sabato 30 gennaio 2016

Joy [Recensione]

Joy è il primo film di David O. Russell che davvero non mi convince. Non lo dico per il soggetto (il film è una biografia, molto romanzata, della vita di Joy Mangano, inventrice fra l'atro del mocio autostrizzante), nè per il cast (la Lawrence sempre più bella e sempre più brava, Bradley Cooper in gamba, De Niro decente), nè per certe scelte di regia più "piccole" rispetto a quelle che avevano fatto The Fighter o American Hustle dei grandi film. 
Il film funziona malissimo come biopic: c'è questa Cenerentola moderna che dopo tante angherie trova la sua posizione all'interno del sogno Americano (e con me un film che denigra le soap ma al contempo difende i valori delle televendite senza metterli in discussione già casca male), ma l'approfondimento psicologico del personaggio- un personaggio che soffre e si sacrifica -è paragonabile a quello di un nuovo personaggio di una qualsiasi puntata di Don Matteo (e lo stesso si può dire dei suoi sgradevoli familiari). 
Il film funziona male come commedia: meno humour rispetto alle ultime prove di Russell non alleggerisce di certo le due ore e passa di durata. Anche le situazioni parodistiche della telenovela preferita dalla madre di Joy non divertono, non pungono, non fanno pensare.
Infine, il film funziona male anche come dramma: la morte della nonna Mimì promoter/voce narrante/angelo custode della povera Joy è piatta, sciatta e buttata lì, come intervallo per lacrime sensibili.
E io sono un musicofilo consumato, ma stavolta non mi sono bastate Stray Cat Blues, I Feel Free e- oh mio Dio -Racing In The Street per pianoforte solista a farmi sciogliere un po'. Se non sapessi che Russell pensava da tempo a questa storia e voleva realizzarla da anni, avrei pensato di trovarmi di fronte ad un'operetta su commissione girata con la mano sinistra. E la mano sinistra di Russell, diciamocelo, non sarà mai la mano sinistra di quello che continua ad essere il suo più grande punto di riferimento: Martin Scorsese.

venerdì 29 gennaio 2016

L'abbiamo fatta grossa [Recensione]

Arturo Merlino e Yuri Pelagatti. Un detective romano imbaranato come una foca e un attore di teatro milanese donnaiolo, depresso e fallito: sono Carlo Verdone e Antonio Albanese in L'abbiamo fatta grossa, una coppia comica che nel cinema di casa nostra non si vedeva da anni.
Stavolta vengono meno la bella ragazza, il corteggiamento e l'innamoramento. E' assente la musica, non da intendersi come soundtrack ma come elemento essenziale allo svolgimento della trama (lo era stata anche nel recente Posti in piedi in paradiso, dove Verdone era il gestore di un negozio di vinili e memorabilia rock). Ed è assente il finale "tarallucci&vino" su cui si basa una bella fetta di fortuna della commediografia italiana degli ultimi vent'anni. 
Commedia nera degli equivoci ambientata in una Roma degradata e sventrata da crisi economica e malapolitica- stesso scenario delle ultime due pellicole -, L'abbiamo fatta grossa si apre con degli inusuali titoli di testa dal sapore alleniano e riporta di fronte alla cinepresa un tema indispensabile del nostro cinema: l'amicizia (in questo caso nata da un rapporto clientelare) fra due professionisti un po' soli che nella vita, per motivi diversi, recitano. C'è una valigietta, di quelle che quando si apre illumina il volto e la vita di chi vi si specchia ma che potrebbe essere equamente risolutiva per chi ne entra in possesso (dunque una valigietta a metà fra quella di Pulp Fiction e quella di Non è un paese per vecchi). Ci sono i cattivi, belli, eleganti, viscidi. E poi abbiamo gli anziani, e nessuno filma la vecchiaia come Verdone (pensate alla Sora Lella e agli innumerevoli sketches sulla terza età che affollano la sua produzione): la zia convinta che lo zio defunto sia vivo e pranzi ogni giorno al suo fianco, la nonnina Ernesta a cui viene declamata una filastrocca di compleanno talmente orribile da risultare spassosissima, mentre nella sua villetta l'investigatore Merlino- nei panni di uno 007 fuori forma -insegue il gatto "nostalgico" Benito. I giovani viaggiatori coatti, meravigliosi, che siedono dietro Verdone e la sua pseudo-fidanzata romena Lena (Anna Kasyan) ad un ristorantino ostiense e che lo riprendono su Cipro e Creta, e l'altra coatta, fantastica, che gestisce il solarium in cui i nostri si sono recati travestiti da preti. E poi ancora la romanità dell'uomo alla finestra che si affaccia in piena notte per protestare e la feroce, fondamentale contrapposizione fra la comicità di Verdone e quella, surreale e a tratti malinconica, di Albanese, anima egoisticamente persa la cui maschera viene meno solo nell'atto finale della commedia, con una corona da re shakespeariano fatta coi fogli di giornale.
Struttura impeccabile, regia straordinaria, volti, battute e fisionomie studiate nel dettaglio fanno di L'abbiamo fatta grossa il film di Verdone più completo degli ultimi anni. Cosa altro di più si può desiderare da un autore di questo calibro?

