sabato 22 ottobre 2016

"The Young Pope", 1x01 & 1x02 [Recensione]

The Young Pope è il primo film di dieci ore di Paolo Sorrentino.
Una storia della coscienza, privata e collettiva. Una coscienza riconducibile- stando almeno a quanto mostrato nelle prime due puntate -interamente all'attività del vedere e del non-vedere. Pio XIII (Jude Law), un papa giovane, bello e spregiudicato prega dio ma non lo vede. 
Finora, Sorrentino ha sempre girato o film "di ricerca" o film da "seguire con gli occhi". La grande bellezza resta sicuramente il più contemplativo, Youth è sfociato nel narcisistico, ma The Young Pope rappresenta, ad ora, il perfetto punto di incontro fra queste due tendenze (oltre ad essere infinitamente migliore di Youth). 
L'immagine di Roma "frazione di Città del Vaticano" dà un senso di solitudine e di abbandono, esattamente come quella di un papa solo e orfano. 
Silvio Orlando e Diane Keaton sono scritti benissimo e recitano al meglio (e lei, soprattutto, colpisce, perchè era dai tempi di Misterioso omicidio a Manhattan che non funzionava così bene).
Infine, The Young Pope racconta il primo papa della storia del Cinema, della Tv e del Mondo a farsi influenzare dai Daft Punk.

giovedì 13 ottobre 2016

"...for having created new poetic expressions within the great American song tradition" [Extra]


A fine agosto, come meta finale di un viaggio condiviso con un vecchio amico in cui abbiamo toccato tre stati e tre capitali europei, ho visitato Stoccolma. 
Una città fredda, austera, popolata da un popolo emancipato ma pure incredibilmente rigido, serioso, irremovibile. 
Insomma, approdare in una città come questa per due comprovati mediterranei (con tutti i pregi e i difetti del caso), può rivelarsi un bello sbalzo climatico e sociale. 
Il tempo a disposizione non era molto (tre giorni appena), e dunque c'era da pedalare se volevamo vedere almeno tre quarti della capitale svedese.  
La seconda mattina ci siamo alzati di buon'ora e ci siam diretti a piedi dalla City, nel cuore della quale alloggiavamo, a Gamla Stan. 
Osservato e fotografato l'imprescindibile cambio della guardia di fronte al Palazzo Reale (Kungliga Slottet) e visitata un'armeria piena di strani oggetti e cavalli imbalsamati, abbiamo deciso di spostarci verso la Storkyrkan, ovvero il duomo della città. 
Lungo il tragitto, ci siamo ritrovati a costeggiare il Nobelmuseet, il museo dedicato alla storia e ai vincitori del premio Nobel. 
<<Te ne importa qualcosa di visitare il museo del Nobel o si tira a dritto?>>, mi ha domandato il mio compagno di viaggio proprio mentre ricominciava a piovere (non ha mai veramente smesso durante i nostri tre giorni di permanenza). 
<<No>>, ho risposto. 
E infine ho concluso: <<E poi finchè non danno il premio a Bob Dylan per me possono chiudere!>>.
Ecco. Se non è il karma questo, allora ditemi voi cos'è.

martedì 11 ottobre 2016

Le confessioni di San Boss e i segreti che conoscono tutti [Schegge di lettura]

