woman Blues e la tragica Pilgrim (You Can't Go Home).
Il disco è uscito a fine settembre e da noi ha iniziato a circolare in ottobre. In una bella recensione, pubblicata sul magazine Gagarin, Cico Casartelli lo ha accostato ai "primi monumentali album di Kris Kristofferson", al Pat Garrett&Billy The Kid di Dylan e a Old n°1 di Guy Clark, oltre a citare, inevitabilmente, il Neil Young "più introspettivo". Ecco, ha detto tutto lui: chi ama e ha ben presente queste opere e questi artisti- oltre a tutta quella aneddotica che gravita attorno ad essi -non potrà esimersi dall'ascolto di Nashville Obsolete, una sorta di stupefacente sorpresa autunnale. Un mezzo capolavoro, di quelli che non sai quanti ancora potranno uscire.

domenica 15 novembre 2015

Matrimonio al sud [Recensione]

Faccio ormai fatica ad approcciarmi alle commedie italiane. Non ci sono più grandi registi, non ci sono più grandi attori, non ci sono più grandi storie. Leggi che investono ormai tutto il cinema (anzi, a proporzione, quello americano ne soffre più di tutti gli altri), ma quello italiano le persegue in maniera particolare. Con ogni probabilità le buone commedie all'italiana sono una cosa del passato- con buona pace di quell'ottimo Italiano medio visto a inizio anno -ma continuano a farle.
Medusa cavalca la moda dei matrimoni. Nulla di strano, ma i matrimoni e soprattutto la loro organizzazione pratica sono da un po' di tempo oggetto dell'attenzione di tutta una cattiva televisione fatta di reality e pseudo-documentari. Somigliano al cibo, ma ancora le grandi (due) case di produzione italiche non hanno pensato a fare un film con qualche noto chef nei panni del protagonista. Col matrimonio, invece, è più semplice, anche perchè esiste da decenni un sottogenere definito wedding comedy che ha dato qualche buon frutto e poi tanta, tantissima demenza. 
I producers decidono di foraggiare Paolo Costella, uno che di commedie ne ha rigirate, e anche di discrete. Oggi di una cosa come Tutti gli uomini del deficiente (1999) se ne può solo sentire la mancanza. Siam messi male, eh? Gli affidano una sceneggiatura preparata vent'anni fa e ormai cotta e ricotta da chiunque: la inzuppano nel provincialismo più bieco e irreale (anche perchè portare sullo schermo il provincialismo vero potrebbe danneggiare pesantemente le casse di una major), miscelano il tutto col programma tv Il boss delle cerimonie (uno dei tanti crimini perpetrati dal digitale terrestre ai danni di chi si rifiutava di guardare simili monnezze sulla pay-tv), ripescano qualche troione e perfino Conticini, che poi è l'unico che sembra invecchiare con decenza. Mica Boldi (ma in quanti film Boldi si chiama Colombo di cognome?) o Izzo! No: a loro va la parte dei genitori campanilisti e ottusi. Una parte malgirata e odiosa, come quella delle due mogli, tratteggiate dagli sceneggiatori come delle galline impedite e ignoranti quasi quanto i mariti.
I pregi- vabbè, chiamamoli pregi -del film sono in due piccoli ruoli inutili e marginali ma che almeno strappano qualche sorriso: Ugo Conti nel ruolo del Busacca e Enzo Salvi in quello di Lello Antinazzi. Ho notato che ogni film in cui appare Salvi è inguardabile, ma al contempo lui è l'unica nota positiva. Di questo passo, potrebbe passare alla storia come uno dei più grandi attori italiani degli ultimi trent'anni.
Una menzione speciale la merita Luca Peracino, quello che fa il figlio di Boldi e ha una dizione che offende l'udito e, più in generale, la vita. E magari questo qualche altro film se lo fa. Magari una bella serie tv, che oggi la televisione va tanto di moda, perchè il cinema, si sa, ormai è morto.

venerdì 13 novembre 2015

Billy Gibbons, "Perfectamundo" [Suggestioni uditive]

Billy Gibbons,
Perfectamundo
(Concord Music Group, 2015)
















