mercoledì 29 giugno 2016

Tutti vogliono qualcosa [Recensione]

E' un vero peccato che il primo, bellissimo film di Richard Linklater-quel Dazed and Confused (Led Zeppelin?) che in Italia divenne La vita è un sogno (Calderòn de la Barca?) -, sia l'ennesimo cult introvabile, fuori catalogo da tempo e mai comparso in Blu-Ray. E' un peccato perchè già al suo interno trova spazio tutto il mondo di Linklater, le sue idee, le sue forme, i suoi colori, le sue canzoni. Tutto è ritornato in questi ventitrè anni. Con Boyhood poi ha fatto punto e a capo. Non si può andare oltre Boyhood, si può solo ripartire. Da dove? Ovviamente, dalla giovinezza. Ma anche dal college-movie, dall'ingresso nella vita adulta e da Eberybody Wants Some! dei Van Halen, la canzonetta che dà il titolo a questo "sequel spirituale" (che stronzata, questa storia dei "sequel spirituali") di Dazed and Confused.
L'azione è leggermente spostata in avanti: siamo in Texas, agli albori degli anni Ottanta, in quella fase post-Watergate in cui "tutto deve cambiare ma poi si vota Reagan" (chissà se avremo mai un film sull'Italia in cui "tutto deve cambiare ma poi si esce e si va al mare"). Un gruppo di matricole universitarie composto perlopiù da giocatori di baseball si muove nel campus pensando a godersi ogni attimo dell'esistenza. Si corteggiano ragazze, si beve smodatamente, si fuma tanta erba da divenire prati. Jake (Blake Jenner) è il classico ultimo arrivato, ma non manca di entrare in sintonia con gli altri compagni, nè di innamorarsi perdutamente di Beverly (Zoey Dutch). Grandi attori, sconosciuti in ruoli scritti benissimo: una fortuna capitata, nel 1993, ai vari Matthew McConaughey, Milla Jovovich, Ben Affleck, tutti volti nuovi, tutte stars di domani nel fiore degli anni accorse alla corte rurale di Richard Linklater. 
Tutti vogliono qualcosa è un film bellissimo, uno dei migliori visti finora nel 2016.Quasi tutti i film di Linklater sono belli o bellissimi, ma Tutti vogliono qualcosa sta, a ragione, fra i secondi. Non è per tutti. Non è un film per quelli che dicono che al cinema bisogna andarci tutto l'anno ma che già a fine maggio, dopo Warcraft, non c'è più niente da vedere, nè per coloro secondo cui la storia del cinema inizia a metà anni Novanta, nè per quelli che sono andati a vedere solo Lo chiamavano Jeeg Robot e non Veloce come il vento (o Non essere cattivo), nè per chi continua a sostenere che, se anche il cinema americano è morto, la vita te la salvano comunque le serie tv. 
A Boyhood non avevo pianto. La vita è un sogno mi commosse, pur visto nel portatile in streaming. Tutti vogliono qualcosa è smaccatamente più comico di entrambi, ma ha una potenza talmente poetica che le lacrime te le strappa a forza. E poi questo flusso ininterrotto di, fra gli altri, Patti Smith, Dire Straits, ZZ Top, Foreigner, Pete Townshend, Queen, Pink Floyd, Blondie, Frank Zappa, Joe Walsh, Cheap Trick. Ripeto: fra gli altri.

lunedì 20 giugno 2016

I 40 anni di "Desire" [Extra]


"La vita è l'anagramma dei nostri desideri"
                                                            Jean Paul

"- ... Ma allora è in classe con te questa ragazza?
- Sì. Si chiama Desiré.
- Ah, come il disco di Bob Dylan."
              (stralcio di conversazione fra me e un musicista; da qualche parte lungo l'Autostrada del Sole, 24 maggio 2004)

