lunedì 19 dicembre 2016

[Classifica] Year of the Dead, ovvero 10 dischi e qualcosina per il 2016

Un anno "sfortunato".
Si avvia alla conclusione il più funesto anno che la musica abbia mai conosciuto. In momenti diversi, sono morti personaggi di primaria importanza della storia della musica (Bowie,  Prince, Cohen) ed altri "minori" (fra i miei miti, Guy Clark e Leon Russell non saranno sostituibili). Forse non è soltanto una questione anagrafica, nè tantomeno la "dea" Sfiga che si abbatte sulle nostre passioni: la verità è che, lentamente, stanno scorrendo i titoli di coda e che tutti, volenti o nolenti, siamo costretti ad assistere alla fine di un film di cui non si prospettano validi sequel, ma solo qualche insipido remake. Un'operazione che il cinema sta vivendo già da una quindicina d'anni e che ancora si fa fatica ad accettare, ma dovremo pur rassegnarci prima o poi.
Questo blog e alcune mie scelte.
Da parte mia, ho più che dimezzato il numero di recensioni pubblicate sul blog. I motivi sono molteplici (tempo, voglia, ansia da prestazione nei confronti di chi fa la stessa cosa cento volte meglio, invidia verso chi fa la stessa cosa cento volte peggio ma retribuito, ecc.), i dischi e le canzoni uditi sono stati comunque moltissimi: dunque, ho soltanto rinunciato ad esternare il mio giudizio critico, preferendo ascoltare ciò che gli artisti hanno offerto con un orecchio più "innocente" (e non sempre è stato facile, vi assicuro).
Ho scelto di non proseguire la collaborazione con alcune etichette indipendenti di musica metal italiane. Per quanto gratificante possa essere ricevere complimenti per ciò che uno scrive sulla musica, vedersi recapitare pacchi di dischi (alcuni anche notevoli) gratuitamente a casa ed essere ringraziati da artisti che hanno faticato anni per arrivare dove sono arrivati, non necessariamente è in sintonia con ciò che si è o che si ascolta in una determinata fase della nostra vita.

Ho scelto di non partecipare allo sterile dibattito social sul Nobel di Dylan perchè ho trovato stupido, in partenza, che su un argomento simile si intavolasse un dibattito. Caro Baricco, c'è poco da dire: Dylan è un genio, ha vinto quel premio meritatamente e, che sia andato o no a prenderlo e che sia stato felice o meno di un risultato del genere, sono affari suoi. Alla notizia del Nobel mi sono limitato a scrivere un aneddoto di poche righe nel quale raccontavo di una certa girata svedese fatta ad agosto. Tutto qua.
Il disgusto.
Sono rimasto disgustato da alcune cose: la questione del secondary ticket, su tutte. Soprattutto col ritorno dei Guns N'Roses ad Imola e la venuta degli Aerosmith a due passi da casa mia (Firenze), ho avvertito ulteriormente il peso di questa vergogna tutta italiana. [Per inciso, io a vedere i Guns ci vado!]

Mi ha disgustato la parata di talebani pro-Boss che ha riempito gli stadi e le pagine Facebook per tutta l'estate. Anche a me piace Springsteen, ma come dire? Intanto restiamo umani, facciamo restare umano lui e ammettiamo, placidamente, che la sua autobiografia fa cacare o che il suo show- spesso encomiabile -possa rivelarsi anche oggetto di critiche. Sembra che queste persone (molte giovanissime e, a quanto ho avuto modo di conoscere, solo marginalmente preparate) siano le prime ad alimentare quel meccanismo perverso per cui l'artista, col passare del tempo, perde in creatività ma incrementa in popolarità. Ne deriva, inevitabilmente, una scena musicale arida ed esaurita, perlopiù costruita sulla nostalgia.

Mi ha disgustato e annoiato guardare alcune puntate di X-Factor, uno show imbecille, pensato e popolato da imbecilli. Non me ne frega niente di quelli "espertoni" melomani che lo seguono solo per snobbarlo. Anche perchè, con X-Factor non c'è un problema di musica, ma di sesso. Se alla gente che si dice tanto "appassionata di musica" piace il tizio vestito come un pagliaccio che soffre per arrivare al successo mentre Manuel Agnelli lo maltratta, vuol dire che non sta seguendo il programma per ascoltare cosa propongono questi già discutibili "astri nascenti", ma per godere, masochisticamente, delle altrui sofferenze, autentiche o patinate che siano. Tutti questi shows si somigliano in partenza: che poi parlino di musica, danza, relazioni amorose o cucina, non ha alcuna importanza. Tutti costruiscono il proprio successo sul sergente Hartman di turno che piazza memorabili parti a culo al soldato Palla di Lardo. Il problema è di chi si compiace ad assistere: ma a quel punto non è meglio spegnere la tv e farsi infilare un braccio in culo dal/lla vostro/a partner ricoperto/a di borchie dopo esservi fatti fustigare per una mezz'ora buona?

I dischi migliori del 2016.
In questo 2016 sono usciti bei dischi, sicuramente più che nel 2015. Naturalmente, Blackstar di David Bowie, capolavoro da me recensito a gloria un paio di giorni prima che il Duca ci lasciasse. Poi è stato il turno di Post-Pop Depression, il disco dove Iggy Pop è rinato incontrando Josh Homme, il deserto, lo stoner e di cui, fra un ventina d'anni, si parlerà come dell'Oh Mercy dell'Iguana. La Tedeschi Trucks Band ha firmato, sempre quest'anno Let Me Get By, primo album in studio finalmente in grado di restituire almeno un pizzico dell'estro e della magia che Susan e Derek riescono a sfoggiare sul palco. 
Un anno di conferme magnifiche (PJ Harvey, Lissie) e di graditi ritorni (Santana, gli Stones, e perfino i Metallica), oltre che di validi esordi (Simo e, ovviamente, i miei personalissimi capolista) e interessanti vagiti dal sottosuolo dell'underground (Mudcrutch, Ian Hunter, Peter Wolf). Mi ha messo a disagio il dolore di Skeleton Tree di Nick Cave, di cui continuo a preferire lo splendido score di Hell or High Water, e ho invece trovato commovente l'omaggio tributato da una schiera di grandi artisti a Blind Willie Johnson uscito a febbraio per la Alligator Records. 
1.
The Marcus King Band, The Marcus King Band (Fantasy Records, 2016)
2.
David Bowie, Blackstar (Virgin Records, 2016)
3.
PJ Harvey, The Hope Six Demolition Project (Island Records, 2016)
4.
Iggy Pop, Post-Pop Depression (Loma Vista Recordings, 2016)
5.
Santana, IV (Santana IV Records, 2016)
6.
Tedeschi Trucks Band, Let Me Get By (Fantasy Records, 2016)
7.
Avishai Cohen, Into the Silence (ECM, 2016)
8.
Mudcrutch, Mudcrutch 2 (Reprise Records, 2016)
9.
Rolling Stones, Blue & Lonesome (Polydor Records, 2016)
10.
Ian Hunter & The Rant Band, Finger Crossed (Proper Records)