A chi possiede, come me, un micro-altarino all'interno della propria discoteca che comprende lavori degli ZZ Top come First Album (1971), Rio Grande Mud (1972), Tres Hombres (1973), Tejas (1976), Deguello (1979) ma anche Rhythmeen (1996) e il recente La Futura (2012), la notizia di un album solista di "zio" Billy F. Gibbons potrebbe quasi costare una sincope. Del resto, il chitarrista più barbuto della storia del rock vanta una voce unica e, soprattutto, un suono che non ha rivali, pur con i dovuti distinguo: infatti, a me piacciono i primi e gli ultimi album degli ZZ Top, mentre trovo ridicole la piega sciovinista che presero fra El Loco (1981) a Recycler (1990) e la sciatteria che sta a monte di operette quali Antenna (1994) e XXX (1999). Insomma, per farla breve, a me piace il Billy Gibbons sanguigno e furente, quello che suona il suo Texas blues tirando su al massimo la manopola dell'ampli e che si concede volentieri una visita nei vecchi standard (d'altronde, il suo disco preferito è Live At The Regal di B.B. King).
Perfectamundo è il suo primo album solista in quasi cinquant'anni di attività e si rivela lontanissimo da quelle che erano le mie aspettative. Non che sia suonato male o prodotto da cani (anzi, da una parte riesce ad emulare quel suono solido e grintoso che ha conferito Rick Rubin nell'ultima prova in studio della band), ma proprio con Billy Gibbons, il blues e tutto il retroterra degli ZZ Top non c'entra una mazza. Poi il Nostro è liberissimo di inventarsi una band di accompagnamento (i BFG's), un sottogenere che unisca le percussioni latine di Perez Pardo alle roventi schitarrate sulla sua "Gibbons" Les Paul e di reinterpretare alcuni classici con toni che lasciano molto a desiderare (Baby Please Don't Go è imbarazzante). In Perfectamundo tutto sembra andare per conto proprio e tutto sembra stare insieme per costrizione. I momenti più riusciti sono quelli in cui la sezione ritmica prende il posto della chitarra, il che è tutto dire!
Prendiamolo per un esperimento sonoro, in qualche episodio riuscito, in altri logorroico e fastidioso. Anche perchè di dischi crossover dove contano i suoni e la tecnica strumentale e non le composizioni o le canzoni in sè ce ne sono di nettamente migliori.

lunedì 9 novembre 2015

Spectre [Recensione]