In effetti, c'era una Desiré in classe con me al Liceo. Facemmo insieme solo la quarta ginnasio, poi lei bocciò e forse cambiò pure scuola. Non la vedo da anni e di lei ricordo molto poco, a parte che aveva uno spiccato accento sardo e le piacevano i fumetti di Tex (entrambi due grandi pregi, per quel che mi riguarda). Tuttavia, sono sicuro che, appena rientrato da un viaggio di famiglia in Svezia (un viaggio volto essenzialmente ad accompagnare mia sorella e i suoi colleghi violoncellisti all'ottavo European Youth Music Festival) e dopo aver tenuto la conversazione riportata all'inizio, le domandai se era cosciente di chiamarsi come un disco di Bob Dylan. Mi guardò meravigliata e rispose di no. Non sembrava importarle molto.
Purtroppo, sia io che il mio interlocutore- un ragazzone di poco più grande di me che si divideva fra le orchestre classiche giovanili e la militanza in un paio di rock band delle mie zone -eravamo caduti in un madornale errore linguistico, lo stesso perpetrato, quasi trent'anni prima e su scala ben più grande, dalla generazione dei nostri padri. Desire non era, di fatti, la versione anglofona e privata dell'accento di un nome proprio dietro cui si celava qualche fascinosa amante di mr. Dylan (per quanto molte canzoni del disco siano ardentemente erotiche), ma il semplice (si fa per dire) sostantivo che sta a significare "Desiderio".
La donna  che sedeva dietro lo sgabello del negozio di dischi a cui ero solito devolvere il mio obolo settimanale doveva conoscere bene questa incongruenza. Magari lei stessa, adolescente ai tempi dell'uscita dell'album, era caduta nel medesimo errore. Mostrò grande comprensione quando le domandai se avevano "Desiré". <<Sì... tu vuoi dire Desire. Ce lo abbiamo. Vado a prendertelo>>. La Columbia aveva ristampato da un anno su compact l'intero catalogo di Dylan, rendendo inoltre alcuni album disponibili anche in un formato nuovo, misterioso e accessibile solo ai giapponesi o agli ascoltatori più abbienti, il SACD. La ristampa europea precedente risaliva al 1986 e quei vecchi cd, oltre a non aver goduto di alcuna miglioria tecnica a livello di suono e di mastering, erano ormai introvabili. A questa prima serie apparteneva anche il Greatest Hits che mi avevano regalato per il mio quattordicesimo compleanno: in realtà trovava già posto nella discoteca di casa come LP, ma  non avevo avuto il cuore di rimandare indietro il dono e mi ero tenuto volentieri quel doppione.
Conoscevo bene la copertina. Bellissima. Una delle copertine più belle di tutta la carriera di Dylan. Neanche negli anni di Nashville o di Woodstock il cantante aveva osato agghindarsi così sfacciatamente country&western come per le foto di Desire. I colori erano quelli dell'estate indiana. Il soprabito, pesantemente scurito dall'esposizione della macchina fotografica di Ruth Bernal, richiamava le coperte dei nativi americani e il tutto appariva bizzarro, perchè Desire- sebbene io non lo sapessi -era uno dei dischi meno rurali (almeno a livello di composizione e registrazione) e pure meno autunnali dell'intero corpus dylaniano. Come avrei avuto modo di leggere parecchi anni dopo nella pregevole traduzione italiana di On The Road With Bob Dylan (Minimum Fax, 2014) di Larry Sloman, Bob Dylan se ne era tornato a New York nel giugno del 1975, un po' per gettarsi alle spalle il divorzio da Sara, un po' per rivedere gli amici, i locali e gli ambienti in cui aveva iniziato la propria carriera, tredici anni prima. Complice il buon successo di critica e vendite di Blood On The Tracks- un successo di fronte a cui lo stesso cantante si meravigliò asserendo <<Ma davvero alla gente piace sentire questa cosa? Davvero interessa quel tipo di dolore?>> -e il prodigioso flusso che l'ispirazione di Dylan stava conoscendo, stavolta la Columbia volle fare le cose in grande, impiegando un rinomato produttore (Don De Vito) e fornendo grandi libertà, le tecniche di registrazione più avanzate (il disco sarebbe stato inciso su moderne apparecchiature quadrofoniche brevettate dalla Dolby) e il supporto di amici e collaboratori di ogni genere.
Il ritorno a New York raggiunse il culmine ad inizio luglio, con Dylan e i suoi accoliti che si muovevano da un locale notturno all'altro, bevendo e passando al setaccio i palchi del Village alla ricerca dei nuovi talenti. Lui sentiva le energie del proprio tempo. Aveva sempre avuto le antenne lunghe per catturarle, decodificarle, anticiparle e si faceva coinvolgere- se non travolgere -dall'energia altrui, di chi intorno a lui parlava, componeva, cantava.
Patti Smith e la sua band lo impressionarono enormemente: iniziò ad agitarsi, comprendendo il potenziale di quello che nel giro di un paio di anni tutti avrebbero chiamato New-Wave e Punk e sostenendo che nel suo prossimo tour avrebbe desiderato tanto un complesso di quel genere. In realtà, la Rolling Thunder Revue sarebbe stata molto diversa e Dylan avrebbe suonato spudoratamente punk una sola volta, nel 1984, ospite presso gli studi televisivi dove veniva registrato il David Letterman Show e dove era stato chiamato, assieme ai Plugz, a fornire un assaggio del bellissimo Infidels. Ma al di là di questa epifania, la New York del 1975 era davvero diversa da quella in cui un giovane folksinger di Duluth aveva mosso i suoi primi passi. Non c'erano più lui e la Baez ad esibirsi al Cafè Wha?, nè il giovane e sconosciuto Jimi Hendrix da Seattle, nè i readings dei poeti beat agli angoli delle strade. Certo, Allen Ginsberg era sempre vivo e vegeto, e come lui il vecchio William S. Borroughs. Tim Hardin si muoveva nei vicoli senza farsi riconoscere, intento a svendere il proprio talento