MADE IN ITALY.
John Strada, Mongrel (New Model Label, 2016)

LIVE ROCK.
Iggy Pop, Post-Pop Depression Live (Loma Vista Recordings, 2016, 2 Cd+DVD)

LIVE JAZZ.
Caetano Veloso & Gilberto Gil, Dois amigos, um seculo de musica. Ao vivo
(Nonesuch Records, 2016, 2 Cd)

COLONNA SONORA.
Nick Cave & Warren Ellis, Hell or High Water (Milan Records, 2016)

IL TRIBUTO.
AA.VV., God don't Never Change: The Songs of Blind Willie Johnson
(Alligator Records, 2016)

IL BOXSET.
The Grateful Dead, Red Rocks 7/8/78 (Rhino Records, 2016, 3 Cd)

Rogue One [Recensione]

Andare al cinema con calma, non trepidante, ma nemmeno disinteressato. Questo è l'approccio che ho mantenuto con Rogue One di Gareth Edwards, una Star Wars Story messa in cantiere da Lucasfilm e Disney in contemporanea con Episodio VII e approdata in sala giusto appunto lo scorso giovedì. Ebbene, non solo non me ne sono pentito, ma penso di avere visto il più bel film di (anche se i puristi propendono per un "legato a") Guerre Stellari girato negli ultimi trent'anni.
L'antefatto con Jyn (Felicity Jones) bambina che si rifugia in una grotta vale da solo il primo tempo de Il risveglio della Forza, mentre tutto il resto ripaga di tutte le cadute, i fan services inutili e le spudoratezze da copia/carbone del film di Abrams. Merito di una sfilza di personaggi meravigliosi, di un plot avvincente e in grado di approfondire una vicenda i cui svolgimenti erano stati dati per scontati : <<Spie ribelli sono riuscite a rubare i piani segreti dell'arma decisiva dell'Impero, la Morte Nera...>>, possiamo sentir dire in Una nuova speranza. <<Benissimo, ma come han fatto?>> è la domanda (mancata, nel '77) a cui Rogue One dà un'esauriente risposta.
La maggiore fetta del merito va sicuramente a Gareth Edwards- regista che mi aveva entusiasmato con Monsters  per poi deludermi col suo Godzilla -che restituisce finalmente a Star Wars alcuni dei suoi tratti salienti poco curati da Abrams e completamente scomparsi nei brutti episodi 1, 2 e 3 di Lucas: una fantasia sfrenata che investe tutto, dalle comparse alle ambientazioni, e quel lieve senso di cura artigianale che permea tutta la messinscena di Rogue One.
Opera chiusissima e- com'è giusto che sia -autoconclusiva, Rogue One non è nè prequel, nè spinoff, ma, al massimo, un midquel, per usare un termine mai sentito prima di questi giorni. Ovviamente, entusiasma pensare che questa è soltanto una delle infinite storie sviluppabili dai film "canonici", ma basti pensare alla mole di materiale a cui gli sceneggiatori e i soggettisti possono attingere dopo quarant'anni: solo il cosiddetto Universo Espanso (ovvero quell'enorme continente autorizzato da Lucas ma totalmente curato da terzi comprendente libri, serie tv, fumetti, giocattoli, cartoni animati) ha fatto luce su vicende antiche 36.000 anni rispetto a La minaccia fantasma e si è premurato di raccontare storie della galassia ambientate 134 anni dopo Il ritorno dello Jedi. E se qualche morbido allacciamento alla saga "principale" risulta piacevole e affatto forzato, ben più strano è rivedere luoghi e volti ancorati ai prequels di Lucas (Bail Organa, per citare un personaggio): per carità, una delle tante, sorprendenti stranezze a cui ci abitua Edwards per più di due ore di film e che non fanno altro che venir voglia di chiederne ancora. 

lunedì 5 dicembre 2016

Rolling Stones, "Blue & Lonesome" [Suggestioni uditive]

Rolling Stones,
Blue & Lonesome
(Polydor Records, 2016)