Riassunto delle puntate precedenti (sì, è saltabile):
alla fine degli anni Novanta, i film su James Bond arrivano al ventesimo capitolo, ma l'euforia con cui sono stati accolte le iniziali pellicole con Pierce Brosnan inizia a vacillare. C'è bisogno di un nuovo volto e di un radicale ritorno alle origini del mito: senza dar peso alle ansie da prestazioni nei confronti dell'era Connery, i produttori scelgono Daniel Craig- un James Bond nuovo, all'apparenza freddo ma soprattutto identico a quello descritto da Ian Fleming nei suoi romanzi -e commissionano una sceneggiatura che parta dal primo libro, quel Casino Royale pubblicato nel 1953. Il successo dell'omonimo film di Martin Cambell uscito nel 2006 è epocale: è un reboot ad ogni livello e rivoluziona l'idea dello 007 autoconclusivo rimpiazzandola con una inedita formula di continuity. Craig diviene il Bond più amato dai tempi di Connery e anzi, a detta di molti, finisce col superarlo. Il cast è strepitoso, la regia magnifica, gli incassi superano ogni aspettativa. Bond si riaffaccia al cinema due anni dopo, ma Quantum of Solace si rivela solo un tiepido episodio di passaggio. Ha successo, conquista meno plausi critici del precedente ma comunque riesce a tenere in piedi una storia lunga e profonda che sembra destinata a durare. Di anni, poi, ne passano quattro ed esce il capolavoro: Skyfall è assieme a Goldfinger e Licenza di uccidere il più bello 007 di sempre. La regia viene affidata a Sam Mendes, autore britannico dai gusti raffinati e passato alla storia col suo American Beauty. Fioccano premi, saggi e James Bond- che è ormai un eroe che ama, soffre e si ferma a pensare alle proprie azioni e alle loro dirette conseguenze -gode di una popolarità che cinquant'anni prima sarebbe stata impensabile.
*
In Spectre, quarto 007 con Craig, troviamo di nuovo Sam Mendes in cabina di regia (c'è chi aveva ventilato un Christopher Nolan, ma va benissimo così). Non voleva dirigerlo, ma evidentemente deve avere letto un articolo scritto da qualche hipster nostalgico nei confronti dei suoi vecchi film e si è convinto a tornare. Se la regia in Skyfall godeva di un buon 60% dei meriti, stavolta la percentuale aumenta esponenzialmente, sin dal piano-sequenza iniziale ambientato durante il giorno dei morti a Città del Messico. In compenso, titoli di testa così orrendi non li avevano congegnati nemmeno ai tempi di George Lazenby e una canzone come Writing's On The Wall di Sam Smith si attesta come una delle tre più fetenti mai composte per la saga dal 1962 ad oggi.
Ci sono meno sorprese che in Skyfall e anche la sfaccettatura dei personaggi sembra essere tenuta maggiormente a freno: tuttavia, c'è una Lèa Seydoux tanto meravigliosa quanto convincente nei panni della miglior Bond-Girl dai tempi di Eva Green (il cui bel viso appare velocemente anche qua) e ottime prove le regalano anche Bautista, Ben Wishaw e Ralph Fiennes.
Lingerie a parte, la Bellucci ridoppiata da cani è fastidiosa e andava evitata, ma alla fine il segmento italiano è forse quello più maldestro e stereotipato di tutti i quasi 150 minuti di Spectre (nulla di inusuale, visto che siamo i primi a produrre quasi esclusivamente un cinema macchiettistico). Anche la corsa in macchina sul lungotevere non è paragonabile, per tensione e tecnica, all'inseguimento fra aereo (proprio così) e fuoristrada in Austria.
C'è un altro picco, secondo me, ed è la parte ambientata in Marocco: ambientazione superba, la scena nel treno dei ricordi- romantico e perfetto come il "Vodka Martini agitato e non mescolato" che Bond ordina e fa appena in tempo a sorseggiare -lo scontro a mani nude con il bestione, la corsa in Rolls-Royce verso la base della Spectre e verso il peggior nemico di 007: Ernst Stavro Blofeld.
Già, proprio il Blofeld già comparso (spesso dal busto in giù) ai tempi di Connery, Lazenby e Moore e reso eterno dall'interpretazione di Donald Pleasance in Si vive solo due volte (1967). Stavolta c'è Christoph Waltz, che ormai è giusto infilare dappertutto, specie se si tratta di fare il cattivo dal cervello fino e dal passato tormentato. Waltz è bravo, ha l'anello al dito e il gatto bianco sembra essere uscito dalla pubblicità delle scatolette Purina, ma il suo Blofeld non regge il confronto col passato e cade troppo in fretta per essere degno di rappresentare davvero la più grande nemesi di James Bond.
Per il resto, ritmo e music score ottimi, due ore e mezzo che filano via pulite, product-placement pazzeschi come sempre. Manca la scintilla di Skyfall, Casino Royale sembra un ricordo lontano (in effetti, sono passati nove anni), ma Daniel Craig è sempre James Bond ed è sempre un immenso piacere andarlo a vedere.

sabato 7 novembre 2015

Francesco De Gregori, "Amore e furto" [Suggestioni uditive]