per un buco facile e a buon mercato. Phil Ochs, uno dei mastri cantori della protesta, si appoggiava ai banconi prima di tracannare lunghe sorsate dall'ennesima bottiglia di whisky. Ramblin'Jack Elliott e Bob Neuwirth tiravano avanti, stentavano un po' a tenere insieme il loro pubblico di ex-contestatori e non riempivano più la sala del Bitter End (di fresco rinominato The Other End, quasi a voler rappresentare un tipo di fine diverso da quella degli altri colleghi). Tutti costoro e molti altri non avevano retto all'onda d'urto, ma per Dylan era diverso. Doveva essere diverso. Lui sapeva già che sarebbe sopravvissuto agli anni Settanta meglio di chiunque altro, amico o nemico, sostenitore o detrattore. L'etichetta discografica, dopo il comprensibile spaesamento di fronte a una delle tante incriminate trilogie della sua carriera (in questo caso, quella composta da Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e in seguito al crollo delle vendite (ma anche in seguito al momentaneo "passaggio" di Dylan alla Asylum di David Geffen e alla West Coast, il cui sound risuonava in ogni passaggio di Planet Waves), si era mostrata fiduciosa e ottimista. In quei giorni lontani, la Columbia stava impiegando mezzi e fiducia anche per un altro astro nascente, un giovanotto del New Jersey braccato e voluto dal patron John Hammond in persona ma il cui successo discografico aveva faticato a decollare. Il giovanotto si chiamava Bruce Springsteen e in quell'agosto sarebbe uscito il suo terzo album, Born To Run. Anche lui, all'epoca residente nella Grande Mela per apportare gli ultimi ritocchi alla sua sofferta creatura, bazzicava il Village e anche lui, come tutti, amava e doveva qualcosa a Bob Dylan. Avrebbe lasciato quella "città di perdenti" in settembre, per andare a vincere via lontano, sulla sua Thunder Road.
Sempre nel suo libro, Sloman riesce a far respirare l'energia, la creatività, la nostalgia e anche una certa dose di "vitellonismo" di quei giorni newyorchesi. Del resto, cosa sembra il capitolo che descrive l'assunzione completamente casuale della violinista Scarlet Rivera se non un atto di cronaca degno di un vero vitellone? La Rivera- lo si può intuire sia ascoltandola in studio che dal vivo -non era poi questa abile maga del violino, ma Dylan la vide lì, una zingara sui marciapiedi di Manhattan in una notte afosa, e non seppe resisterle. Anche in quel caso, il desiderio ebbe la meglio su di lui e anche in quel caso la Columbia accondiscese, mettendo la misconosciuta violinista sotto contratto.
Elliott Murphy, cantante ma pure giornalista e critico musicale, ha sempre descritto Desire come "una novella musicale densa, arrabbiata e senza pietà", un romanzo incrociato fra uno di Steinbeck e uno di Kerouac. In effetti, una buona parte di queste "canzoni in technicolor" vede protagonisti antieroi e ribelli destinati a fare una brutta fine o a rinunciare ad una delle prerogative essenziali della poetica dylaniana: la Libertà. Ci sono il pugile di colore Rubin "Hurricane" Carter ingiustamente carcerato nella relatà e per cui Dylan torna a scrivere, dopo dodici anni, una protest song, il mafioso Joey (più vicino ai romantici gangster di Howard Hawks che non ai padrini coppoliani già in voga nel 1975) che- seppur nella fantasia dell'autore -sta scontando una condanna in un penitenziario, un misterioso ladro di tesori in Isis (forse il brano più importante dell'album), il Ramon che si lascia alle spalle l'America in Romance in Durango (divenuta molto popolare in Italia grazie ad una accorata versione di Fabrizio de Andre' presente nel capolavoro Rimini) e un'intera ciurma di pirati, avventurieri, bari e mercenari radunata in Black Diamond Bay (che di Desire è forse il capitolo meno convincente e perfino il più ambizioso e barocco).
Non tutto, in Desire, è perfetto. Al contrario di Blood On The Tracks, non è mai stato un disco da isola deserta e brani come Mozambique non sono assolutamente all'altezza della migliore vena poetica di Dylan. Joey è interminabile e prolissa, Romance in Durango suona talmente carica di suggestioni musicali da risultare disomogenea, Black Diamond Bay prova a trasporre l'azione cinematografica di un vecchio film di John Huston nella forma-canzone senza riuscirci troppo bene (ce la farà, dieci anni dopo, l'epica Brownsville Girls, inopportunamente "nascosta" in uno dei più brutti album in studio che Dylan abbia mai prodotto). Ma Desire è anche un'opera frutto di un sogno e, nuovamente, di un'illusione: quella della ricostruzione di un matrimonio già celebrato, concluso e cantato. E se Blood On The Tracks è sotto ogni punto di vista il capolavoro della maturità figlio della disillusione e di un amore finito, Desire è un immaturo, momentaneo ritorno ad una speranza di preservazione di quello stesso amore. Questa speranza, nettamente in contrasto col richiamo della strada, divide la psiche e alimenta la creatività di Dylan a tal punto che egli deve chiedere l'aiuto di un'entità esterna (Jacques Levy, co-autore di sette delle nove canzoni dell'album) per padroneggiare e limitare il flusso di visioni, fantasie e suggestioni cui si ritrova sottoposto nell'estate del 1975. Il celebre caos imperante delle prime notti di registrazione nello studio "E" della Columbia a New York rifletteva lucidamente la confusione mentale e sentimentale in cui Dylan si muoveva, scriveva e componeva le sue nuove canzoni, suscitando le ire di Eric Clapton (lasciò dopo due giorni) e di De Vito e disfacendo di continuo la tracklist. Alla fine, Rita May sarebbe divenuta un 45 giri ma non avrebbe visto la luce sull'album, Abandoned Love (proposta dal vivo il 3 luglio