Premesso che sono ancora in fase di festeggiamenti per la vittoria del NO al Referendum (è la prima volta, da quando voto, che qualcosa sembra andare di pari passo col mio voto), ci sono cose più importanti dell'attuazione della democrazia diretta: una di queste è i Rolling Stones e lo stabilire come è il loro nuovo Blue & Lonesome.
Lo sto ascoltando da tre giorni e penso che, meglio di così, i Rolling Stones non potrebbero suonare, cantare e incidere. Un disco che gli intenditori (non i fans, che magari si sono fatti stare bene tutta quella vena dance e new-wave degli anni Ottanta o le patinature della trilogia Voodoo Lounge, Bridges to Babylon, A Bigger Bang) aspettavano dai tempi di Some Girls (1978). Dodici covers di quel blues elettrico che chiunque abbia mai messo le mani su un disco Chess (fanno testo anche le ristampe su cd) non può fare a meno di amare; una selezione originalissima e che davvero non banalizza gli originali, nè stufa l'ascoltatore.
Per quanto mi riguarda, non mi sono mai allontanato dai Rolling Stones, ma ho placidamente snobbato molte iniziative recenti a loro legate (Havana Moon, in primis, ma pure Totally Stripped e altri simili rabbocchi ad un serbatoio della benzina che ormai ritenevo irrimediabilmente compromesso). Eppure mi ritrovo con un ottimo disco che da tre giorni gira a mo' di loop nell'impianto di camera, in macchina, nelle cuffiette dell'iPod, perchè questa è davvero musica pura, meravigliosa e sta bene con tutto. Non mi importa che non ci siano le composizioni firmate dai Glimmer Twins, e passo pure sopra le critiche (comunque giuste) rivolte a Don Was, personaggio che stavolta poteva tranquillamente essere rimpiazzato da produttori più vicini al blues e parimenti autorevoli. I due interventi solisti di Eric Clapton nei brani più lenti dell'album valgono più di quanto quest'uomo abbia prodotto, a livello di studio, negli ultimi nove anni. Mick furoreggia con l'armonica come non mai, canta con meno sguaiatezza rispetto a quasi tutte le canzoni degli Stones post-Tattoo You, e il risultato è davvero splendido. E poi Ron Wood, che finalmente fa quello che gli riesce meglio, ovvero suonare, con impagabile onestà, una chitarra blues come faceva nel Jeff Beck Group.
Da ascoltare ad alto volume. Possibilmente ballando.

domenica 20 novembre 2016

Grateful Dead, "Dave's Picks Vol. 20" [Suggestioni uditive]

Grateful Dead,
Dave's Picks Vol. 20
(Rhino Records, 2016, 3 Cd)













Tirato in 16.000 copie (500 meno del precedente), introvabile nel vecchio mondo ma reperito in rete, questo ventesimo appuntamento con i materiali di archivio curati da David Lemieux l'ho già ascoltato due volte nell'arco delle ultime settimane. Data la proverbiale irreperibilità (anche online) di questa serie e il diffuso disinteresse nei confronti dei Grateful Dead nel nostro paese, non avevo pensato di scrivere su questo triplo cofanetto. Anzi, mi ero al contrario proibito troppe riflessioni, recependo il fortuito ritrovamento di una cartella .FLAC come se fosse un sogno e questa serie di ascolti come un'esperienza profonda, lontanissima dal distacco con cui mi approcciavo, ancora adolescente, alle rarità del gruppo di Jerry Garcia e Bob Weir: all'epoca, del resto, i vasi di Pandora rispondevano ai nomi di Dick's Picks o, per quanto riguardava la musica liquida, di Download Series e si trattava quasi sempre di gigantesche enciclopedie .rar poco accessibili anche per i più valenti scaricatori di eMule. La mia decisione è mutata per due motivi: la prima, è stata la delusione rilasciata da tutto quello che è uscito negli ultimi mesi derivanto dalla galassia dei Dead (dunque, il settimo bootleg di Garcia Live pubblicato da ATO, il famigerato e inutile Blue Mountain di Bob Weir, l'estenuante e largamente evitabile tributo Dear Jerry); la seconda, molto più semplice, ha riguardato solo la certezza che in Italia quasi nessuno recensisce le uscite della Dave's Picks e che, per una volta che riesco a mettere le mani su uno di questi gioielli (per giunta in altissima qualità audio), quel qualcuno potevo essere io
Dicembre 1981, Boulder, Colorado. "The Circus is in Town": come mostra la copertina, dal paesaggio innevato dei Flatirons si distacca un'esplosione di colori freddi come la Morte, che campeggia in primo piano guidando una bicicletta. L'ombra dei crateri lunari scivola di traverso e oscura le casette alla periferia della Contea. Un'immagine incredibile. Nevica già da un mesetto, a tratti piove. Cold Rain and Snow, un traditional del canzoniere americano antico quanto gli Stati Uniti stessi, viene ripescato dal primo LP omonimo (1967) e apre il concerto dei Grateful Dead. L'assolo di Garcia cancella il momentaneo stupore di chi si aspettava Alabama Getaway, quel curioso singolo pop che- al pari di Go to Heaven, album che lo contiene -non ha avuto vita facile in classifica negli ultimi tempi. Per una mezz'ora buona si può solo pensare alla Summer of Love, potrebbe essere una scaletta di dieci anni prima, seppure estremamente contenuta nella durata. Perfino Little Red Rooster, da sempre la lunga cavalcata blues nei concerti dei Dead, resta sotto la soglia dei dieci minuti. Con Bird Song il timone della nave passa nelle mani di Weir, a suo agio in mezzo ad un pubblico montanaro e ruspante come quello confluito al CU Events Center della University of Colorado. Il suo set nel set comprende i pezzi più country del gruppo, Mama Tried di Merle Haggard e la splendida Mexicali Blues, rubata al suo esordio solista Ace (1972).
Si cambia nuovamente programma: dapprima sembra di assistere alla fine di un film (China Cat Sunflower e  una I Know You Rider molto bella), poi si passa alla jam del meglio della seconda metà degli anni Settanta (Scarlet Begonias, Fire on the Mountain, Estimated Prophet) e davvero ci si convince di non aver mai sentito musica più limpida, ascoltabile e perfino palpabile di questa. Momenti lirici, intervalli, espansioni melodiche che bastano e avanzano a dare l'emozione di ciò che può divenire una canzone rock: sensazioni che si innalzano ulteriormente in He's Gone e si espandono senza tregua in Space.  The Other One e, inaspettata, Stella Blue conducono ad Around and Around, dove i Dead si riappropriano, compiaciuti, dei propri rock&roll days, e poi di Good Lovin', canzonetta degli Young Rascals già coverizzata in Shakedown Streets
I motori della carovana Grateful Dead iniziano a rombare di nuovo, sotto la neve del Colorado. I roadies sfoderano la grande mappa dell'Ovest, in cerca della strada che li porterà al prossimo concerto. U.S. Blues è per loro e per chiunque, in quella fredda notte, sta attraversando lo stato percorrendo vie alternative, sentieri solitari e isolati. Gli fa eco Satisfaction degli Stones, pulita e tirata alla grande, una versione perfezionata di quella proposta durante il 1980 e ancora lontana dalla banalità del periodo 1984-1986. Oggi, per la prima volta, udibile su HDCD grazie alla competenza e alla lungimiranza di Lemieux, il quale- vale la pena ricordarlo -presenta per la prima volta un concerto dei Dead legato agli anni Ottanta.

