giovedì 7 luglio 2016

I Guns N'Roses a Cincinnati il 6 luglio [Extra]


C'è un bellissimo pezzo della Band che, oltre a dare il titolo al loro terzo LP (si chiama Stage Fright, "paura del palcoscenico"), descrive perfettamente il travaglio di quegli artisti che soffrono di una personalità fragile, contradditoria, talvolta depressa. Possiamo sapere il giusto di cosa significhi essere un performer che sera dopo sera si esibisce di fronte a folle oceaniche, e ancora meno conosciamo le sensazioni scaturite, in certi musicisti, mentre il loro pubblico chiede tutto e, soprattutto, si aspetta di tutto. Stage Fright- che alcuni sostengono fosse dedicata a Bob Dylan -è del 1970, quando certi numeri, certi eventi, certi concerti non erano ancora all'ordine del giorno. Tuttavia, Danko, Robertson e gli altri avevano già realizzato che il rapporto fra il singolo artista e una platea non dovesse essere immediatamente idilliaco e che la "sindrome da palco" si sarebbe rivelato, nel tempo, un mostro potente in grado di distruggere vite e carriere di molti loro colleghi, altrettanto dotati e altrettanto giovani, immaturi e impreparati ad affrontare anche quell'aspetto della celebrità.
Il giovane Steven "Pop-Corn" Adler aveva paura del palcoscenico, un terrore da matti che sin dalla tenera età di vent'anni era sfociato in varie forme di stress, a sua volta mitigato dal consumo di ogni genere di sostanza stupefacente. Steve era un batterista autodidatta e festaiolo, ammirava Keith Moon e John Bonham e amava girare in skate board per i sobborghi popolari in cui era cresciuto, ma di fondo era timido. Era amico di Slash, andavano a scuola insieme, e la sua sostituzione nei confronti di Rob Gardner in quella che era la primissima formazione dei Guns N'Roses fu praticamente automatica. A ventuno anni era uno dei batteristi più ricchi al mondo e l'accesso a massicce quantità di eroina gli garantì una dipendenza che, nel ventennio successivo, lo avrebbe portato a due ictus, una paralisi facciale e a un tragico declino artistico.
Tutti gli appassionati dei Guns conoscono la leggenda delle oltre sessanta takes che Mike Clink registrò prima di avere un risultato soddisfacente sulla batteria di Civil War. Adler sveniva sui tamburi, sveniva in macchina, sveniva sul palco. L'ultimo concerto in cui suonò fu il Live AID del 1990, mentre Civil War sarebbe uscita a Natale, quando lui non era già più il batterista dei Guns N'Roses. Una delle tante cause legali che hanno funestato la storia del gruppo riguardava proprio le royalties che spettavano ad Adler e lui la vinse, prese i soldi e corse a comprare altra eroina. Litigò con chiunque, soprattutto con Slash, il suo più vecchio e caro amico. Sono tutti episodi che si conoscono, bene o male, e che sono approfonditi nella sua autobiografia My Appetite For Destruction (Chinaski Editore, 2010), in cui si racconta pure di una sua recente (relativa) guarigione dalla tossicodipendenza, del riavvicinamento agli altri Guns in occasione dell'inclusione della Rock&Roll Hall of Fame.
Steven Adler ha pubblicato pochissimo da solista e fino agli anni Duemila neanche aveva mai pensato di produrre musica propria, in parte perchè nessun produttore o casa discografica si sarebbero arrischiati a metterlo sotto contratto, in parte perchè non ne sarebbe stato fisicamente in grado. Poi con l'EP autoprodotto Adler's Appetite (2005) presentò a sorpresa, al mondo, dei pezzi inediti. Sei canzoni, di cui due covers (Thin Lizzy, Aerosmith), che svelarono al mondo una nuova band nata da ciò che un tempo fu un pezzo dei Guns. Impiegò altri cinque anni prima di rifare capolino col successivo EP, Alive, e ben sette per preparare un album completo, Back from the Dead, firmato Adler e circolato poco e male.
Se vi state chiedendo perchè sto spendendo tante parole sul primo batterista dei Guns, la risposta la trovate qua sotto:
Il biondone dietro la signora McKagan altri non è che Steve Adler, riemerso dal limbo e di nuovo dietro alla batteria abbandonata ventisei anni fa. L'occasione è stata fornita dalla data dei Guns N'Roses al Paul Brown Stadium di Cincinnati, Ohio, che di Steven è la città natale. Un gesto carico di significato, specie se si pensa alle condizioni in cui il batterista è vissuto per tutto questo tempo.
Nessuno se lo aspettava, perchè Adler non è famoso, nè è mai stato oggetto di eccessivi rimpianti. Matt Sorum si rivelò un eccellente rimpiazzo: anzi, a detta di Axl, fu quanto la band necessitava maggiormente per risolvere le complessità compositive degli Illusion e per tenere botta durante il massacrante tour che seguì. Josh Freese e Bryan Mantia offrirono un'ulteriore raffinatura nel drumming della band, mentre Frank Ferrer tentò di riportare tutto ad una condizione più terrena, senza però possedere quell'impostazione primordiale, "da strada" tipica dello stile di Steve. E infatti i brani che i Guns hanno deciso di riprendere in mano con Adler sono tutta roba dell'era di Appetite: Out Ta Get Me e My Michelle, grezze e tirate come non mai, hanno rappresentato l'apice del concerto di Cincinnati, concerto che  è stato introdotto da un'oscena manifestazione di fondamentalisti cerebrolesi e che ha meritato addirittura una apposita t-shirt.
Il concerto di Cincinnati conferma ancora di più una teoria che già da un paio di mesi circola sui forum e fra gli appassionati, ovvero che non sarebbe male far uscire il meglio di questo Not In This Lifetime... Tour a livello discografico. Un doppio, triplo album contenente i best di più serate, magari puntando sugli interventi di esterni quali Sebastian Bach, Angus Young e dello stesso Adler. Sul palco, sempre il 6 luglio, un affiatamento mai visto prima. Melissa scatenata, voce di Axl senza cadute, chitarre perfette, un pianoforte, quello di Dizzy Reed, che è il cuore pulsante e il sostegno di ogni esibizione. I Guns continuano a portare sul palco la brutalità, il ritmo e perfino la gioia dell'hard rock sommandole alla sofisticatezza di una band dai mille volti e dalle mille identità. Ora più che mai sembra concretizzato il vecchio sogno di Axl, quello di una big orchestra elettrica e "condensata" e con una grande voce davanti a tutto, sullo stile di quanto offriva uno dei suoi molti idoli, Frank Sinatra. Il suono di queste tre ore scarse di musica è davvero big, coinvolgente, entusiasmante. E tutto viene accresciuto con l'arrivo di Adler.
Nel sedersi sullo sgabello, Steven è evidentemente attraversato da qualcosa di più grande di lui . E' quel momento in cui ogni forma di depressione, rancore, negatività cade e l'artista sul palco si libera. La gabbia in cui è stato rinchiuso cade a pezzi e la magia ha inizio. Nessuna traccia dell'Adler di inizio anni Novanta, nè di quello strafatto o di quello ospite di squallidi programmi televisivi dove si aiutano tossici famosi e profumatamente pagati per prendere parte a queste pagliacciate. Perchè la buona musica è pure in grado di guarire e questa guarigione avviene in modi oscuri ed inspiegabili. L'importante è che avvenga.



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