E' un paio di anni che di Bruce Springsteen si parla e si scrive molto. Forse perchè di Bruce Springsteen, negli ultimi due anni, si è pubblicato, a livello discografico, molto. 
Magari troppo, e non occorre andare lontano nel tempo per accorgersene. Solo partendo dal dopo-High Hopes, a primavera 2014 un orrendo 45 giri dall'abusato titolo American Beauty ha fatto capolino nei negozi per il Record Store Day, mentre, a fine di quello stesso anno, è comparso un inutile e dispendioso cofanetto dei suoi album in studio che vanno dal 1973 al 1984 (ergo i capolavori quelli veri, ma tutta roba che gli intenditori posseggono e amano già, oltre a conoscerla a memoria). 
Poi, nel 2015, c'è stata la lodevole operazione di Ties That Bind: The River Collection, il miglior boxset mai uscito dai cantieri del Boss e, con ogni probabilità, una delle più belle retrospettive discografiche mai realizzate. Poco prima, in Italia, andava in stampa per i tipi di Mondadori A proposito di un sogno, ovvero una raccolta delle migliori interviste rivolte a Springsteen e dunque, indirettamente, un'ottima ed esausitva biografia dell'artista. Italiano si è perfino rivelato uno dei più bei saggi scritti sul Boss negli ultimi anni, quel Badlands (Donzelli Editore, 2015) firmato dal grande Alessandro Portelli e ad una cui (tardiva) presentazione ho avuto il piacere di assistere mesi fa. 
A inizio 2016, Mondadori ha rimpinguato ulteriormente i fans: prima, ripubblicando (con dovuto allungamento di brodo), negli Oscar, l'efficace Bruce (2012) di Peter Ames Carlin , poi passando all'atroce fumetto Outlaw Pete, illustrato da Frank Caruso e- pare -scritto direttamente dalla mano del Boss. I concertoni estivi- attorno a cui è andato costruendosi un interessante dibattito critico e popolare -hanno alimentato l'atteggiamento di fanatismo che ruota ormai in larga parte attorno a Springsteen. Risale a poche settimane dopo la notizia dell'imminente uscita della sua tanto attesa autobiografia, addirittura accompagnata da un ridicolo best of su disco unico (Chapter and Verse, ossia altra merce con cui i discografici amano prendere per la gola i ricattabilissimi fans del Boss da un paio di decenni). Libro e disco sembrano un riciclo del riciclo: l'autobiografia si intitola addirittura Born to Run, esattamente come la canzone (evvabbè...), ma pure come il primo saggio che fu scritto sul cantante, nel 1980, da Dave Marsh. 
Una delle prime cose che apprende un appassionato di musica a cui capitano fra le mani le autobiografie di certi cantanti è che la loro abilità di scrivere in versi, spesso, non trova un corrispettivo altrettanto felice nella prosa. Quante orribili autobiografie (spesso e volentieri scritte da ghostwriter e simili) ci siamo sorbiti solo per amore di un determinato artista? Innumerevoli. Di contro, le librerie pullulano di splendidi saggi dedicati da critici e appassionati che, oltre ad essere competenti ed esperti conoscitori della materia trattata, sanno scrivere bene. E anche a Bruce Springsteen, dispiace doverlo ammettere, è toccato il destino dell'artista che si racconta poco e pure male, a dispetto dei 23 euro del prezzo di copertina, della preziosa rilegatura e delle cinquecento pagine del "romanzo della sua vita". Troppi punti esclamativi, troppi "...", troppi capitoli, troppi paragrafi in grassetto. Vale la pena sottolinearlo per chi non la avesse mai letta, ma la più bella autobiografia rock di sempre (Chronicles vol. 1 di Bob Dylan) conta appena 5 capitoli e 250 pagine, eppure ha una ricchezza contenutistica ed espressiva- intendo proprio a livello di opera letteraria-in confronto a cui Born to Run sembra l'Informatore Coop.
Gli aneddoti iniziali della commistione fra italiani e irlandesi sembrano divertenti, ma dopo un centinaio di pagine si realizza che siamo di fronte a un raccontino popolare che annoierebbe perfino i fans più irriducibili de I Soprano. Va bene, ci sono grandi momenti che fanno luce sulle origini musicali del Boss (la prima volta che vede Elvis in televisione, la british invasion, il resoconto di qualche concerto di Janis, Doors, Grateful Dead, l'amore giovanile per Van Morrison e quello, già più maturo, per Hank Williams), ma scarsi approfondimenti su molti dei suoi capolavori. Prendiamo ad esempio Nebraska, uno dei vertici creativi di Springsteen, liquidato con la solita favoletta dell'uomo solitario che in una casa in mezzo al buio invernale registra su un portatile quattro piste giapponese alcune delle più belle canzoni di ogni tempo. Quante volte abbiamo già sentito questa storia? Ci sono critici o anche semplici narratori che hanno dedicato al solo Nebraska saggi e litri di inchiostro. Sean Penn arrivò a dirigere un film (Lupo solitario) tratto esclusivamente da una canzone ivi contenuta (Highway Patrolman) e nel libro, di questo fatto riguardante comunque l'impatto che ebbe quel disco nell'immaginario popolare, neanche si trova traccia. 
Per fortuna c'è qualche bella pagina dedicata a Tunnel of Love (un disco che, per chi scrive, è nettamente superiore a Born in the USA e che sembra essere molto importante anche per il Boss) e altrettante- sempre ottime -vengono spese sulle sofferte origini di The Rising, sull'incontro con Brendan O'Brien e sulla rinascita della E-Street Band. Ma gli anni Novanta, in Born to Run, che fine hanno fatto? E, soprattutto, che fine aveva fatto Springsteen negli anni Novanta? Stando a quanto ci racconta lui, si è fatto casa ad Hollywood, tre figli e ha imparato a cucinare i cupcakes. C'è qualche rigo dedicato a quello strano esperimento di nuova band che avrebbe portato a Human Touch e Lucy Town. Già, anche di Lucky Town (unico album della sua produzione per cui forse sarebbe giusto sfoggiare l'abusato termine "rivalutazione") non viene menzionato manco il titolo. E pensare che uno dei momenti più interessanti delle interviste confluite in A proposito di un sogno era proprio quello (pagg. 172-194) in cui, su Rolling Stone, il Boss analizzava il fiasco di quella doppia uscita. Ma Lucky Town non è l'unico lavoro dimenticato di questa autobiografia: Devils & Dust- primo album di Springsteen che, come ascoltatore e appassionato, ho vissuto "in diretta" -sparisce misteriosamente, per non parlare degli ultimi nove, dieci anni di carriera condensati in tre capitoli da una pagina l'uno. 
Tali dimenticanze lasciano spazio ad interi passaggi insostenibili: penso allo sproloquio su quanto belli, bravi e intelligenti siano venuti su i tre figli del Boss e di Patti, o peggio ancora all'aneddoto in cui, a causa di un terremoto, il cantante si preoccupa per la sua incolumità e per quella della propria famiglia, telefona (fantozzianamente) ad un megadirettore naturale della Sony e, nel giro di pochi minuti, un elicottero accorre a salvare gli Springsteen atterrando sul vialetto del loro villone sulle Hills. Perfino il capitolo "anticipato" da Vanity Fair un paio di settimane fa riguardante la pesante depressione che ha colpito il Boss al giro di boa dei sessant'anni non è che sia tutto questo momento di grande letteratura psicoanalitica. Certo, è sincero e diretto, ma puzza terribilmente di artificioso, perfino di vittimistico in alcuni passaggi. Roba che si addice ai palati cinici di chi ritiene che ogni autobiografia debba per forza somigliare ad una confessione. Non è necessariamente così (era forse una confessione il meraviglioso Just Kids di Patti Smith?), ma oggi il mondo smania per vivere in maniera perversa certe aperture delle celebrità. E Bruce Springsteen, ovviamente, non fa differenza. E lui lo sa, lo sa bene. Lo sa talmente bene che ha impacchettato Born to Run proprio per questo tipo di mondo, così diverso da quello descritto e talvolta auspicato nelle sue canzoni da lasciar presagire che non sempre l'artista si rivela umanamente alla pari di ciò che ha creato.