sabato 19 novembre 2016

Metallica, "Hardwired... to Self-Destruct" [Suggestioni uditive]

Metallica,
Hardwired... to Self-Destruct
(Blackened Records, 2016, 2 Cd)
1/2
















Capitolo Uno.
2003-2006.
Tra i giovanotti di metal dei primi anni Duemila bisognava scegliere se stare dalla parte dei Metallica "puri", quelli di Kill'em All, Ride The Lightning e Master Of Puppets, oppure da quella dei Metallica "impuri", quelli perbenisti e rallentati, quelli della difesa del diritto d'autore e degli interessi delle major discografiche nella causa contro Napster, quelli che si dividevano fra una festa in famiglia e una partita di basket con qualche clochard di Frisco (come mostrato nel video di Nothing Else Matters). Poteva sembrare scontato schierarsi a favore dei primi, ma a quattordici anni nulla è banale, immediato o automatico. Certo, St. Anger era orribile, ma allora perchè avevo comprato sia l'album che il singolo di Frantic? E perchè Load (originale) girava nel mio stereo quasi quanto Master Of Puppets (taroccatissimo)? Avessi avuto qualche anno in più, fossi stato un metallaro trentenne che aveva toccato con mano quanto il trash metal delle origini fosse libero, scostumato e aperto verso l'imprevedibile, magari non avrei avuto dubbi. Ma non funzionava così. St. Anger era considerato dai più arditi una prova di espressionismo musicale, un esperimento che avrebbe dovuto rilanciare i Metallica avvicinandoli al nu-metal, al noise, al garage e a mille altre diciture in voga all'inizio del nuovo millennio. Poi, naturalmente, si era rivelato essere un disco pessimo, nato da un travaglio immenso (avete mai visto il documentario Some Kind Of Monster?) e assolutamente inappropriato al mercato dell'epoca, un mercato che richiedeva commistioni pesanti con l'hip-hop, molta elettronica e perfino una certa ballabilità di fondo. In molti sono concordi che l'uscita di St. Anger e la sconfitta morale (cui fece seguito l'abbandono di una buona fetta dei fans) nel processo contro la pirateria illegale abbiano rappresentato il punto più basso della parabola artistica e umana dei Metallica. Non è un caso perciò che, già nel 2005, anche il sottoscritto avesse accantonato del tutto roba come St. AngerLoad, Re-Load e Black Album in favore dei vecchi dischi e di ben altri panorami musicali.

Intermezzo.
2006-2008.
Un breve intermezzo biomusicale. L'unica canzone dei Metallica che ho ascoltato fra 2006 e 2008 è stata  la cover di Whiskey In The Jar. E in più devo anche ringraziarli per avermi fatto scoprire- indirettamente, ma va bene lo stesso -Bob Seger, che quando dicevi a scuola che lo stavi sentendo tutti a fare <<Chi? Bob Seghe? E chi è?>>. Bob Seger è uno di quei dieci, venti incontri musicali che ti cambiano la vita. Avete presente i dischi perfetti, quelli che dall'inizio alla fine non cadono mai e non vengono a noia? Ecco, Bob Seger può vantarne almeno quattro nel proprio catalogo (un catalogo che, vale la pena sottolinearlo, ancora deve aspettare una ristampa completa su cd e che tantomeno troverete su Spotify) e può tirarsela anche soltanto per avere registrato uno dei live più belli di tutti i tempi. Oggi è un anziano leone, scrive poco e pubblica anche meno, si esibisce solo negli USA e ha paura di volare.

Capitolo Due.
2008-2015.
Sono da poco rientrato dalle vacanze estive. La sbornia del post-maturità è durata neanche quaranta giorni e fra un viaggio e un altro non sono riuscito a raccattare mezza idea su cosa fare da grande. E' un problema, un problema enorme. Mentre mi arrovello e concentro, alla televisione passa un video dei Metallica. Nuovo, lungo, polveroso, duro come la pietra e con un suono che non si sentiva dai tempi di ...And Justice For All. Alzo il volume della tv. Il video è girato benissimo e mostra un'azione di guerra nel deserto iracheno, mentre, in contemporanea, il gruppo suona in una landa desolata. Le immagni della parte bellica non seguono la musica; è assente, nel montaggio, un'idea di senso del ritmo e solo alla fine ha inizio una lunga galoppata strumentale e la scena si concentra solo sui Metallica, intenti a suonare nonostante siano raggiunti da una tempesta di sabbia. Sembrano tutti più vecchi e più saggi. La telecamera di Thomas Vinterberg (non uno qualsiasi) non accenna a voler nascondere acciacchi e segni dell'età di questi cinquantenni milionari. Un mese dopo esce nei negozi Death Magnetic e io, per partito preso, non lo compro. Tuttavia è un album magnifico, un disco di rinascita che pochi altri artisti possono vantare nel proprio catalogo dopo un periodo di crisi (in questo caso un periodo lungo una quindicina d'anni). Per una volta, i Metallica hanno ascoltato i fans della prima ora, hanno preso e tirato un calcio in culo a Bob Rock (che vada a produrre Bon Jovi!). I concerti migliorano mese dopo mese, il disco piace. E' imperfetto, e poteva essere nettamente migliore se non fossero state omesse alcune canzoni ripubblicate nel 2011 in un EP chiamato Beyond Magnetic. Da Death Magnetic in poi coltiverò un rapporto ambiguo con la band: troverò orripilante Lulu (e pensare che Lou Reed ci ha concluso la carriera con un album del genere), mentre mi esalterò perdutamente andando a vedere, al cinema, Through the Never. Più o meno nello stesso periodo, ascolterò intensamente Lords of Summer, demo poi convertita in singolo che lascerà presagire grandi cose.


