mercoledì 27 luglio 2016

Steven Tyler, "We're All Somebody from Somewhere" [Suggestioni uditive]

Steven Tyler,
We're All Somebody From Somewhere
(BMG Records, 2016)














Negli anni selvaggi, ho amato Steven Tyler (e gli Aerosmith, si capisce) senza riserve e con totale entusiasmo. Non solo la sua musica e le sue canzoni (di cui continuo a ricordare molti testi a memoria), ma proprio lui, il frontman, l'ex-toxic twin che aveva attraversato miti e tendenze di quel bell'hard rock radiofonico di ineguagliata bellezza fiorito negli anni Settanta e poi sviluppatosi per almeno altri tre lustri. La vastità della sua bocca sembrava direttamente proporzionale alla sua estensione vocale, mentre in concerto dominava il palco come un cigno regna, incontrastato, su un lago. E poi quasi tutte le ballate degli Aerosmith mettevano a nudo così tanto di noi adolescenti innamorati, delusi e incazzati che la voce di Tyler finiva con l'essere quella amichevole di un compagno che ci conosceva bene e sapeva cogliere sempre il centro del problema.
Avevo quattordici anni quando una compagna di classe mi prestò Permanent Vacation. Mi innamorai di quel suono, di quella voce, dell'attacco di Heart's Done Time, della storia di Dude, dell'evocativo inno di Angel (chissà se esiste, pensai, qualcuno a cui prima o poi potrà valere la pena di dedicare questa canzone), dell'atmosfera swamp di St. John, della cover della dimenticata I'm Down di Lennon e McCartney. In cinquanta minuti e dodici pezzi gli Aerosmith facevano un uso virtuosistico, disinvolto e sincero delle tecniche più disparate, tagliando in parti uguali blues, hard rock e R&B e miscelando il tutto ad un sound unico e mai udito prima. Tutto il glam metal in voga in quegli anni, seppur contraddistinto da grandi band e ottime canzoni, non era paragonabile a quella musica così sfacciatamente erotica e ballabile. I brani degli Aerosmith che circolavano in quel periodo, invece, erano molto diversi. C'era questo disco rosa, Just Push Play, che sapeva di poco (con buona pace di Jaded e Fly Away From Here), e anche la riappropriazione delle tematiche e delle classiche atmosfere blues di Honkin'On Bobo suonò da subito come poco riuscita. Tuttavia, Tyler continuava a fare grandi concerti con la sua band, ogni tanto si concedeva qualche marchetta (alcune, come la comparsa nella commediola musicale Be Cool, anche apprezzabili) e parlava, via via, del sogno di un disco solista. E nonostante fossi perfettamente in grado di riconoscere i limiti degli Aerosmith e facessi una gran fatica nell'apprezzare dischi davvero ingiovabili (preso per intero, lo stesso Get a Grip è una palla mostruosa), vedevo in Steven Tyler un altro modello di riferimento, un Mick Jagger leggermente più giovane e più in linea con la musica che ascoltavo in quel periodo e coi sentimenti che provavo. 
La sbornia aerosmithiana andò amplificandosi con la scoperta di Pump, il loro capolavoro assoluto, e raggiunse il momento del "coma etilico" nella primavera del 2006, quando sembrò che non mi dovessi più limitare ad ascoltare le canzoni di Tyler e soci, ma che dovessi proprio iniziarle a viverle. Avrei dovuto anche incontrare- per quanto a distanza -gli Aerosmith: sarebbe dovuto accadere all'Heineken Jammin'Festival dell'estate 2007. Avevo i biglietti e una missione da portare a termine, quando quel maledetto uragano si portò via tutto e il concerto fu annullato. 
Non ascolto più gli Aerosmith da allora. Ovviamente, se alla televisione passa un loro video, mi soffermo e non cambio di certo canale, ma non cerco più la loro musica. Uno dei primi dischi che ho recensito quando ho aperto il blog è stato il loro ultimo album, quel Music from Another Dimension che mi ha proprio deluso, anche se a tanti appassionati è piaciuto e il giudizio popolare finale è stato comunque positivo. L'anno passato ho ascoltato, intimorito, un'orrenda canzone del solo Steven Tyler, il quale, evidentemente risoluto nel rincorrere questo folle sogno di una carriera solistica country-pop, ha deciso di scrivere altre canzoni altrettanto orrende e di pubblicarle in un disco che si intitola We're All Somebody from Somewhere. Quindici brani di cui due covers in cui nessuno che conosca veramente gli Aerosmith e la loro musica sarà in grado di ritrovare nulla della magia che contraddistingueva, almeno in passato, questa band e il suo leader. Non è nemmeno musica definibile country, perchè io un po' di country- di quello buono -ne compro e ne sento. Parimenti a quanto accaduto con il tardivo esordio solista di Billy Gibbons, We're All Somebody from Somewhere non solo non conserva niente del sound a cui l'artista ci ha abituati, ma suona proprio sciatto e perfino anonimo (e questo è gravissimo perchè si tratta, paradossalmente, di un album molto curato e studiato in sede di produzione). Ovviamente, nessuno pretende che Steven Tyler sia il nuovo Johnny Cash o un concorrente più giovane di quel meraviglioso poeta ottantenne che risponde al nome di Kris Kristofferson, ma qua davvero si raggiungono livelli di imbarazzo preoccupanti. Nemmeno i momenti più bui degli Stones solisti (dunque tutto ciò che hanno prodotto sia Mick che Bill) si avvicinano a questa robaccia. Il culmine poi è lo svilimento disinteressato e selvaggio di uno dei capolavori del repertorio Aerosmith: Janie's Got a Gun non si tocca, maledizione! E con questo concludo, perchè la delusione è davvero troppo grande. Sicuramente più grande di me.

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