Francesco De Gregori,
Amore e furto
(Sony Music, 2015)
½















Che De Gregori fosse il nostro (piccolo) Bob Dylan lo hanno sempre detto in tanti, sin dal suo apparire sulle scene, nei tardi anni Sessanta. I numerosi ingredienti provenienti dalla musica e dalla scrittura dylaniane si tramutarono, sin dai tempi di Alice non lo sa (1973), in piacevoli sfumature, piuttosto che ripiegarsi su se stessi e dare luogo a omaggi o covers. Una gradita eccezione fu rappresentata da Atlantide: musica di Dylan (quella di Three Angels), testi (notevolmente migliori di quelli di Three Angels) di De Gregori. Già la posteriore Se la vedi dille ciao- una If You See Her, Say Hello tradotta alla buona e riarrangiata -dimostrava sì l'amore per Dylan da parte del cantautore romano, ma pure poteva apparire forzata e leziosa. 
Oggi che De Gregori al massimo si concede di rivisitare e riesumare il proprio catalogo (Vivavoce, tanto osannato, è solo un rimpasto), l'idea di cantare esclusivamente cover del suo idolo potrebbe apparire moderna e, per molti versi, conturbante. Amore e furto ruba sin dal titolo (Love and Theft) e di nuovo ha (e fa) assai poco, eppure coinvolge e sa farsi piacere in più momenti. Alla fine degli anni ottanta, già Tito Schipa Jr. aveva realizzato un album di cover italiane di Dylan (Dylaniato), ma non è questo il punto. Il punto riguarda, al massimo, la necessità artistica e culturale di un disco come Amore e furto nel 2015, quando oramai la lista di tributes dedicati al Menestrello di Duluth è assai fitta: quelli di Odetta James (Odetta Sings Dylan), Brian Ferry (Dylanesque), Jerry Garcia e la sua band (Garcia Plays Dylan), la Charlie Daniels Band (Off The Grid: Doin'it Dylan), Steve Howe (Portraits Of Bob Dylan), Jamie Saft (Trouble: The Jamie Saft Trio Plays Bob Dylan) e i Mountain (Masters Of War) rappresentano solo una minima parte dei tentativi di affrontare la poetica dylaniana.
Amore e furto ripropone, dalla sua, una scelta davvero lodevole e oculata di brani dello sconfinato repertorio del Menestrello: intanto, sono quasi tutti pezzi posteriori agli anni Sessanta e, in alcuni casi, si tratta di canzoni confluite posteriormente nei bootleg. Un angioletto come te è una Sweetheart Like You suonata con una strumentazione tradizionale, senza la batteria elettronica e le morbide chitarre elettriche di Knopfler e Taylor presenti su Infidels. In quanto primo singolo estratto, mi ha parecchio deluso sulle prime, ma ad ascoltarla meglio si capisce di come il Principe abbia deciso di marcare i toni sociali che permeavano una buona fetta dei testi del 1985. Coraggioso rivisitare il Dylan cristiano di Slow Train Coming (l'unico disco della "trilogia della rinascita" che merita acquisto, ascolto e incenso), specie da parte di un laico ex-comunista romano qual è De Gregori: Servire qualcuno gode di un arrangiamento eccellente, ma la traduzione mi ha lasciato perplesso. Già che ci sono, dico lo stesso di Mondo politico (piacerà tanto ai lettori del Misfatto Quotidiano, quello sì), Una serie di sogni e Come il giorno (una I Shall Be Released suonata, mi pare, sulle note di Brownsville Girl). I risultati migliori arrivano da Via della povertà (il confronto con quella di De Andre' è inevitabile, d'accordo, ma stavolta è anche meglio), Non è buio ancora e Dignità. Particolare e originalissimo sul piano delle liriche anche Acido seminterrato, ma nemmeno questo gran capolavoro.
Fra pochi giorni compio ventisei anni. Potrei migliorare tantissime cose e lavorare molto su me stesso, e proprio per questo non mi metto a sparare sentenze su come De Gregori doveva affrontare la sua terza età, specie sotto il profilo artistico. Però una cosa devo dirla: era meglio quando era un misantropo.

venerdì 6 novembre 2015

Bob Dylan, "The Bootleg Series Vol. 12: The Cutting Edge 1965-1966 [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
The Bootleg Series Vol.12: The Cutting Edge 1965-1966
(Columbia Records, 2015, 2 Cd)














"Nella vita di un artista, anche del più dionisiaco e posseduto, sono rari i periodi di permeabilità attiva e totale con la propria ispirazione [...] Non capita mai o quasi mai, per usare un termine caro a Gurdjief, che uno sia così sveglio. Si rischia la vita più che a usare le droghe sbagliate, perchè a chi guarda nell'abisso, come avvertiva Nietzsche, succede che l'abisso guardi lui."
A. Carrera, La voce di Bob Dylan (Feltrinelli, 2011)