Capitolo Tre.
Hardwired... to Self Destruct.
 Al netto dei cinque anni di pettegolezzi e aneddoti che ne hanno anticipato l'uscita, Hardwired... to Self-Destruct è uscito due giorni fa in tutto il mondo. Le versioni presentate sono molteplici, ma le più importanti sono due: la standard (2 cd di cui si capisce poco il senso, dato che l'intero album dura meno di 78 minuti) e la deluxe (3 cd, ovvero l'album e un disco di extra contenente due outtakes, tre covers e otto brani registrati a Minneapolis lo scorso agosto). Qua si parlerà esclusivamente della standard.
Un paio di primati: è il primo doppio album di inedite della loro carriera; è il primo album a non contenere nessuna composizione firmata o co-firmata da Kirk Hammett. Difficile stabilire se sia un pregio o un difetto, dato che, già dopo la tripletta iniziale (Hardwired, Atlas, Rise! e Now that We're Dead) ci si rende conto che stiamo ascoltando un disco di impeccabile, cristallino trash-metal e non di canzoni vintage. James Hetfield e Lars Ulrich non sono compositori rinchiusi nella loro bolla temporale e smaniosi di un ritorno agli anni Ottanta. Certo, hanno commesso i loro errori, pubblicato merda per almeno tre lustri, ma alla fine il loro è il percorso di quasi tutte le rock-band di successo. Moth Into Flame è in assoluto una delle mie canzoni preferite di quest'anno, 
Per il gruppo, tutto Hardwired si segnala come un capitolo particolare: un disco duro e intrigante, più maturo di Death Magnetic (album che continuo ad apprezzare e che invecchia, oggettivamente, molto bene), non necessariamente interessato alla costruzione di un suono "contemporaneo" eppure perfetto per competere con tutto ciò che il panorama heavy offre nel 2016. Chiaramente, non è stato realizzato per lasciarsi ascoltare da chi ai concerti dei Metallica aspetta di tirare fuori l'accendino (o, peggio ancora, lo smartphone) per The Unforgiven, ma è forse proprio questo il suo pregio più grande. In effetti, più si prosegue nell'ascolto e più ci si rende conto di trovarsi fra le mani proprio il seguito naturale di ...And Justice for All e Death Magnetic.  Gli ultimi due brani del primo disco, la lenta Dream No More e l'epica Halo on Fire (altro apice dell'album), rappresentano due valide ragioni per comprendere com'è che il disco sia stato presentato con tanto entusiasmo da Hetfield e soci, e accolto con pari entusiasmo dalla critica (Kerrang! gli ha conferito addirittura il massimo dei voti). La seconda "parte" di Hardwired fa calare leggermente l'interesse da parte dell'ascoltatore, colpa forse di brani non sciatti ma mediamente meno riusciti (e qui più che mai varrebbe la pena domandarsi se un unico cd avrebbe giovato alla totalità dell'opera): si apre con Confusion, oscuro esempio di magia nera che ammicca a certi episodi del Black Album senza scendere però a compromessi. Del resto, anche il secondo disco presenta ben poco che farebbe piacere mettere ad un party con gli amici o durante una pomiciata al chiaro di luna: si prenda anche ManUNkind (video splendido), fra i pezzi più sempliciotti, ma con basso e chitarre elettriche che conferiscono al suono una potenza, una profondità, una tridimensionalità  che al repertorio dei Metallica mancavano dai tempi di Master of Puppets. Here Comes Revenge è una delle migliori canzoni del gruppo di sempre: impostata come il classico pezzo à la Death M agnetic, ha una potenza di fuoco devastante e poco importa se è inferiore a Damage, Inc. o Battery. Am I Savage? parte bene, ma convince poco nell'arco di un paio di minuti, mentre Murder One (anch'essa lontana dalla qualità udita sulla "prima facciata") non è solo rabbia e grinta, ma lascia intravedere passione, ritmo, entusiasmo, groove. Spit Out to Bone, in compenso, è la degna conclusione di un disco come questo, non si arrende, non teme confronti, non soffre di alcun complesso di inferiorità. E', assieme ad un altro paio del cd 1, la canzone che meglio rappresenta i Metallica del 2016, ovvero una band metallara in grado di assemblare un doppio album praticamente privo di riempitivi. L'entusiasmo che mi trasmette ascoltarla mi riporta ai tempi in cui Search & Destroy girava in modalità repeat nello stereo in cameretta e io saltavo dal letto facendo air guitar.
Hardwired... to Self-Destruct è il  disco con cui ascoltare e apprezzare i Metallica migliori. Per chi avesse tredici quattordici anni oggi, è anche, misteriosamente, un buon punto di inizio per conoscerli.

venerdì 11 novembre 2016

Like a Bird on the Wire [Extra]

Leonard Cohen al supermercato.