nel Village) fu incisa ma non sarebbe uscita prima del 1985, Catfish e Golden Loom avrebbero rappresentato null'altro che due titoli nero su bianco fino alla loro inclusione in The Bootleg Series vol. 1-3 (1991). Per una volta, le outtakes di un album di Dylan erano quasi tutte pienamente rinunciabili e la loro assenza non tolse nè aggiunse nulla al risultato finale (Infidels rappresenterà il ribaltamento assoluto di questa tendenza). Magari Abandoned Love avrebbe funzionato bene come ulteriore testimonianza della fine del matrimonio con Sara, ma rimase indietro rispetto a capolavori come Isis, One More Cup Of Coffee e alla stessa Sara. Nelle prime due, all'interno di storie e cornici diverse, Dylan si dimostra del tutto incapace di staccarsi dall'idea di una Donna divinità sposa (Isis, appunto). Isis presenta un dialogo di impeccabile realismo lirico fra ex-coniugi che si conclude con Lei che domanda a Lui- appena rientrato da un viaggio effettuato in "nessun luogo in particolare" -<<Ora che sei tornato, rimarrai?>> e con Lui che risponde <<Se ancora mi vuoi, sì>>. In One More Cup Of Coffee lo stesso personaggio, il cantante ramingo, dovrebbe ripartire ma non se la sente: indugia, si lascia versare un'altra tazza di caffè e attende un segno del destino. Sapeva meglio di chiunque altro che quell'ideale di amore, storicamente ancorato agli anni Sessanta e ad un determinato stile di vita, era ormai tramontato. Lo avevano già cantato Lou Reed in Berlin e John Lennon in Walls and Bridges e Dylan era arrivato secondo, con una manciata di "canzoni di redenzione" (per dirla con Allen Ginsberg) che mostravano l'artista, il viaggiatore, l'uomo in uno stato di perenne incertezza.
Le ancore della ciurma che nell'estate del 1975 aveva costruito Desire a New York sarebbero salpate di lì a poco e il disco avrebbe fatto la sua uscita nei negozi nel gennaio del 1976. Frattanto, la navigazione di Dylan sarebbe stata ancora a lungo deviata dalle suggestioni dei tempi, degli incontri e delle situazioni. E anche dai suoi amori, alcuni persi (Sara), altri recuperati (Joan Baez), altri soltanto sognati (Ronee Blakely). Il cantante, è risaputo, si innamorava spesso e altrettanto spesso, amaramente, si disinnamorava. Certamente si innamorò della situazione che venne a crearsi, per alcuni mesi, all'interno della squadra del primo turno della Rolling Thunder Revue (30 ottobre-8 dicembre 1975). Questa leggendaria carovana era resa viva da un sacco di artisti, amici e parenti che facevano musica insieme, vivendo insieme come assai raramente era accaduto ad una rockstar. Erano una strana banda, eterogenea, bizzarra, inclassificabile.
In linea di massima, nel tour della Rolling Thunder Revue in molti provarono ad entrare per collaborare, curiosare, scroccare, ma la concorrenza era tanta e nel febbraio del 1976 i problemi economici e burocratici già si erano impadroniti di questo circo musicale, di cui molti appuntamenti furono cancellati e al quale, pian piano, il pubblico cominciò a disinteressarsi. Il 16 maggio, Don De Vito e alcuni tecnici della CBS registrarono l'intero concerto di Fort Worth, Texas, ma solo quattro canzoni furono ritenute soddisfacenti. Il penultimo spettacolo si tenne a Fort Collins in Colorado, il 23 maggio. La Columbia fece le cose in grande: oltre a far incidere nuovamente lo show, vendette i diritti televisivi alla ABC e comprò la copertina del settimanale Tv Guide. Gli ascolti furono deludenti e l'album live tratto da quelle due serate (Hard Rain) avrebbe ricevuto pesanti stroncature e pessime vendite. Sempre nella notte del 23 maggio, dopo il concerto di Fort Collins, Sara disse addio per sempre a Bob Dylan.
Il viaggio cominciato "alle calcagna di Rimbaud"- tanto per citare le splendide note di copertina scritte dallo stesso Dylan "in una vasca da bagno del Maine in condizioni ideali" -e proseguito "scorrendo nel ventre perduto della civiltà stagnante" volgeva al termine. Renaldo e Clara, mirabolante monstrum cinematografico di quasi cinque ore, sarebbe stato il melò di quei mesi vissuti on the road, ma nessuno lo avrebbe amato, guardato, compreso. Forse proprio Sara poteva possedere la giusta chiave di lettura di un'opera che essenzialmente parlava di lei. Ben due anni sarebbero passati prima del ritorno in studio di Dylan, che con poche canzoni e una session-band completamente nuova avrebbe preso parte alla magnifica rivoluzione musicale del 1978. Street Legal- che nello slang americano è una formula utilizzata dai meccanici per indicare quei motori truccati che però sono comunque riusciti a passare la revisione -non sarebbe stato il nuovo capitolo di nessuna saga (una presunta "trilogia degli anni Settanta" non è mai esistita, sia chiaro), ma il crudo diario di un artista divorziato intento a riappropriarsi del soul, del R&B e del funk e smanioso di affacciarsi, ancora, sulla strada. La "revisione" a cui il titolo alludeva era la fine stessa del matrimonio e dell'amore, la cui agonia era stata ampiamente documentata in Blood On The Tracks, Desire, Hard Rain e Renaldo e Clara. I toni narrativi ma perfino musicali del disco erano cinici, rabbiosi e misogini non perchè- come scrisse qualche sedicente fenomeno di Stampa Alternativa nell'Italia degli anni di piombo -Dylan odiasse e schiavizzasse le donne, ma perchè il vero amore si era dimenticato di lui; e questa cocente sconfitta, sublimata in varie forme di lutto distribuite lungo i tre anni che separano Idiot Wind e Where Are You Tonight?, avrebbe portato il poeta ad un nuovo viaggio, un viaggio che lo avrebbe fatto montare su un treno mai preso prima e diretto verso una salvezza tutta cristiana.