Il Bob Dylan del 1965 sentiva che c'era qualcosa nell'aria, un'ispirazione diversa, più intensa di quella che aveva respirato negli ultimi quattro, cinque anni della sua vita, più frizzante e selvaggia di quella che lo aveva condotto alla pubblicazione di The Freewheelin' o di The Times They're A Changin'. Le sue poesie necessitavano di un nuovo tappeto sonoro, più ricco e variegato, ma soprattutto dovevano andare oltre la loro dimensione politica e folk. Superfluo aggiungere che trovò nel rock l'ingrediente fondamentale di quella che tutti ricordano come la "svolta elettrica" (fischiata e contestata al Newport Festival 1965) e che avrebbe portato ad una superba trilogia di dischi: Bringing It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde. Con ogni probabilità, tre dei dieci album più importanti della storia.
Anche chi non si intende di musica, forse, conosce alcuni aneddoti riguardanti questi famosi seicento giorni. Dylan che rilascia conferenze stampa da manicomio, Dylan protagonista di videoclip e documentari, Dylan icona pop alla Factory di Andy Warhol, Dylan che registra un lungo sfogo chiamato Like A Rolling Stone, Dylan in tour prima con Mike Bloomfield negli USA e poi con gli Hawks in Inghilterra, Dylan che passa dalla produzione di Tom Wilson a quella di Bob Johnston, Dylan che si fa di acidi coi Beatles, Dylan che si allontana da Joan Baez, Dylan che scrive segretamente Tarantula, Dylan che sposa Sara, Dylan che va a Nashville ad incidere il primo doppio album della storia del rock, Dylan che, il 29 luglio 1966, si schianta in moto vicino alla sua casa di Woodstock, spezzando l'incantesimo e interrompendo un flusso di genialità e fantasia che sembrava semplicemente inarrestabile.
Non che dopo quel fatidico '66 il Menstrello di Duluth ci abbia privati di ulteriori capolavori (ne ha pubblicati almeno altri cinque), ma quei seicento giorni hanno rappresentato un unicum assoluto. E adesso ritornano, pazientemente documentati, nel dodicesimo volume della Bootleg Series. Come sempre, Columbia fa le cose in grande e stampa tre diverse versioni del disco: una Collector's Edition di cinquemila esemplari numerati comprendente diciotto compact (contengono "every note recording during the 1965-1966 sessions" e perfino ventuno pezzi registrati amatorialmente in camere di albergo inglesi e americane), nove 45 giri rigorosamente Mono e qualche cartolina, una Deluxe Edition di sei dischi (solo il terzo è occupato esclusivamente da ogni takes di Like A Rolling Stone) e infine un efficace (e umanamente accessibile) compendio dal titolo The Best Of The Cutting Edge, che poi è quello da me recensito.
E' risaputo: fra le tante fasi che hanno creato una certa mitologia attorno a Dylan, quella della "svolta elettrica" è una delle migliori, se non la migliore. Più di metà del primo cd è occupata dalle takes di Bringint It All Back Home: demo, versioni alternative molto belle di Subterrean Homesick Blues, Outlaw Blues e On The Road Again e perfino un paio di inedite (You Don't Have To Do That e la frammentata California). Uno "sprazzo" di Mr. Tambourine suonata con la Band ci conduce verso l'epòs delle registrazioni destinate a Highway 61 Revisited, quello che sin da allora sarebbe stato additato dal proprio autore come <<il disco migliore che abbia mai registrato>>. C'è il blues, ovviamente, che Dylan incontra scendendo lungo l'autostrada 61 dal Minnesota fino al Mississippi, ma c'è anche il rock, quello autentico e incontaminato. E non sono ingredienti casuali o dosati con incoscienza: basta ascoltare le due Like A Rolling Stone contenute qua dentro per rendersene conto. Un altro paio di inedite (già documentate in versioni "pirata" più vecchie del cucco e malandate e finalmente restituite alla bellezza selvaggia e visionaria delle origini) e il primo disco si conclude con la meravigliosa performance "sdoppiata" di Desolation Row: una demo dove il solo Dylan suona una versione asciutta ed essenziale al pianoforte per un paio di minuti e infine una superba alternate di undici minuti.