Accendo il telefono ancora un po' assonnato, guardo quanti SMS di auguri ho ricevuto (è il mio compleanno) e poi penso che nessuno ti fa più gli auguri per messaggio: tutti a prediligere "prozzap" o "fastBook". E allora mi rigiro e apro proprio "fastBook" ("prozzap" mai avuto). Joan Baez scrive: 
Bless Leonard Cohen. I met him in 1961, a mysterious, dark and gloomy, gifted songwriter, in the lobby of the notorious, dingy 60s-atmospheric pot and poetry Chelsea Hotel. Someone was throwing up in the phone booth. I was a newbie to it all. Over the decades, from the Village to the stage to the seclusion of a monastery, to his own seclusion, he gave us much of his wisdom and beauty in magnificent poetry and song. Hallelujah.
Leonard Cohen è morto, per giunta per il mio compleanno? Non posso entrare nel "Club dei 27" sotto un auspicio del genere. Mi informo meglio e scopro che è morto alcuni giorni fa, il 7 novembre, ma che solo ora la famiglia e La casa discografica hanno deciso di rendere pubblica la notizia. Penso a tutte le recensioni di You Want It Darker che ho letto fino a una decina di giorni fa: tutti lì a parlare di testamento artistico e spirituale, di disco già scritto e registrato dall'oltretomba, ecc. Saranno contenti questi gufi scribacchini, ma a me un po' dispiace. Anche se lo sapeva, anche se era preparato al meglio (leggere questa bella intervista al New Yorker può bastare per farsi un'idea), anche se in questi anni dieci sembrava più che mai intenzionato a riempire la vita degli ascoltatori di buona musica con grandi canzoni, registrando e componendo a ritmi che non aveva mai tenuto nemmeno in gioventù.
E poi quale gioventù? Leonard Cohen è l'unica rockstar a non aver goduto di una delle stesse prerogative del rock&roll: la giovinezza. Lui che avrebbe potuto trascorrere la vita pubblicando splendide poesie e aspettando, comodamente, un Nobel. Lui che si approcciò tardi alla chitarra e pubblicò il primo, grandioso album a trentatrè anni. Lui che ha cambiato musicalmente pelle molte volte, partendo da una formula chitarra-voce tipica del folk dei suoi tempi e approdando perfino al synth-pop
Una volta, per scherzo (ma fino a un certo punto), dissi che l'unica epigrafe funeraria che accetterei è la prima strofa di Bird on the Wire
Quest'estate, ero su un'isoletta greca sperduta e lessi su un giornale online la notizia della morte di un suo vecchio amore (la Marianne Ihlen di So Long, Marianne per l'appunto). Lo stesso giornale riportava la traduzione di un biglietto che Cohen, tramite un comune amico norvegese, aveva fatto recapitare alla donna malata terminale. Una lettera di amore ma pure di rassegnazione, breve e semplice, per molti versi simile a molte delle sue canzoni. Una lettera che si concludeva con la frase "Addio, mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada". Anche lui e Marianne si erano conosciuti su una piccola isola greca (Idra) in una calda estate di cinquant'anni prima.
E ora, ladies and gentlemen, le parole e, soprattutto, la Musica di Leonard Cohen, la mia preferita, quella che mi porto dentro già da molto tempo e che continuerà a far parte di me:

Addio Marianna, era tempo di ricominciare
a ridere e piangere 

e piangere e ridere su tutto questo ancora.

Come un uccello sul filo, 
come un ubriaco in un coro di mezzanotte
ho cercato a modo mio di essere libero.
Lei portava calze verdi, dormiva con tutti,
ma <<Cosa fai domani?>> non lo chiese mai a nessuno.
S'innamorò di tutti noi, non proprio di qualcuno 
non proprio di qualcuno. 
Dicevamo che era libera e nessuno era sincero.
Molti hanno usato il suo corpo, molti hanno pettinato i suoi capelli. 
E nel vuoto della notte, quando hai freddo e sei perduto,
è ancora Nancy che ti dice <<Amore sono contenta che sei venuto>>.
(come la cantava FdA)

E grazie per le ansie che hai tolto dai suoi occhi.
Pensavo che fossero lì per sempre e quindi io non ci ho neanche mai provato.


Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel,
parlavi con coraggio e dolcezza,
facendomi un pompino sul letto disfatto 
mentre le limousine aspettavano in strada. 
Non voglio dire che ti ho amata al meglio,
non posso ricordare ogni pettirosso caduto.
Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel.
Tutto qui, non penso a te neanche tanto spesso…

Ho cercato di lasciarti, non lo nego, 
ho chiuso il libro su di noi almeno un centinaio di volte.
Mi sveglio ogni mattina al tuo fianco, 
gli anni passano, tu perdi il tuo orgoglio,
il bambino piange, così tu non esci. 
Tutto il tuo lavoro è proprio davanti a te.
Buonanotte, mia cara, spero tu sia soddisfatta, 
il letto è un poco stretto, ma le mie braccia sono aperte 
e qui c’è un uomo che ancora si dà da fare per un tuo sorriso.

Mi sono avvicinato alla ragazza più alta e più bionda
e le ho detto <<Tu non mi conosci,
ma presto lo farai,
dunque non mi lasceresti vedere
il tuo corpo nudo?>>.
Fammi danzare fino alla parte scura della palestra,
credo che ti lascerò l’iniziativa.
<<So che sei affamato, lo sento nella tua voce,
ci sono molte parti in me che puoi toccare.
Scegli tu
ma no, non puoi vedere 
il mio corpo nudo>>.

Per tutta l’estate lei mi ha toccato, 
la luce veniva dal suo corpo e la notte attraversava la sua grazia, 
ed io l’ho conosciuta viso a viso, 
ed il suo vestito era blu e argento e le sue parole poche e brevi. 
Lei è la nave di tutto il mondo, la signora di noi tutti, la regina della solitudine.

Fammi danzare fino alla tua bellezza con un violino di fuoco, 
fammi danzare fino al panico 
fino a che sarò al sicuro. 
Sollevami come un rametto d’ulivo e diventa la colomba che mi riporterà a casa. 
Fammi danzare fino alla fine dell’amore.

Se quello che vuoi è un amante ,
farò qualsiasi cosa tu mi chiederai, 
e se vuoi un amore diverso 
indosserò una maschera per te, 
se vuoi un compagno 
prendi la mia mano, 
o se vuoi colpirmi con la tua collera 
io sono qui, 
sono il tuo uomo.
Se vuoi un pugile 
salirò sul ring per te, 
e se vuoi un dottore 
visiterò ogni centimetro di te, 
se vuoi un autista 
sali, 
se vuoi solo fare un giro 
sai che puoi farlo,
sono il tuo uomo.

Ho sognato di te, baby
è stato solo l’altra notte, 
eri quasi nuda 
ma eri anche luce, 
la sabbia del tempo scorreva 
dalle tue dita e dal tuo pollice 
e tu stavi aspettando 
che accadesse il miracolo.
(Per inciso, non potrei vivere senza The Future)

E stiamo ancora facendo l'amore,
nella mia vita segreta.

Non ti è mai piaciuto ricevere le lettere che ti spedivo, 
ma ora hai colto l’essenza di quello che le mie lettere volevano dire
e ora le rileggi, quelle che non hai bruciato. 
Te le appoggi alle labbra,
le mie pagine di preoccupazione;
la tua storia era così lunga, 
la trama così intensa. 
Ci hai messo anni a superare la linea dell’autodifesa; 
tu cammini nella mia stanza,
sei alla mia scrivania 
e inizi la tua lettera per chi verrà dopo.