sabato 18 giugno 2016

Jerry Garcia, "Garcia Live Volume Six" [Suggestioni uditive]

Jerry Garcia,
Garcia Live Volume Six
(ATO Records, 3 Cd, 2016)














Jerry Garcia e Merl Saunders: due facce di una stessa medaglia. Due mondi musicali, due concezioni del rock, due filosofie diverse che si intrecciano più volte nell'arco di oltre venticinque anni. La chitarra di Garcia fiorisce nella San Francisco psichedelica, quella della Summer of Love, mentre l'organo di Saunders passa da una parrocchia di provincia californiana ai palchi dei teatrini off e viceversa. Dopo alcune collaborazioni in studio e il celebre Live at Keystone uscito per la Fantasy nel 1973, il breve esperimento della Saunders/Garcia Band è solo un modo veloce di sperimentare, ma il gruppo con cui sfogare l'energia sfrenata delle contaminazioni si rivelerà quello dei Legion Of Mary, attivi fra il 1974 e il 1975 e coordinati, appunto, sia dal tastierista di colore che dal chitarrista dei Grateful Dead. Non c'è alcun album in progetto, solo concerti. Ne terranno una sessantina in nove mesi, e alcuni fra questi passeranno alla storia, per poi venire recuperati negli anni Duemila in varie raccolte (la migliore resta il terzo volume della serie Garcia Live, uscito tre anni fa). Insieme, tornano a colpire a fine anni Ottanta, dopo che Garcia si è lasciato alle spalle l'attacco di diabete che lo ha quasi ucciso nell'estate del 1986. Saunders è tornato da un viaggio in Amazzonia e decide di incidere un disco di world music da pubblicare con la propria etichetta, la Summertone Records. Blues From The Rainforest (1990), che vede proprio Jerry Garcia alla chitarra, si rivelerà uno dei suoi più grandi successi.
Garcia muore cinque anni dopo, poco più che cinquantenne, stracarico di vissuto e di vizi, più grande perfino della propria leggenda. Saunders gli sopravvive di parecchio, ma rimane semiparalizzato nel 2002 e muore nel 2008. Negli anni, escono numerosi dischi più o meno ufficiali che indagano sulla collaborazione concertistica fra i due musicisti, ma il sesto volume della Garcia Live, nei negozi in questi giorni e contenente un intero concerto tenuto al Lion's Share di San Anselmo il 5 luglio 1973 fa davvero il punto della situazione. Gli immancabili John Kahn e Bill Vitt alla sezione ritmica aprono la serata lasciando che l'Hammond B3 di Saunders e la Gibson di Garcia entrino adagio per una indimenticabile After Midnight. Dopo più di otto minuti, in una specie di pausa di questa cover dal ritmo infuocato, la chitarra trova tregua, il volume dell'organo si abbassa e la voce di Garcia, timida ma confortante, inizia a cantare <<After Midnight/ We Gonna Let It All Hang Out...>>. La stessa voce che subito dopo, sostenuta dal clavichord di Saunders, si avventura in una tenebrosa Someday Baby di Lightnin'Hopkins. L'autonomia da session musician di Saunders non tarda a coinvolgere il barbuto chitarrista in quelle cascate di note a cui i Grateful Dead avevano ormai ampiamente abituato il pubblico americano dei primi anni Settanta: è proprio l'epico blues psichedelico She's Got Charisma a portare la firma dell'organista, che fa riecheggiare le pareti del Lion's Share degli umori di un Al Kooper fine anni Sessanta (quello del dopo-Dylan, del Fillmore e della collaborazione con Bloomfield e Stills). E' il retroterra ideale per i mostruosi assoli di chitarra di Jerry, che su questa strada conduce il pezzo molto lontano, fino a legarlo a That's Alright, Mama, ancora distante dal fango del Delta ma con le stesse pulsioni che animavano l'originale incisa da Arthur Crudup a Chicago nel 1946. E' noto che Garcia aveva amato e lungamente meditato l'opera dei maestri cantori del Mississippi, ma aveva comunque deciso di non prendere parte personalmente al blues revival messo su da formazioni e artisti a lui contemporanei. Molto di rado- e quasi mai coi Dead -Garcia ha suonato così tanto blues come nei due set di questo 5 luglio 1973.
Concludono il first set The System di Saunders, che suona come una magnifica marcia in una onirica giungla metropolitana, e la cover di The Night They Drove Old Dixie Down della Band. Questo pezzo sarebbe divenuto uno standard per i concerti dei Legion Of Mary, e non solo: in momenti storici e artistici diversi, sarebbe entrato nella scaletta sia della Jerry Garcia Band che degli stessi Grateful Dead. Un omaggio che andrebbe appaiato alla Broken Arrow voluta da Phil Lesh, suonata a partire dal 1991 negli ultimi tour dei Dead e infine confluita in Road Trips Vol. 2. Ulteriori testimonianze dell'ammirazione nutrita verso la Band, il cui stile aveva influenzato pesantemente le registrazioni di Workingman's Dead e American Beauty e di tutta un'intera fase della musica americana.
La seconda parte della serata vede inizialmente Garcia e Saunders fuoriuscire dai rispettivi codici genetici ed esporsi alla riproposizione di vecchie hit Motown (I Second That Emotion, dove si inizia a percepire una misteriosa tromba non accreditata e la cui paternità è rimasta un totale mistero anche per gli archivisti della ATO), di un jazz standard celeberrimo quale My Funny Valentine- che coi suoi quasi venti minuti è il pezzo più lungo dell'album -e di altri successi radiofonici degli anni Cinquanta (Finders Kreepers e Money Honey). C'è posto pure per Like a Road di un outsider come Don Nix, texano, all'epoca accolto sotto l'egida della Stax e poi lentamente dimenticato. Difficile stabilire quali affinità di intenti e prospettive possano legare la sei corde di Jerry Garcia ad una ballad del genere, ma scelte improvvise e immotivate sono sempre state uno degli ingredienti chiave di tutta la sua arte e Like a Road è uno dei vertici di questa serata, un lento soul bianco cantato con quella stessa intensità con cui si sarebbe riappropriato più volte del repertorio di Dylan negli anni a venire. Merl's Tune è un'altra jam costruita attorno a Saunders, un'idea semplice che si prolunga per sedici minuti, con la solita tromba (valida ma non eccezionale) che sovrasta a più riprese la chitarra e rende il tutto un po' effimero. Garcia si riappropria dei propri spazi nella Lion's Share Jam, straordinario ibrido fra il suo figlio prediletto (lo psychedelic rock) e la fusion. Per chiudere, viene scelto un 45 giri targato Tamla e firmato Marvin Gaye: How Sweet It Is (To Be Loved by You). E' un passaggio melodico quello che mettono in scena Garcia e Saunders a fine serata. Il chitarrista canta con una sicurezza che non ha dimostrato nei brani precedenti e i blues scivolano via fra ironia e divertimento. Un finale furbetto e in sordina.

sabato 11 giugno 2016

Maledetta primavera [Suggestioni uditive]

PRIMA CONSIDERAZIONE: 
Io e la classifica FIMI.