Ancora prove, ancora versioni alternative di brani celeberrimi di Highway 61 affollano l'inizio del secondo cd. C'è una Tombstone Blues da oltre sette minuti che galoppa inesorabile come non mai, e una notevole Queen Jane Approximately. Poi, a partire dall'ottava traccia, l'aria cambia, e con lei i musicisti, l'atmosfera, i suoni. La produzione si sposta da New York a Nashville: Dylan è ormai pienamente consapevole delle proprie capacità, sa cosa vuole e come ottenerlo e inizia con selezionare personalmente i musicisti che lo accompagneranno in una nuova avventura. La spuntano Al Kooper (l'organista più improvvisato e fortunato del mondo) e Robbie Robertson. In tasca ha soltanto molte idee, dispersive e frammentarie, appuntate a casaccio e bisognose di un ordine che solo il duro lavoro in studio sa impartire. E' così che va costituendosi Blonde On Blonde, il doppio capolavoro passato alla storia come un vero e proprio spartiacque musicale. Qua è possibile udire le prove, alcuni celebri outtakes e tante, tantissime takes alternative, già in partenza libere dai rimasugli folkloristici di Bringing It All Back Home. Se mancava la prova definitiva che Blonde On Blonde resta il massimo punto di arrivo della carriera di Dylan (o almeno di quella parte compresa fra il 1963 e il 1969), queste inedite versioni di pezzi che hanno già ampiamente fatto epoca cadono a fagiolo. Certo, I Want You (Take 4, Alternate Take) non sarà mai bella quanto quella definitiva, ma già suona morbida e al contempo vigorosa, dolce e sfacciata, orecchiabile e meravigliosamente rivoluzionaria.
Pur risultando meno coraggioso di Another Self Portrait (2013) e meno mastodontico di The Basement Tapes Complete (2014), questo The Cutting Edge è un bel bootleg, importante e- se preso nelle versioni espanse -esageratamente costoso come tutti i bootleg di Dylan (e non solo) sanno essere. Documenta un periodo irripetibile della storia del rock e conduce anche l'ascoltatore più esperto fin dentro all'essenza di queste grandiose canzoni. Quelle del '65-'66 sono poesie lunghe, appassionate, esaltanti, dense di romanticismo e rabbia e caos. Lo stesso caos che Dylan accettava senza essere sicuro che questi lo riaccettasse a sua volta, come ammise nella famosa intervista a Playboy. L'urgenza della protesta dei dischi precedenti cede il posto al sogno e al melodramma, l'apporto di musicisti esterni e di una produzione adeguata diviene una priorità assoluta. La Columbia aveva già portato sugli impianti stereo degli appassionati i frutti live di questa incredibile stagione (nel Vol. 6 e in parte del Vol.7), Scorsese concludeva il suo No Direction Home proprio con il tour inglese di Highway 61 Revisited: perciò, si può dire che The Cutting Edge chiuda definitivamente un cerchio che ruota da una cinquantina d'anni attorno a questa sfilza di capolavori e fa riflettere- forse con una punta di amarezza -che si trattava di momenti irripetibili ed eccelsi. Solo dieci anni dopo, grazie a Blood On The Tracks, Desire e la Rolling Thunder Revue, Dylan sarebbe tornato vicino a quelli standard di perfezione artistica e comunicativa.
Ma questa è un'altra storia.