domenica 24 gennaio 2016

Lucinda Williams, "The Ghosts Of Highway 20" [Suggestioni uditive]

Lucinda Williams,                                                     The Ghosts Of Highway 20                      (Highway 20 Records, 2016)                                   ½                                                          
Tre album sono sufficienti per scorgere la costanza ossessiva con cui, nella musica di Lucinda Williams, la Morte è trapiantata altrove (West, il doppio capolavoro Down Where The Spirit Meets The Bone e questo ultimo The Ghosts Of Highway 20). Nella sua voce e nella sua mente, stavolta, va in scena il funerale del padre poeta recentemente scomparso, mentre il dolore scalfisce i solchi dei nastri ricorrendo a incubi, racconti e visioni (ghosts). West, introducendo il tema dell'amore naufragato e dell'elaborazione del lutto per la morte della madre, conteneva viaggi e spostamenti che si condensavano nel titolo e nell'effettistica allucinatoria del missaggio finale (alcuni pezzi sembrano prodotti da Daniel Lanois). In DWTSPMTB la poetica paterna veniva in primo piano (la traccia di apertura è una poesia del padre) per accompagnare l'autrice in un'ascensione ribaltata, laddove ossa e spirito, materiale e immateriale, si compenetrano e si annientano nel placido canto funebre per J.J. Cale, di cui, come ultima traccia, veniva intonata la più bella Magnolia di sempre.
The Ghosts Of Highway 20 è più terreno e meno spirituale del suo fortunato e doppio predecessore. La Williams- mai stata così disinteressata alla papabile commercialità di un proprio disco -gioca come voce fuori campo per i racconti di altri outsiders e per le storie raccolte in quella lingua di asfalto che scende dal South Carolina fino al Texas e che risponde al nome di Interstate 20. Già in Dust le chitarre di Greg Leisz e Bill Frisell conducono l'ascoltatore ai bordi di un sentiero selvaggio. Non tanto un sentiero della Storia o- come nel caso dell'altro grande fantasma, il Ghost Of Tom Joad springsteeniano (ma prima fordiano e prima ancora steinbeckiano) -del Cinema, ma della Musica. Il sentiero dell'interstatale 20 di Lucinda Williams sconfina nel territorio del Country, si parla di case da costruire, mutui da pagare, mariti, mogli, figli e routine. La cantante condivide queste tematiche con i vari Steve Earle, John Hiatt, Bruce Springsteen (la cui firma è qui presente nella cover di Factory), Townes Van Zandt e Guy Clark, fino ad andare ad abbracciare gli antichi spiriti di Hank Williams e Johnny Cash o il mood produttivo di un T-Bone Burnett (che con Lucinda, però, non ha mai lavorato). La rinuncia alle finezze del pregevole e metropolitano Blessed e alle sconfinate libertà autoproduttive di DWTSMTB non pregudica eccessi, sprechi o mancanze di controllo nella cabina di regia. C'è un gusto quasi retrò negli arrangiamenti delle lunghe, epiche Louisiana Story, Ghosts Of Highway 20 e Faith&Grace, perfettamente distribuite lungo tutto l'album. Completamente affondata nelle proprie radici sudiste, Lucinda paga i propri debiti verso gli oscuri cantori delle paludi in pezzi come Death Came e Can't Close The Door On Love e risente più che in passato della difficoltà di situarsi dentro i generi (ma anche questo fa parte del suo fascino). I suoi fantasmi, a cui solo da ultimo è andato ad aggiungersi quello del padre, sembrano essere memorie che si stratificano disco dopo disco, prendendo posto all'interno di un grande quadro in movimento che è la musica americana. Più che la famiglia (autentico tema portante del suo massimo successo Car Wheels On A Gravel Road) qua trovano spazio i rapporti di parentela, drammatici e convenzionali (House Of Heart, Bitter Memory), e un modo di vivere l'amicizia (Place Of My Heart, Doors Of Heaven) che rinvia a percorsi solitari, primordiali, mitici e a confronti essenziali che trovano uno sfondo comune proprio sulla Highway 20. 
E i musicisti? Leisz e Frisell sono passati da un disco di guitar rock ad un altro pianeta in cui non mancano assoli profondi e spigolosi. Ogni tanto sbuca Val McCallum, ma mai per affiancarsi ai due masters. Un paio di riempitivi e un certo piattume nella sezione ritmica riportano l'opera della Williams a una condizione più "umana" delle ultime prove in studio. Si percepisce un'incertezza quasi programmatica in tutto The Ghosts Of Highway 20 e che, fondamentalmente, mina quei due, tre momenti divini del disco. La sicurezza con cui Lucinda dapprima scarnifica  e spella la hit springsteeniana trascinandola, sanguinante, sulla prateria riconferma la sua straordinaria abilità di cantastorie, mentre il lento incedere dei tredici minuti di Faith&Grace dimostra che siamo davvero approdati alla fine del Sogno Americano.

