domenica 20 novembre 2016

Grateful Dead, "Dave's Picks Vol. 20" [Suggestioni uditive]

Grateful Dead,
Dave's Picks Vol. 20
(Rhino Records, 2016, 3 Cd)













Tirato in 16.000 copie (500 meno del precedente), introvabile nel vecchio mondo ma reperito in rete, questo ventesimo appuntamento con i materiali di archivio curati da David Lemieux l'ho già ascoltato due volte nell'arco delle ultime settimane. Data la proverbiale irreperibilità (anche online) di questa serie e il diffuso disinteresse nei confronti dei Grateful Dead nel nostro paese, non avevo pensato di scrivere su questo triplo cofanetto. Anzi, mi ero al contrario proibito troppe riflessioni, recependo il fortuito ritrovamento di una cartella .FLAC come se fosse un sogno e questa serie di ascolti come un'esperienza profonda, lontanissima dal distacco con cui mi approcciavo, ancora adolescente, alle rarità del gruppo di Jerry Garcia e Bob Weir: all'epoca, del resto, i vasi di Pandora rispondevano ai nomi di Dick's Picks o, per quanto riguardava la musica liquida, di Download Series e si trattava quasi sempre di gigantesche enciclopedie .rar poco accessibili anche per i più valenti scaricatori di eMule. La mia decisione è mutata per due motivi: la prima, è stata la delusione rilasciata da tutto quello che è uscito negli ultimi mesi derivanto dalla galassia dei Dead (dunque, il settimo bootleg di Garcia Live pubblicato da ATO, il famigerato e inutile Blue Mountain di Bob Weir, l'estenuante e largamente evitabile tributo Dear Jerry); la seconda, molto più semplice, ha riguardato solo la certezza che in Italia quasi nessuno recensisce le uscite della Dave's Picks e che, per una volta che riesco a mettere le mani su uno di questi gioielli (per giunta in altissima qualità audio), quel qualcuno potevo essere io
Dicembre 1981, Boulder, Colorado. "The Circus is in Town": come mostra la copertina, dal paesaggio innevato dei Flatirons si distacca un'esplosione di colori freddi come la Morte, che campeggia in primo piano guidando una bicicletta. L'ombra dei crateri lunari scivola di traverso e oscura le casette alla periferia della Contea. Un'immagine incredibile. Nevica già da un mesetto, a tratti piove. Cold Rain and Snow, un traditional del canzoniere americano antico quanto gli Stati Uniti stessi, viene ripescato dal primo LP omonimo (1967) e apre il concerto dei Grateful Dead. L'assolo di Garcia cancella il momentaneo stupore di chi si aspettava Alabama Getaway, quel curioso singolo pop che- al pari di Go to Heaven, album che lo contiene -non ha avuto vita facile in classifica negli ultimi tempi. Per una mezz'ora buona si può solo pensare alla Summer of Love, potrebbe essere una scaletta di dieci anni prima, seppure estremamente contenuta nella durata. Perfino Little Red Rooster, da sempre la lunga cavalcata blues nei concerti dei Dead, resta sotto la soglia dei dieci minuti. Con Bird Song il timone della nave passa nelle mani di Weir, a suo agio in mezzo ad un pubblico montanaro e ruspante come quello confluito al CU Events Center della University of Colorado. Il suo set nel set comprende i pezzi più country del gruppo, Mama Tried di Merle Haggard e la splendida Mexicali Blues, rubata al suo esordio solista Ace (1972).
Si cambia nuovamente programma: dapprima sembra di assistere alla fine di un film (China Cat Sunflower e  una I Know You Rider molto bella), poi si passa alla jam del meglio della seconda metà degli anni Settanta (Scarlet Begonias, Fire on the Mountain, Estimated Prophet) e davvero ci si convince di non aver mai sentito musica più limpida, ascoltabile e perfino palpabile di questa. Momenti lirici, intervalli, espansioni melodiche che bastano e avanzano a dare l'emozione di ciò che può divenire una canzone rock: sensazioni che si innalzano ulteriormente in He's Gone e si espandono senza tregua in Space.  The Other One e, inaspettata, Stella Blue conducono ad Around and Around, dove i Dead si riappropriano, compiaciuti, dei propri rock&roll days, e poi di Good Lovin', canzonetta degli Young Rascals già coverizzata in Shakedown Streets
I motori della carovana Grateful Dead iniziano a rombare di nuovo, sotto la neve del Colorado. I roadies sfoderano la grande mappa dell'Ovest, in cerca della strada che li porterà al prossimo concerto. U.S. Blues è per loro e per chiunque, in quella fredda notte, sta attraversando lo stato percorrendo vie alternative, sentieri solitari e isolati. Gli fa eco Satisfaction degli Stones, pulita e tirata alla grande, una versione perfezionata di quella proposta durante il 1980 e ancora lontana dalla banalità del periodo 1984-1986. Oggi, per la prima volta, udibile su HDCD grazie alla competenza e alla lungimiranza di Lemieux, il quale- vale la pena ricordarlo -presenta per la prima volta un concerto dei Dead legato agli anni Ottanta.