Mi è capitato di leggere una classifica FIMI aggiornata al 26 maggio e con enorme sconforto (si fa per dire!) ho realizzato che degli artisti occupanti le prime dieci posizioni ne conoscevo cinque, e solo uno (Zucchero) fra quelli della top five. Va bene sentirsi un po' outsider, ma questo davvero mi pare eccessivo. L'unica musica in cima alla classifica che conosco perchè ho deciso di andarmela a sentire (e dunque non perchè mi sono ritrovato di fronte il canale RTL 102.5 a tutto volume in qualche pizzeria o una radio accesa in macchina o dal parrucchiere) è quella delle Canzoni della cupa di Capossela. Non ho idea di chi sia tale Alessio Bernabei, occupante la decima posizione con un disco dall'originale titolo Noi siamo infinito, nè ho mai sentito parlare di Ariana Grande (new-entry e già al primo posto con l'anglofilo Dangerous Woman) o di Elodie (sarà un uomo, una donna o un gruppo?). Conosco un paio di Annalise, ma credo che nessuna di loro sia quarta nella classifica FIMI con l'album Se avessi un cuore. Meno male che ci pensa J-Ax col suo J-Ax & Friends a darmi fiducia e a ricordarmi che quasi tutti i dischi con la dicitura "& Friends" nel titolo sono orribili. Anche Renato Zero è una certezza: durante la promozione dedicata alla sua ultima fatica, Alt (scesa al nono posto dopo sette settimane di permanenza), si è dilungato sui consueti, banali ricordi di infanzia borghese in una Roma che non esiste più e sul fatto che, in un mondo allo sfascio e in una società lontana da quella dei suoi sogni (che sia una società imperiale?), <<la tv è importante perchè trasmette i valori>>. Comunque, a chi si lamenta del fatto che la musica nostrana trovi difficilmente spazio a livello di vendite fisiche dovremmo far notare che non c'è un artista straniero nelle prime dieci posizioni della classifica FIMI. Il fatto poi che quattro dei dieci titoli presenti siano in lingua inglese è un'altra storia. O magari no.
Dispiace vedersi inabissare l'ultimo, ottimo lavoro di Niccolò Fabi (Una somma di piccole cose) alla ventesima posizione, mentre Astronave Max New Mission del Massimo Pezzali Nazionale merita l'oblio come tutto ciò che quest'uomo ha prodotto. Esordisce bene Clapton: il suo I Still Do sarà un disco di maniera che non si prende alcun rischio, ma partire dodicesimo senza mai essere comparso in un salotto di Maria de Filippi gli fa onore. Anche Dylan si conquista uno spazio difficile e- vista la materia trattata in Fallen Angels e a prescindere che a me questa sua recente "fase" stia piacendo poco -raro: uno spiraglio impossibile fra il già citato Max Pezzali (che in comune con Dylan ha solo la scarsa capacità di manovrare motociclette) e Le cose che non ho di Marco Mengoni. (Dunque, cosa non ha Mengoni? Non ha di essere come quel Bob Dylan che lo ha fatto calare ancora nella classifica FIMI. Ma poi questo Dylan non era morto 35 anni fa? Ne parlo, un po', nella terza considerazione).


SECONDA CONSIDERAZIONE:
Perchè i Radiohead sì e i Grateful Dead no?
Ovvero sull'assenza di recensioni di Day Of The Dead negli appositi canali di riferimento.

Fatta salva una nicchia di giovani intenditori dalle idee molto aperte, il banco della indipendenza non è che regali gioie. Forse non ne ha mai regalate, forse è stata tutta una montatura, solida e resistente almeno fino all'esplosione della crisi, quando questi figli di papà con la puzza sotto il naso e la tessera di SEL nel taschino dovettero disdire l'abbonamento al New Musical Express e gettare la maschera. Ancora oggi, finchè si parla di indie, va tutto bene, ma guai ad argomentare in favore dell'ultimo album di Santana- lavoro nettamente sopra la media del messicano -o dello splendido 2 dei Mudcrutch. Ti guardano, anzi ti squadrano delusi. L'idea poi che la crème del loro genere prediletto si sia recentemente radunata attorno ai The National e abbia tributato il quintuplo omaggio ai Grateful Dead Day Of The Dead è riuscita indigesta a molti e l'assenza di una recensione sui canali del settore (in primis, sulla webzine Indie For Bunnies) ne è la riprova. Tutto questo, francamente, mi sorprende molto. E' normale che Tv Sorrisi e Canzoni- culla storica di una critica anti-intellettuale, pro-talent e pro-canzonetta -non dedichi manco mezza riga a quello che negli USA è stato salutato come un vero e proprio evento culturale; ed è altrettanto normale che io, fra gli interpreti delle cinquantanove canzoni dei Dead selezionate, ne conosca sì e no una dozzina. E il risultato non è tutto bello. E questi dischi invece di cinque potevano essere tre, forse due. Però si parla sempre di un gigantesco atto d'amore in nome dell'arte Musica, attuato per giunta da una sfilza di guru e paraguru dell'indie movement. Dove sono dunque tutti quei falsi miopi che intravedevo fra i banchi e sottobanchi universitari? Day Of The Dead è (sarebbe) principalmente per loro, seriosi come pochi, con una spocchia che nemmeno Karl Lagerfeld. Le comparazioni- materia per cui vanno matti -non sono obbligatorie. La scarsa conoscenza dei Grateful Dead in Italia e in Europa investe, per molteplici motivi, perfino gli appassionati di rock più "semplici" e ruspanti; figuriamoci dunque se è il caso di vergognarsi. O forse chiedere uno sforzo a questi segaioli sempre pronti a sanzionare, nei loro articoli, i generi più popolari è semplicemente troppo?