Steve Jobs [Recensione]

Qualche anno fa, uscii da un cinema pensando che se il film che avevo appena visto fosse stato scritto e diretto da persone che non rispondevano, rispettivamente, ai nomi di Aaron Sorkin e David Fincher sarebbe stato terribile. Quel film era The Social Network: l'ho rivisto almeno altre quattro volte da allora e rimango della mia idea. Ho trasalito quando ho saputo che lo stesso genio (perchè chi ha scritto un dialogo come quello con sui si apre The Social Network un po' genio è per forza) aveva finalmente affrontato l'annoso "caso Jobs" e messo la propria versione dei fatti al servizio di un bravo autore (Danny Boyle). Notizie di questo genere sono quanto di più straordinario potesse giungere alle mie orecchie cinefile: e non perchè ci fosse la necessità di un biopic su Steve Jobs (quale biopic è realmente necessario?), ma perchè mancava quel pizzico di decenza nel portare sullo schermo un personaggio che, nel bene e nel male, ha lasciato la propria firma nel mondo.
Già nel 1999 un primo Steve Jobs di finzione approdava sullo schermo , interpretato da Noah Wyle, in un osceno film televisivo dall'imbarazzante titolo I pirati della Silicon Valley. Nell'agosto 2011, una piccola produzione iniziava a lavorare a un biopic vero e proprio e Jobs- già malato terminale -veniva informato che per il suo ruolo era stato scelto Ashton Kutcher (il che può aver accellerato i tempi della sua malattia). Jobs è uscito nel 2013, mi sono risparmiato i due chilometri che mi separavano dalla sala più vicina a casa e l'ho visto in tv. Alla fine, sembra un brutto fan movie di quelli che proiettano sui muri durante Lucca Comics.
Lo Steve Jobs di Boyle, caratterizzato da un'interpretazione di Fassbender (che, sappiatelo ha tutte le carte per rivaleggiare con il Leo di Revenant) assoluta, intanto, prende una posizione netta: Steve Jobs non è un santo, non è un genio, non è legittimato a fare e dire ciò che farà nelle due ore (e tre scene) del film. Steve Jobs ha un problema serio, ossia il campo di distorsione della realtà (in medicina l'acronimo di questa malattia è RFD). Il film si svolge in tre distinti momenti della sua vita e in tre differenti backstages delle leggendarie e maniacali presentazioni dei suoi prodotti: quella del Mac (1984), quella del NeXT (1988) e quella dell'iMac (1998). Due creazioni su tre rappresenteranno i suoi più grandi fallimenti professionali (e, di conseguenza, umani, vista la sua manifesta incapacità di scindere i due aspetti) e ad essi partecipano, in maniera diversa, amici, colleghi e parenti (la figlia Lisa, riconosciuta solo nel 1986) per dire a Jobs cosa pensano di lui come persona prima ancora che come imprenditore. Il suo vecchio socio e migliore amico Woz (Rogen), il geniale tecnico Andy (Stuhlbarg), il suo ex-capo John (Daniels), la sua ex-compagna Chrissan (la splendida Katerine Waterston di Vizio di forma) e, ovviamente, la figlia Lisa (Jardene). A cercare di tenere insieme tutto senza mai crollare ci pensa l'inossidabile, paziente, premurosa Joanna Hoffman (Kate Winslet da Oscar), assistente personale di Jobs.
Il risultato è un susseguirsi di dialoghi magnifici e cineprese che si muovono incessantemente per corridoi, sgabuzzini, camerini e gabinetti. Sorkin ha ulteriormente affinato le tecniche di script-writing che hanno fatto di The Social Network il grande film che è e alla fine sovrasta tutto: regia, montaggio, musiche, tutto è in secondo piano all'infuori di una grande sceneggiatura e di una squadra- non gigantesca -di bravi attori. Un'opera teatrale, una biografia quasi intesa à la Derek Jarman, dove finalmente per l'uomo Jobs non si celano scuse, giustificazioni o mitizzazioni, ma solo realtà, crudezza e perfino offese.
Solo sul finale traspare un po' di buonismo, Fassbender cede e la tensione si abbassa. Scena muta e un ralenti che- con buona pace di Danny Boyle -puzzicchia di commediola ormonale. Fortuna vuole che alla fine arrivi Dylan (Shelter From The Storm) che davvero porta tutto a casa. Come solo lui sa fare.