Ho preso l’oscurità bevendo dalla tua tazza; 
ho chiesto <<E' contagioso?>> e tu hai risposto <<Finisci solo di bere>>. 
Non ho futuro, so che i miei giorni sono contati, il presente non è piacevole, solo una lista di cose da fare, credevo che il passato mi avrebbe finito ma l’oscurità ha preso anche quello. 
Mi piaceva amare l’arcobaleno, mi piaceva amare la vista, mi piaceva il mattino presto, fingevo che fosse nuovo, 
ma ho preso l’oscurità baby e l’ho presa peggio di te.

La guerra è persa,
il trattato è stato firmato.
Vivo in mezzo a voi,
ben camuffato.
[Fra l'altro, T-Bone Burnett ha definito Nevermind <<la più importante canzone del XXI secolo>>, tanto che l'ha scelta come brano per la sigla della seconda stagione della più bella serie televisiva di tutti i tempi. Vedere qua per credere.]

sabato 22 ottobre 2016

"The Young Pope", 1x01 & 1x02 [Recensione]

The Young Pope è il primo film di dieci ore di Paolo Sorrentino.
Una storia della coscienza, privata e collettiva. Una coscienza riconducibile- stando almeno a quanto mostrato nelle prime due puntate -interamente all'attività del vedere e del non-vedere. Pio XIII (Jude Law), un papa giovane, bello e spregiudicato prega dio ma non lo vede. 
Finora, Sorrentino ha sempre girato o film "di ricerca" o film da "seguire con gli occhi". La grande bellezza resta sicuramente il più contemplativo, Youth è sfociato nel narcisistico, ma The Young Pope rappresenta, ad ora, il perfetto punto di incontro fra queste due tendenze (oltre ad essere infinitamente migliore di Youth). 
L'immagine di Roma "frazione di Città del Vaticano" dà un senso di solitudine e di abbandono, esattamente come quella di un papa solo e orfano. 
Silvio Orlando e Diane Keaton sono scritti benissimo e recitano al meglio (e lei, soprattutto, colpisce, perchè era dai tempi di Misterioso omicidio a Manhattan che non funzionava così bene).
Infine, The Young Pope racconta il primo papa della storia del Cinema, della Tv e del Mondo a farsi influenzare dai Daft Punk.

giovedì 13 ottobre 2016

"...for having created new poetic expressions within the great American song tradition" [Extra]


A fine agosto, come meta finale di un viaggio condiviso con un vecchio amico in cui abbiamo toccato tre stati e tre capitali europei, ho visitato Stoccolma. 
Una città fredda, austera, popolata da un popolo emancipato ma pure incredibilmente rigido, serioso, irremovibile. 
Insomma, approdare in una città come questa per due comprovati mediterranei (con tutti i pregi e i difetti del caso), può rivelarsi un bello sbalzo climatico e sociale. 
Il tempo a disposizione non era molto (tre giorni appena), e dunque c'era da pedalare se volevamo vedere almeno tre quarti della capitale svedese.  
La seconda mattina ci siamo alzati di buon'ora e ci siam diretti a piedi dalla City, nel cuore della quale alloggiavamo, a Gamla Stan. 
Osservato e fotografato l'imprescindibile cambio della guardia di fronte al Palazzo Reale (Kungliga Slottet) e visitata un'armeria piena di strani oggetti e cavalli imbalsamati, abbiamo deciso di spostarci verso la Storkyrkan, ovvero il duomo della città. 
Lungo il tragitto, ci siamo ritrovati a costeggiare il Nobelmuseet, il museo dedicato alla storia e ai vincitori del premio Nobel. 
<<Te ne importa qualcosa di visitare il museo del Nobel o si tira a dritto?>>, mi ha domandato il mio compagno di viaggio proprio mentre ricominciava a piovere (non ha mai veramente smesso durante i nostri tre giorni di permanenza). 
<<No>>, ho risposto. 
E infine ho concluso: <<E poi finchè non danno il premio a Bob Dylan per me possono chiudere!>>.
Ecco. Se non è il karma questo, allora ditemi voi cos'è.

martedì 11 ottobre 2016

Le confessioni di San Boss e i segreti che conoscono tutti [Schegge di lettura]