martedì 3 novembre 2015

Game Therapy [Recensione]

In una società dove le cose funzionano, un fenomeno come quello degli youtubers nemmeno esisterebbe. Ma viviamo in un mondo sbagliato e gli youtubers, purtroppo, esistono.
Vivono fra noi, respirano, fanno ciò che facciamo tutti, ma differiscono in una sola cosa: sproloquiano di fronte a telecamere, cellulari e webcam e caricano tutto in rete. Molti di loro vengono condannati all'oblio, una minima parte può anche meritare di essere seguita (con il giusto distacco, ovviamente), ma altri ancora formano una élite precisa, ovvero quella di un gruppetto che grazie all'alto numero di visualizzazioni ottiene gli sponsor, gli sponsor portano i soldi e così, a fine mese, questi odiosi e viziati giovanotti d'età compresa fra i 14 e i 30 si ritrovano più soldi in tasca di un medico. Inutile aggiungere che proprio in quanto vox populi vengono spesso invitati ad eventi, fiere, presentazioni e cene già pagate. Insomma, per fare peggio dovrebbero solo affibbiare a questi personaggi il ruolo di protagonisti di un film. 
Cosa che hanno già fatto. Un branco di produttori capitanati da un certo Cohen (dubito sia parente di Joel ed Etan) contatta Favij, Leonardo Decarli, Federico Clapis e Zoda (i quattro più amati recensori di videogames) e li coinvolge in un grottesco progetto dal nome di Game Therapy. Il risultato è allarmante.
Il soggetto, la sceneggiatura, la recitazione, la regia (di tale Ryan Travis), gli effetti speciali, le musiche, i costumi, le scenografie, la fotografia, tutto, in Game Therapy, risulta una solenne cacata. Un film di autentica serie Z, la cui visione induce una cocente nostalgia delle purghe staliniane e non solo fa riflettere amaramente su chi e cosa riesce ad ottenere un forte successo mediatico (si parla di numeri, nel caso dei video su YouTube, che doppiano molti cinepanettoni), ma mette di pessimo umore.
L'interazione fra cinema e videogioco può anche funzionare, si sa, ma questa sarebbe risultata datata già nel 1989. Questi pseudo-attori si muovono nelle peggiori condizioni, sparano battute che sono rimasugli dei rimasugli di qualche vecchia sceneggiatura di Federico Moccia non accettata e, soprattutto, agiscono per una storia che manca- preoccupantemente -di concedere allo spettatore qualsiasi partecipazione emotiva. Dietro e davanti a loro si muove un regista americano il cui talento rimetterebbe in discussione gli esiti artistici della The Lady di Lory Del Santo o del Jerry Calà più "maturo".
Non ci piove: il film più brutto dell'anno.

domenica 1 novembre 2015

Rod Stewart, "Another Country" [Suggestioni uditive]

Rod Stewart,
Another Country
(Capitol Records, 2015)
















Mentre tento di ascoltare il ventinovesimo album in studio di Rod Stewart, Another Country, una traccia alla volta senza passare ad attività più edificanti per il proprio udito, non posso che ripercorrere mentalmente il percorso di un cantante che non è tanto "nato incendiario e finito pompiere", ma è finito comunque malissimo. Certo, ce ne sono tanti nella storia della musica. Band, cantautori, rocker, addirittura punk che si sono sputtanati e accomodati solo per piacere ad un pubblico dal palato semplice e dai gusti massificati, svilendo la propria arte e talvolta rinnegando ciò che hanno fatto in passato o peggio ancora chi erano. C'è chi compie questa metamorfosi in maniera subdola e vergognosa, c'è chi la effettua onestamente e alla luce del sole.
Rod Stewart appartiene, a mio avviso, alla seconda categoria. Dalla fine degli anni Settanta il suo scopo è stato soltanto produrre un album ogni due anni e venderne più copie possibile, come fa ogni vera pop-star. Esatto, perchè a questo signorotto scozzese del rock gliene importa poco sin dai tempi di Blondes Have More Fun (1978). Il Rod che cantava nella band di Jeff Beck, quello che ha apposto la firma su capolavori del calibro di Gasoline Alley e Every Picture Tells A Story oppure il glam-rocker di Atlantic Crossing, allineatissimo con le mode e i diktat dell'epoca, non esiste più e forse iniziano a ricordarsene pure in pochi. Ed è un peccato, perchè Rod Stewart ha una voce della madonna ed è pure simpatico, ma da più di trent'anni ha il solo interesse di produrre musica mediocre per un pubblico mediocre (Unplugged And Seated escluso).
Il nuovo Another Country è composto al 95% da lui e contiene uno degli esempi più deleterei di soft-rock del momento: Batman Superman Spiderman. Una canzone brutta così forse Rod non l'aveva mai scritta. Ma perchè Love Is è tanto meglio? Please è tanto meglio? A Friend For Life è tanto meglio? Tutti pezzettini di un disco che convince poco sin da come si presenta, con un artwork degno di un neomelodico. E la cosa umiliante è che la voce c'è ancora e funziona pure bene. I concerti continuano a fare un sold out dietro l'altro, i suoi American Songbook si concedono di tanto in tanto un capolino in classifica (ormai siamo sui venti milioni di copie vendute) ma quest'uomo andrebbe tenuto lontano dagli studi di registrazione come un ex-alcolista dalla bottiglia.