giovedì 21 gennaio 2016

Il ventunesimo giorno di gennaio, la morte di Glenn Frey e la paura di vedere un adesivo dei Guns N'Roses sul retro di una Ferrari [Extra]


"Non possiamo sapere cosa succederà domani/ dobbiamo sempre scegliere da che parte andare": queste sono le prime parole che mi sono venute in mente pensando a Glenn Frey, morto un paio di giorni fa. Non c'entrano nulla con Hotel California o Tequila Sunrise, nè tantomeno con la band a cui Frey doveva la propria notorietà (gli Eagles). Quelle parole, infatti, arrivano da una gran bella canzone dimenticata che si intitola Part Of Me Part Of You e che il chitarrista compose per la colonna sonora di Thelma e Louise
E' ormai una decina di anni che conosco questo pezzo: era finito in una compilation di ispirazione eaglesiana assieme alle hit del gruppo e a tanta bella robina dei singoli componenti (fra le altre, The End Of Innocence di Don Henley e Rocky Mountain Way di Joe Walsh). Ho perso le tracce di quel cd datato- con fare angolofono -"jan. '06" da molto tempo, ma mi piace pensare che sia rimasto in qualche pesante stereo compatto prima che venisse di moda girellare di casa in casa, da una festa all'altra, armati di cavi AUX e iPod Nani. 
Non pensavo che una decade filasse via così, veloce come un proiettile, irrisolta e a tratti anche un po' maligna. Così come dieci anni fa non avrei mai immaginato che sarebbe morto Glenn Frey degli Eagles, e prima di lui David Bowie, e ancora prima Lemmy Kilmister. O che la lineup classica dei Guns N'Roses si sarebbe riunita nel 2016 (non potevano pensarci prima, questi tamarri, no?): una notizia tanto bella quanto isolata in un mondo dove ormai defezioni e tragedie sembrano essere all'ordine del giorno. 
<<Certo, sarebbe bello tirar fuori dal cilindro del mago un paio di migliaia di dollari, prendere i biglietti (esauriti in un batter d'occhio), volare fino in California e andarsi a godere lo spettacolo>>, mi sono detto. Sarebbe bello e significativo, invece di star qui a piangere i miti che- come Glenn Frey -scompaiono e a ripensare al peso che hanno avuto, con le loro opere, sulla nostra vita e sui nostri valori.
Riascoltando Part Of Me Part Of You ho pure pensato che tante cose che sembravano così importanti sono svanite nel nulla e che gennaio continua ad essere un mese ingodibile di freddo e buio. In una nota del 21 gennaio 2006 scrivevo: "Che ci può essere di buono in gennaio per un single che non sa neanche sciare?". Chissà, forse in camera stava risuonando la compilation "Eagles e dintorni" (anche se non penso, visto che due righe sotto annotavo "Roy Orbison is singing for the lonely/ Hey that's Me and I want you only", una citazione che non ha certo bisogno di ulteriori specifiche).
Grazie ai miracoli dell'era iTunes la compilation "jan. '06" è stata sapientemente ricostruita qualche anno fa, è ospitata nel mio iPod Classic e aspetta solo di ricevere il fatidico "play". Nulla di straordinariamente ricercato. Si apre con Desperado, passa attraverso Hotel California, The Last ResortWasted Years e altre meraviglie e si conclude con The Boys Of Summer del solo Don Henley, brano del 1984 che contiene una di quelle frasi che spiegano tutta la fine del sogno: "Out On The Road Today, I Saw A Deadhead Sticker On A Cadillac", ossia "Oggi lungo la strada ho visto un adesivo dei Grateful Dead su una Cadillac" (che per me equivarrebbe a vedere un adesivo dei Guns N'Roses sul retro di una Ferrari).