E' un paio di anni che di Bruce Springsteen si parla e si scrive molto. Forse perchè di Bruce Springsteen, negli ultimi due anni, si è pubblicato, a livello discografico, molto. 
Magari troppo, e non occorre andare lontano nel tempo per accorgersene. Solo partendo dal dopo-High Hopes, a primavera 2014 un orrendo 45 giri dall'abusato titolo American Beauty ha fatto capolino nei negozi per il Record Store Day, mentre, a fine di quello stesso anno, è comparso un inutile e dispendioso cofanetto dei suoi album in studio che vanno dal 1973 al 1984 (ergo i capolavori quelli veri, ma tutta roba che gli intenditori posseggono e amano già, oltre a conoscerla a memoria). 
Poi, nel 2015, c'è stata la lodevole operazione di Ties That Bind: The River Collection, il miglior boxset mai uscito dai cantieri del Boss e, con ogni probabilità, una delle più belle retrospettive discografiche mai realizzate. Poco prima, in Italia, andava in stampa per i tipi di Mondadori A proposito di un sogno, ovvero una raccolta delle migliori interviste rivolte a Springsteen e dunque, indirettamente, un'ottima ed esausitva biografia dell'artista. Italiano si è perfino rivelato uno dei più bei saggi scritti sul Boss negli ultimi anni, quel Badlands (Donzelli Editore, 2015) firmato dal grande Alessandro Portelli e ad una cui (tardiva) presentazione ho avuto il piacere di assistere mesi fa. 
A inizio 2016, Mondadori ha rimpinguato ulteriormente i fans: prima, ripubblicando (con dovuto allungamento di brodo), negli Oscar, l'efficace Bruce (2012) di Peter Ames Carlin , poi passando all'atroce fumetto Outlaw Pete, illustrato da Frank Caruso e- pare -scritto direttamente dalla mano del Boss. I concertoni estivi- attorno a cui è andato costruendosi un interessante dibattito critico e popolare -hanno alimentato l'atteggiamento di fanatismo che ruota ormai in larga parte attorno a Springsteen. Risale a poche settimane dopo la notizia dell'imminente uscita della sua tanto attesa autobiografia, addirittura accompagnata da un ridicolo best of su disco unico (Chapter and Verse, ossia altra merce con cui i discografici amano prendere per la gola i ricattabilissimi fans del Boss da un paio di decenni). Libro e disco sembrano un riciclo del riciclo: l'autobiografia si intitola addirittura Born to Run, esattamente come la canzone (evvabbè...), ma pure come il primo saggio che fu scritto sul cantante, nel 1980, da Dave Marsh. 
Una delle prime cose che apprende un appassionato di musica a cui capitano fra le mani le autobiografie di certi cantanti è che la loro abilità di scrivere in versi, spesso, non trova un corrispettivo altrettanto felice nella prosa. Quante orribili autobiografie (spesso e volentieri scritte da ghostwriter e simili) ci siamo sorbiti solo per amore di un determinato artista? Innumerevoli. Di contro, le librerie pullulano di splendidi saggi dedicati da critici e appassionati che, oltre ad essere competenti ed esperti conoscitori della materia trattata, sanno scrivere bene. E anche a Bruce Springsteen, dispiace doverlo ammettere, è toccato il destino dell'artista che si racconta poco e pure male, a dispetto dei 23 euro del prezzo di copertina, della preziosa rilegatura e delle cinquecento pagine del "romanzo della sua vita". Troppi punti esclamativi, troppi "...", troppi capitoli, troppi paragrafi in grassetto. Vale la pena sottolinearlo per chi non la avesse mai letta, ma la più bella autobiografia rock di sempre (Chronicles vol. 1 di Bob Dylan) conta appena 5 capitoli e 250 pagine, eppure ha una ricchezza contenutistica ed espressiva- intendo proprio a livello di opera letteraria-in confronto a cui Born to Run sembra l'Informatore Coop.
Gli aneddoti iniziali della commistione fra italiani e irlandesi sembrano divertenti, ma dopo un centinaio di pagine si realizza che siamo di fronte a un raccontino popolare che annoierebbe perfino i fans più irriducibili de I Soprano. Va bene, ci sono grandi momenti che fanno luce sulle origini musicali del Boss (la prima volta che vede Elvis in televisione, la british invasion, il resoconto di qualche concerto di Janis, Doors, Grateful Dead, l'amore giovanile per Van Morrison e quello, già più maturo, per Hank Williams), ma scarsi approfondimenti su molti dei suoi capolavori. Prendiamo ad esempio Nebraska, uno dei vertici creativi di Springsteen, liquidato con la solita favoletta dell'uomo solitario che in una casa in mezzo al buio invernale registra su un portatile quattro piste giapponese alcune delle più belle canzoni di ogni tempo. Quante volte abbiamo già sentito questa storia? Ci sono critici o anche semplici narratori che hanno dedicato al solo Nebraska saggi e litri di inchiostro. Sean Penn arrivò a dirigere un film (Lupo solitario) tratto esclusivamente da una canzone ivi contenuta (Highway Patrolman) e nel libro, di questo fatto riguardante comunque l'impatto che ebbe quel disco nell'immaginario popolare, neanche si trova traccia. 
Per fortuna c'è qualche bella pagina dedicata a Tunnel of Love (un disco che, per chi scrive, è nettamente superiore a Born in the USA e che sembra essere molto importante anche per il Boss) e altrettante- sempre ottime -vengono spese sulle sofferte origini di The Rising, sull'incontro con Brendan O'Brien e sulla rinascita della E-Street Band. Ma gli anni Novanta, in Born to Run, che fine hanno fatto? E, soprattutto, che fine aveva fatto Springsteen negli anni Novanta? Stando a quanto ci racconta lui, si è fatto casa ad Hollywood, tre figli e ha imparato a cucinare i cupcakes. C'è qualche rigo dedicato a quello strano esperimento di nuova band che avrebbe portato a Human Touch e Lucy Town. Già, anche di Lucky Town (unico album della sua produzione per cui forse sarebbe giusto sfoggiare l'abusato termine "rivalutazione") non viene menzionato manco il titolo. E pensare che uno dei momenti più interessanti delle interviste confluite in A proposito di un sogno era proprio quello (pagg. 172-194) in cui, su Rolling Stone, il Boss analizzava il fiasco di quella doppia uscita. Ma Lucky Town non è l'unico lavoro dimenticato di questa autobiografia: Devils & Dust- primo album di Springsteen che, come ascoltatore e appassionato, ho vissuto "in diretta" -sparisce misteriosamente, per non parlare degli ultimi nove, dieci anni di carriera condensati in tre capitoli da una pagina l'uno. 
Tali dimenticanze lasciano spazio ad interi passaggi insostenibili: penso allo sproloquio su quanto belli, bravi e intelligenti siano venuti su i tre figli del Boss e di Patti, o peggio ancora all'aneddoto in cui, a causa di un terremoto, il cantante si preoccupa per la sua incolumità e per quella della propria famiglia, telefona (fantozzianamente) ad un megadirettore naturale della Sony e, nel giro di pochi minuti, un elicottero accorre a salvare gli Springsteen atterrando sul vialetto del loro villone sulle Hills. Perfino il capitolo "anticipato" da Vanity Fair un paio di settimane fa riguardante la pesante depressione che ha colpito il Boss al giro di boa dei sessant'anni non è che sia tutto questo momento di grande letteratura psicoanalitica. Certo, è sincero e diretto, ma puzza terribilmente di artificioso, perfino di vittimistico in alcuni passaggi. Roba che si addice ai palati cinici di chi ritiene che ogni autobiografia debba per forza somigliare ad una confessione. Non è necessariamente così (era forse una confessione il meraviglioso Just Kids di Patti Smith?), ma oggi il mondo smania per vivere in maniera perversa certe aperture delle celebrità. E Bruce Springsteen, ovviamente, non fa differenza. E lui lo sa, lo sa bene. Lo sa talmente bene che ha impacchettato Born to Run proprio per questo tipo di mondo, così diverso da quello descritto e talvolta auspicato nelle sue canzoni da lasciar presagire che non sempre l'artista si rivela umanamente alla pari di ciò che ha creato.