sabato 1 ottobre 2016

I magnifici 7 [Recensione]

Come sarà il remake di un remake? Una buona domanda da porsi prima di vedere I magnifici 7 di Antoine Fuqua (regista di Training Day, Shooter e- prevalentemente -di sonore strombolate). Una domanda che sorge spontanea in chi ha visto decine di volte l'omonimo cult di John Sturges e l'altrettanto leggendario I sette samurai. Una domanda pregna di curiosità ulteriori: come saranno questi cowboys interpretati da un cast multietnico e variopinto? Come saranno i dialoghi della sceneggiatura co-firmata Nic Pizzolatto (romanziere e già autore, così per dire, di True Detective)? Come sarà questo cattivo politicamente corretto (come piace fare tutte le cose ad Hollywood al giorno d'oggi) e  dunque inevitabilmente bianco, protestante e immerso nel business?
Le risposte non si sprecano. Intanto, vale la pena di specificare che sotto il sole non c'è niente di nuovo: la storia dei sette pistoleri un po' antieroici (ma non troppo, come già scelse Sturges) che si mettono in gioco per salvare una comunità rurale da un tiranno non ha subìto modifiche. Stavolta, nel ruolo di protagonista, c'è Denzel Washington (notevole); a reclutare la squadra troviamo una bella vedovina (Haley Bennett) che, ovviamente, spara meglio di Calamity Jane e non ha bisogno di niente e di nessuno; ad ammiccare al personaggio che fu di Bronson troviamo il messicano Manuel Garcia-Rulfo, mentre quello di Coburn si incarna nella fisicità affusolata di Lee Byung-Hun, un cinese abile con le lame; c'è spazio perfino per un nativo americano, un guerrieri comanche interpretato da Martin Sensmeier. Straordinari davvero Vincent d'Onofrio nei panni del trapper timorato di Dio ed Ethan Hawke in quelli del cajun ex-cecchino sudista che soffre di attacchi di stress post-traumatico e che, nel suo angolino, è il dettaglio più smaccatamente pizzolattiano di tutto il film. 
La regia di Fuqua è classica, impostata, rispettosa della tradizione e attenta a non mancare di rispetto a nessuno. Questo eccesso di buonismo e di eroismo finisce col gravare un po' su certe scene e induce ad una precisa retorica. Si prenda il cattivo proprietario terriero Bogue (Peter Sarsgaard), ad esempio: quanta anonima mediocrità confluisce in un ruolo geniale e leggendario che, nel 1960, spettò ad Eli Wallach? Difficile dire da quanto tempo non usciva al cinema un western così immobilizzato nei dettami del genere. I magnifici sette del 1960 non era un film rivoluzionario, nè rappresentò il miglior risultato artistico di Sturges sul cinema di frontiera (per chi non li avesse mai visti, Sfida nella città morta e Il giorno della vendetta sono i suoi veri due capolavori), eppure è rimasto nella Storia del cinema e ha finito col soffrire, nel corso degli anni, perfino di un eccesso di sopravvalutazione. I magnifici 7 del 2016 non correrà questo rischio, ma verrà sicuramente ricordato per essere stato uno dei primi re-remake di un genere tragicamente fuori moda da trentacinque anni suonati. E tutto questo nonostante un paio di scelte davvero moderne e coraggiose e nonostante una battaglia finale che oscilla fra Leone e Peckinpah, mandando in culo, seppur momentaneamente, una certa smania di imbolsita neoclassicità che tanto aggrada Antoine Fuqua.