E' stato come il tuffo ne L'Atalante di Jean Vigo, ovvero la più grande scena d'amore della storia del Cinema. Con il buio e l'oscurità al posto delle onde del mare. Lo sguardo di amore che produce amore mediante una sovrimpressione. Due immagini cinematografiche che fanno l'amore fra loro. 
E poi la notte appartiene agli amanti.
La notte appartiene a noi.



domenica 17 gennaio 2016

Revenant- Redivivo [Recensione]

Ho letto Revenant di Michael Punke all'indomani del mio venticinquesimo compleanno, nel novembre 2014. Un bel libro di avventura, moderno, asciutto, fedele alla cronaca storica e assai poco incline al romanticismo e, tantomeno, al filosofico. Nulla di nuovo per chi la storia di Hugh Glass (che nel film è interpretato da un bravissimo Leonardo di Caprio) il trapper già la conosceva. Perchè quando si cresce sognando personaggi come i fumettistici Jed Smith di Rino Albertarelli e Gesuit Joe di Hugo Pratt o il Jeremiah Baker interpretato da Robert Redford in Corvo Rosso non avrai il mio scalpo si finisce con l'imparare un sacco di cose sul grande Nord, i suoi abitanti, i cacciatori di oro e di pellicce, gli indiani, le guerre e altre avventure che aspettano solo di essere trasposte sul grande schermo.
Dal romanzo storico di Punke, Alejandro G. Iñàrritu e lo sceneggiatore Mark L.Smith estrapolano il minimo indispensabile (ovvero quella parte in cui Glass viene aggredito da un orso e, soccorso e abbandonato dai suoi stessi compagni, inizia un lungo viaggio in cui le priorità sono sopravvivenza e vendetta) e aggiungono due particolari di non poco conto: l'omicidio di Hawk, figlio meticcio di Glass, e il rapimento di Powaqa, figlia di un sanguinario capo indiano che farà di tutto pur di riaverla indietro.
Insomma, alla fine la storia è quella di una vendetta, una vendetta indiana a dispetto di quel "la vendetta è nelle mani di Dio" che campeggia sul poster italiota quasi fosse un obbligo "ammiccare" alla divinità nazional-popolare per eccellenza. In compenso, esplicazioni e riferimenti al contesto storico e politico in cui i nativi e gli esploratori si muovevano ad inizio Ottocento nel Nordovest americano sono praticamente nulli (tutte probabilità in più per conquistare uno dei dodici Oscar a cui il film è candidato). Le pesanti inserzioni onirico-visionarie con cui Iñàrritu riempie quei venti, trenta minuti di troppo di Revenant rappresentano due evidenti impossibilità: l'impossibilità di far confluire nel medesimo spazio forma e contenuto (un giochetto che sia in Birdman, che, soprattutto, in Babel, era riuscito in maniera superba) e l'impossibilità di far somigliare il proprio inferno- perchè questo film, in produzione dal 2001, è stato il girone infernale di diversa gente -a un film di Malick, i cui direttori della fotografia (Emmanuel Lubezki) e scenografi (Jack Fisk) Revenant prende in prestito.
L'immensa fortuna del regista messicano risiede non tanto nell'aver portato a termine al meglio un progetto difficile, funestato da mille problemi (non ultimo quello di girare per poche ore al giorno su set canadesi e argentini dove si arrivava anche a -40°) e segnato da un budget che è esponenzialmente aumentato dai 60 milioni di dollari ai 135 finali (fa piacere apprendere che simili cifre non vengano spese solo per coglionate in costume da super-eroi), ma nell'avere dalla propria parte una completa e impeccabile padronanza del mezzo e delle forme cinematografiche. Iñàrritu non è uno sprovveduto: sa che nel cinema l'immagine viene prima di tutto e dunque l'immagine, in Revenant, riesce ad avere la meglio su tutto. Anche su una coppia di attori (Di Caprio e Tom Hardy) straordinaria e ben scritta e su una colonna sonora sottile ma ricercatissima.
Alla fine di tutti gli strazi, le rigenerazioni, le torture, le carni dilaniate, i testicoli mozzati, i cavalli sparati e sventrati, i martiri, i tradimenti e i deliri, quel che resta di Revenant sono:
- il primo quarto d'ora, dove neanche mezza inquadratura va sprecata.
- gli ambienti e le ricostruzioni di Fisk, che qua lavora anche meglio che in The New World (il film di Malick che comunque continuo ad amare di meno).
- un combattimento uomo-orso di inaudita ferocia che nessuno riuscirà mai più a girare.
- la luce naturale dei set (e con essa i cieli stellati del grande Nord, le aurore, i fuochi, i rumori).
- l'uso che fa Lubezki della camera digitale Alexa 65 mm fatta costruire dalla Arri appositamente per questo film, pensata per un ricorso incessante alle inquadrature dal basso e ai campi larghi e autentica sorgente delle meraviglie di questo film (io l'Oscar lo darei a lei).

