sabato 1 ottobre 2016

I magnifici 7 [Recensione]

Come sarà il remake di un remake? Una buona domanda da porsi prima di vedere I magnifici 7 di Antoine Fuqua (regista di Training Day, Shooter e- prevalentemente -di sonore strombolate). Una domanda che sorge spontanea in chi ha visto decine di volte l'omonimo cult di John Sturges e l'altrettanto leggendario I sette samurai. Una domanda pregna di curiosità ulteriori: come saranno questi cowboys interpretati da un cast multietnico e variopinto? Come saranno i dialoghi della sceneggiatura co-firmata Nic Pizzolatto (romanziere e già autore, così per dire, di True Detective)? Come sarà questo cattivo politicamente corretto (come piace fare tutte le cose ad Hollywood al giorno d'oggi) e  dunque inevitabilmente bianco, protestante e immerso nel business?
Le risposte non si sprecano. Intanto, vale la pena di specificare che sotto il sole non c'è niente di nuovo: la storia dei sette pistoleri un po' antieroici (ma non troppo, come già scelse Sturges) che si mettono in gioco per salvare una comunità rurale da un tiranno non ha subìto modifiche. Stavolta, nel ruolo di protagonista, c'è Denzel Washington (notevole); a reclutare la squadra troviamo una bella vedovina (Haley Bennett) che, ovviamente, spara meglio di Calamity Jane e non ha bisogno di niente e di nessuno; ad ammiccare al personaggio che fu di Bronson troviamo il messicano Manuel Garcia-Rulfo, mentre quello di Coburn si incarna nella fisicità affusolata di Lee Byung-Hun, un cinese abile con le lame; c'è spazio perfino per un nativo americano, un guerrieri comanche interpretato da Martin Sensmeier. Straordinari davvero Vincent d'Onofrio nei panni del trapper timorato di Dio ed Ethan Hawke in quelli del cajun ex-cecchino sudista che soffre di attacchi di stress post-traumatico e che, nel suo angolino, è il dettaglio più smaccatamente pizzolattiano di tutto il film. 
La regia di Fuqua è classica, impostata, rispettosa della tradizione e attenta a non mancare di rispetto a nessuno. Questo eccesso di buonismo e di eroismo finisce col gravare un po' su certe scene e induce ad una precisa retorica. Si prenda il cattivo proprietario terriero Bogue (Peter Sarsgaard), ad esempio: quanta anonima mediocrità confluisce in un ruolo geniale e leggendario che, nel 1960, spettò ad Eli Wallach? Difficile dire da quanto tempo non usciva al cinema un western così immobilizzato nei dettami del genere. I magnifici sette del 1960 non era un film rivoluzionario, nè rappresentò il miglior risultato artistico di Sturges sul cinema di frontiera (per chi non li avesse mai visti, Sfida nella città morta e Il giorno della vendetta sono i suoi veri due capolavori), eppure è rimasto nella Storia del cinema e ha finito col soffrire, nel corso degli anni, perfino di un eccesso di sopravvalutazione. I magnifici 7 del 2016 non correrà questo rischio, ma verrà sicuramente ricordato per essere stato uno dei primi re-remake di un genere tragicamente fuori moda da trentacinque anni suonati. E tutto questo nonostante un paio di scelte davvero moderne e coraggiose e nonostante una battaglia finale che oscilla fra Leone e Peckinpah, mandando in culo, seppur momentaneamente, una certa smania di imbolsita neoclassicità che tanto aggrada Antoine Fuqua.

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