TERZA CONSIDERAZIONE:
NME giornale di merda!
Ovvero io e la classifica dei 50 migliori album dal vivo stilata dal più autorevole settimanale di musica britannico.

La prima volta che andai nella Terra di Albione, oltre a prendere d'assalto diversi negozi di dischi, spesi parecchie sterline per reperire tutte quelle riviste di musica che il mondo invidiava (e invidia ancora) agli inglesi, e con mio sommo stupore realizzai che spesso si trattava di autentiche ciofeche modaiole contenenti chili di pubblicità come le nostrane Rolling Stone (ma Rolling Stone è ormai un magazine ricolmo di marchette e sputtanamenti a livello internazionale) e XL, articoli semplicistici e recensioni sbrigative. Mi colpì Mojo, che costava un botto di soldi senza poi vantare neanche questo fior fiore di articolisti e servizi, mentre ricordo molto ben fatta Kerrang!; ma la delusione maggiore me la riservò il più autorevole settimanale di musica del Regno Unito, ossia il New Musical Express, un'istituzione seconda solo alla Regina Elisabetta. Per essere sintetici: se Alfonso Signorini dirigesse una rivista di musica, il risultato sarebbe il NME.
Oggi quell'odiosa rivista- a cui tanti, pagando cifre vergognose, si abbonano anche nel nostro paese -mi ritorna sullo stomaco con una abominevole lista dei 50 migliori album dal vivo. Questa, per dirne una vede sul gradino più alto l'Unplugged dei Nirvana. Un capolavoro, per carità, ma davvero possiamo parlarne come di un album da prima posizione? Di solito, l'agognato primo posto va ad opere in grado di riassumere al loro interno e al meglio tutte le caratteristiche della propria specie. E, in questo senso, l'Unplugged dei Nirvana (indubbiamente l'Unplugged più bello di sempre) non mi sembra assolutamente indicato.
Al secondo posto, Live Rust di Neil Young. Bellissimo, ma vogliamo metterlo- anche solo su un piano di importanza storica e culturale -con un Live/Dead o con At Fillmore East? E, soprattutto, può davvero Live Rust starsene davanti a Live At Leeds degli Who, che a sua volta si trova dietro i Radiohead. Vabbè che il NME ha un contratto segreto coi Radiohead secondo cui ,anche quando i Radiohead non lavorano, la rivista deve comunque dedicare articoli di analisi sulle loro opere.
E Jazy-Z in settima posizione? Ma se l'Unplugged di Jay-Z è davvero il settimo dei 50 dischi dal vivo più belli di sempre, io mi sa che ho speso male i soldi e la vita finora.
E Alive! dei Kiss, paradossalmente decimo? La serie Alive! dei Kiss (una serie che in quarant'anni ha partorito anche film, documentari, ecc.) è quanto di più scadente abbia prodotto il glam-rock. Lo sapevano i fans e lo sapevano i critici. Anche per questo tutti salutarono l'Unplugged degli anni Novanta come un mezzo, sorprendente capolavoro: perchè riusciva a restituire al repertorio della band quella dignità che le incisioni di caotiche e coreografiche esibizioni da stadio non erano riusciti a rispettare.
E poi nemmeno un disco delle più grandi live band della storia. Niente Grateful Dead, niente Allman, niente Little Feat. Niente album dal vivo "minori". Che ne so? Live at Palomino di Jerry Lee Lewis, Rock Of Ages della Band, Stop Making Sense dei Talking Head, ecc. Se non è questa l'ignoranza, allora cos'è?
Comunque, ecco i miei:
1- The Who, Live at Leeds (1970)
2- The Allman Brothers Band, At Fillmore East (1971)
3- Bob Seger & The Silver Bullet Band, Live Bullet (1976)
4- Lou Reed, Rock&Roll Animal (1974)
5- Grateful Dead, Live/Dead (1969)
6- Little Feat, Waiting For Columbus (1978)
7- Deep Purple, Made In Japan (1972)
8- Nirvana, Unplugged (1994)
9- Gov't Mule, Live... With A Little Help From Our Friends (1999)
10- Widespread Panic, Light Fuse, Get Away (1998)
11- Townes Van Zandt, Live at the Old Quartier, Houston, Texas (1977)
12- Phish, A Live One (1995)
13- Iron Maiden, Live After Death (1985)
14- Stevie Ray Vaughan, Live at Carnegie Hall (1997)
15- Bob Marley, Babylon By Bus (1978)
16- Eric Clapton, E.C. Was Here (1975)
17- MC5, Kick Out The Jams (1969)
18- The Rolling Stones, Brussels Affair (Live 1973) (2011)
19- Jimmy Page & The Black Crowes, Live at Greek (2000)
20- Bob Dylan, The Bootleg Series Vol.5- The Rolling Thunder Revue (2005)
21- Joni Mitchell, Shadows And Light (1980)
22- David Johansen,  Live It Up (1982)
23- Neil Young, Live Rust (1979)
24- Willie Nile, Live from the Streets of NY (2008)
25- Joe Ely, LIVE Chicago 1987 (2009)
26- Francesco Guccini e i Nomadi, Album concerto (1979)
27- The Marshall Tucker Band, Way Out West! Live In San Francisco 1973 (2010)
28- Pearl Jam, Live at the Gorge 05/06 (2006)
29- Dream Theater, Live at Budokan (2004)
30- Lynyrd Skynyrd, One From The Road (1976)
31- Wilco, Kicking Television: Live In Chicago (2005)
32- Guns N'Roses, Live Era 87-93 (1999)
33- Lucinda Williams, Live @ The Fillmore (2005)
34- Rod Stewart, Unplugged... and Seated (1993)
35- Jimi Hendrix, Live at Winterland (1987)
36- Joe Cocker, Mad Dogs & Enghlishmen (1970)
37- Led Zeppelin, The Song Remains The Same (1976)
38- Southside Johnny, Reach Up and The Touch The Sky (1981)
39- Leonard Cohen, Live In Dublin (2014)
40- Kiss, Unplugged (1996)
41- Van Morrison, It's Too Late To Stop Now (1974)
42- The Doors, Absolutely Live (1970)
43- Peter Green, Soho Session (1999)
44- The Runaways, Live in Japan (1977)
45- The Band, The Last Waltz (1978)
46- Eric Clapton & Steve Winewood, Live from Madison Square Garden (2009)
47- Muddy Waters, Muddy "Mississippi" Waters Live (1979)
48- Cheap Trick, At Budokan (1979)
49- Ten Years After, Undead (1968)
50- Chuck Berry, Hail! Hail! Rock'n'Roll (1987)