sabato 9 gennaio 2016

David Bowie, "Blackstar" [Suggestioni uditive]

David Bowie,
Blackstar
(Columbia Records, 2015)













Mi auguro di cuore che coloro che avevano diffidato della genuinità del ritorno in studio di David Bowie (un ritorno sancito, nel 2013, dall'ottimo doppio The Next Day) di fronte a Blackstar tacciano per sempre.
Questo disco, uscito il giorno del 69esimo compleanno del Duca Bianco, apre in grande stile il 2016 musicale di (credo) chiunque. Anche di chi, come il sottoscritto, apprezza ma non ama in toto Bowie. Ho amici che hanno e sanno tutto di lui. Uno di loro ha anche pubblicato un fumetto su Bowie dal titolo L'uomo delle stelle, uscito nel 2014 per i tipi di NPE.
Apprezzo moltissimo tante canzoni sparse di Bowie, ma ho sempre fatto fatica ad avere un suo album preferito. Alla fine, anche di The Next Day ho maggiormente gradito alcuni splendidi singoli che non l'opera nella sua interezza. Ma devo dire che le sette canzoni che compongono quella perla di modern jazz che è Blackstar mi piacciono proprio tutte. Lazarus, Blackstar, Dollar Days e Tis A Pity She Was A Whore sono brani lunghi, elaboratissimi, complessi ma orecchiabili. E' possibile? Evidentemente.
Il lavoro di Tony Visconti in console è grandioso: si sperimenta, si osa, si collaudano nuove tecniche di registrazione (all'ADT, acronimo di Automatic Double Tracking, va il merito di esaltare in maniera così limpida la voce di Bowie). E che fior di musicisti! Donny McCaslin al sax (lo strumento chiave di Blackstar) capitana una band di fenomeni più o meno noti, fra i quali noto con piacere quello di Tim Lefebvre, basso della Tedeschi Trucks Band (di cui è in arrivo il quarto album). Fa capolino anche James Murphy, ex-LCD Soundsystem, in un paio di pezzi, ma mai per rubare la scena al Duca. E non che ce ne sia bisogno. Perchè David Bowie, 69 anni compiuti l'8 gennaio, ha creato qualcosa di pressochè inedito, consegnando alle stampe un album che non solo è bellissimo, ma è unico perfino per una discografia variegata come la sua. Ascoltare per credere. 

La grande scommessa [Recensione]

Non deve essere semplice raccontare al cinema, per l'ennesima volta, il trauma che ossessiona di più gli Stati Uniti (e in generale l'Occidente) negli ultimi anni: il crollo del sistema economico (o "il default, o la crisi del capitalismo, o come vi pare). Ancor più dura deve essere riuscirci utilizzando i toni della commedia, magari quella un po' assurda e cara ad un autore come Adam McKay che per anni ne ha scritte e girate di ottime (i due Anchorman, Rick Bobby e lo sbellicante I poliziotti di riserva) e che proprio di banche, soldi e imbrogli ha voluto parlare nel nuovo La grande scommessa.
E' un film strano La grande scommessa, di quelli che fanno ridere e riflettere allo stesso tempo (una materia a cui ormai siamo tendenzialmente poco abituati). Ad esempio, per il primo quarto d'ora mi è rimasto sulle palle. Quel modo di girare veloce, con l'odioso narratore (Ryan Gosling) che emula il Jordan Belfort/Di Caprio e il regista che si appropria di uno stile e un linguaggio che davvero non è il suo mi ha dato noia. Poi compare Christian Bale nei panni di un neurologo sociopatico con l'occhio di vetro, un gran fiuto negli affari e Blood And Thunder dei Mastodon sparata nelle cuffiette e subito arriva il primo Personaggio, la prima idea degna McKay. Egli è Michael Burry, l'uomo che già nel 2005 aveva fatto (bene) i conti e aveva scommesso più di un miliardo di dollari contro il sistema economico americano. Ma non è finita, perchè di lì a poco compare pure quel camaleonte umano di Steve Carell nei panni di Mark Baum, ebreo devoto al dio denaro e al Capitale piuttosto che alla Torah,  tanto furbo nel proprio mestiere quanto mediocre come marito (grande Marisa Tomei, confinata nell'angolo della moglie insofferente). Il film subisce poi più di un arresto brusco, specie quando tenta di approfondire la materia economica di cui si burla: sigle, numeri, percentuali, swamp, subprime, tutte queste formule con cui una discreta fetta di mondo civilizzato è stata e viene sonoramente presa per il culo. Geniale e apprezzabilissima l'idea di farle spiegare, inizialmente, dalla Margot Robbie nuda dentro una vasca da bagno e intenta a bere Dom Perignon, ma quando la scenetta inizia a ripetersi e la splendida Margot viene rimpiazzata da chef, filosofi e perfino pop-star disneyane (Selena Gomez) il meccanismo annoia e rischia di far andare tutto in vacca. D'altro canto, però, arriva quel fenomeno di Brad Pitt (co-produttore della pellicola) che è un vero mago, soprattutto quando si tratta di interpretare se stesso (anche in 12 anni schiavo interpretava se stesso a metà Ottocento) e di piazzare il miglior personaggio del film dopo quello di Bale: un ex-banchiere che ha lasciato Wall Street per il Colorado, coltiva verdure insieme alla moglie, giudica i sementi più importanti dei bond e rincorre il sogno americano al contrario, "senza applausi o fischi".
Ci sono parti spassose (lo spezzone del team di Baum in Florida) e altre davvero mal congegnate (la fase della convention di Las Vegas), fattori che fanno di La grande scommessa un film che rischia di passare dal geniale al superfluo in due inquadrature. Criticabile, troppo lungo (130' di cui 20 tagliabili) e con attori da strangolare (lo stesso Ryan Gosling torna alla recitazione dopo anni in un ruolo scopiazzato e assai poco adatto alle sue corde). Eppure, se ci si limita a penderlo come una grandiosa farsa su una società autologorata che vanta almeno due personaggi da Oscar, una colonna sonora assemblata come poche altre in circolazione (è stato bello risentire Money Maker di Ludacris e Pharrell Williams o Crazy degli Gnars Barkley, o i Gorillaz di Feel Good, inc., per non parlare dei Metallica di Eye Of The Beholder, senza contare il fatto che qua dentro trovano spazio anche Sweet Child O'Mine dei Guns N'Roses , By Demons Be Driven dei Pantera, Rockin'In The Free World di Neil Young e, dulcis in fundo, quel granitico capolavoro che è When The Leeve Breaks dei Led Zeppelin) e uno script equamente diviso fra grasse risate e nozionismo, beh, se ne può ragionare.