QUARTA CONSIDERAZIONE:
Manuel Agnelli.

Manuel Agnelli mi ha sempre fatto ridere. 
Essendo nato nel 1989, mi sono evitato tutta la fase Hai paura del buio? e quando ho iniziato ad ascoltare musica, da adolescente, la rivoluzione mancata degli Afterhours era già stata ampiamente dimenticata. Tentarono un colpo di coda attorno al 2008, fomentati e foraggiati dal gruppo editoriale L'Espresso, che spese i suoi migliori articolisti per salutare- su tre diverse testate -I milanesi ammazzano il sabato come un capolavoro che avrebbe sancito per sempre la scissione fra musica indipendente e musica non-indipendente. Conservo ancora quel numero e del panorama pronosticato da Agnelli nulla si è avverato.
Così, dopo Padania (2012), Manuel "Morticio" Agnelli avrà pensato bene di ritirarsi a vita privata per un po' e tornare ora, strombazzando la notizia della sua partecipazione come giudice a X-Factor.
Ho letto la sua intervista a La Stampa un paio di giorni fa (<<Cambio vita. Ora voglio essere felice>>) ed esplodo in una risata fragorosissima. Su un commento online all'articolo leggo di una teoria secondo la quale Agnelli, in collaborazione con il patron della Mescal, ha costruito la sua carriera comprando copertine sul Mucchio. Esco. Vado all'edicola e chi ti trovo sulla copertina del Mucchio di giugno? Manuel Agnelli. Esplodo di nuovo.
Anche in radio parlano della sua partecipazione a X-Factor. <<Sarà il nuovo Morgan e tenterà di puntare tutto sulla qualità?>>. Ma speriamo di no, penso. Vista la finuccia che Morgan, volente o meno, ha fatto sul piano televisivo, io non ambirei mai a raccoglierne l'eredità ideologica.
Dopo un paio di patetiche telefonate, passano vecchie canzoni degli Afterhours. Tre o quattro mi piacciono pure, però... E pensare che un paio di anni fa ci siam dovuti sorbire i festeggiamenti del ventennale di Hai paura del buio?, con l'album intero rifatto dai colleghi e messo in vendita a più di quindici euro. Nemmeno fosse Blonde On Blonde, cazzo!
Fioccano altre domande, del tipo <<Ma come ci starà l'Agnelli uomo in un talent-show?>>. Secondo me, benissimo. Il talento è quello di uno emerso da un reality (a proposito, io dico che all'Isola stanno già a sfregarsi le mani), uno che somiglia al cocchiere di Dracula e che per presunzione è secondo solo al nostro Presidente del Consiglio e va in pari con Vasco (Brondi). Dice che il cantautorato ha fatto danni irreparabili alla musica italiana. Se i danni si chiamano Fabrizio de Andre', Sergio Endrigo, Piero Ciampi, Francesco De Gregori (e il di lui fratello Luigi Grechi), Claudio Lolli, Enzo Jannacci, Mimmo Locasciulli, Francesco Guccini, Paolo Conte (e il di luo fratello Giorgio), Luigi Tenco, Vasco Rossi, Gianfranco Manfredi, Domenico Modugno, Lucio Dalla, Gino Paoli, Rino Gaetano, Franco Battiato, Ivano Fossati, Bruno Lauzi, Lucio Battisti, Eugenio Finardi o Giorgio Gaber, ben vengano i danni.
Perciò, solo un popolo con la cultura musicale da quinto mondo (il terzo di mondi ha una cultura musicale ividiabile) può perseverare nel chiedersi se Manuel Agnelli "grande artista depressoide e nemico del potere" si troverà bene nella giuria di X-Factor. In fondo, X-Factor lo hanno inventato proprio per quelli come lui.