sabato 19 novembre 2016

Metallica, "Hardwired... to Self-Destruct" [Suggestioni uditive]

Metallica,
Hardwired... to Self-Destruct
(Blackened Records, 2016, 2 Cd)
1/2
















Capitolo Uno.
2003-2006.
Tra i giovanotti di metal dei primi anni Duemila bisognava scegliere se stare dalla parte dei Metallica "puri", quelli di Kill'em All, Ride The Lightning e Master Of Puppets, oppure da quella dei Metallica "impuri", quelli perbenisti e rallentati, quelli della difesa del diritto d'autore e degli interessi delle major discografiche nella causa contro Napster, quelli che si dividevano fra una festa in famiglia e una partita di basket con qualche clochard di Frisco (come mostrato nel video di Nothing Else Matters). Poteva sembrare scontato schierarsi a favore dei primi, ma a quattordici anni nulla è banale, immediato o automatico. Certo, St. Anger era orribile, ma allora perchè avevo comprato sia l'album che il singolo di Frantic? E perchè Load (originale) girava nel mio stereo quasi quanto Master Of Puppets (taroccatissimo)? Avessi avuto qualche anno in più, fossi stato un metallaro trentenne che aveva toccato con mano quanto il trash metal delle origini fosse libero, scostumato e aperto verso l'imprevedibile, magari non avrei avuto dubbi. Ma non funzionava così. St. Anger era considerato dai più arditi una prova di espressionismo musicale, un esperimento che avrebbe dovuto rilanciare i Metallica avvicinandoli al nu-metal, al noise, al garage e a mille altre diciture in voga all'inizio del nuovo millennio. Poi, naturalmente, si era rivelato essere un disco pessimo, nato da un travaglio immenso (avete mai visto il documentario Some Kind Of Monster?) e assolutamente inappropriato al mercato dell'epoca, un mercato che richiedeva commistioni pesanti con l'hip-hop, molta elettronica e perfino una certa ballabilità di fondo. In molti sono concordi che l'uscita di St. Anger e la sconfitta morale (cui fece seguito l'abbandono di una buona fetta dei fans) nel processo contro la pirateria illegale abbiano rappresentato il punto più basso della parabola artistica e umana dei Metallica. Non è un caso perciò che, già nel 2005, anche il sottoscritto avesse accantonato del tutto roba come St. AngerLoad, Re-Load e Black Album in favore dei vecchi dischi e di ben altri panorami musicali.

Intermezzo.
2006-2008.
Un breve intermezzo biomusicale. L'unica canzone dei Metallica che ho ascoltato fra 2006 e 2008 è stata  la cover di Whiskey In The Jar. E in più devo anche ringraziarli per avermi fatto scoprire- indirettamente, ma va bene lo stesso -Bob Seger, che quando dicevi a scuola che lo stavi sentendo tutti a fare <<Chi? Bob Seghe? E chi è?>>. Bob Seger è uno di quei dieci, venti incontri musicali che ti cambiano la vita. Avete presente i dischi perfetti, quelli che dall'inizio alla fine non cadono mai e non vengono a noia? Ecco, Bob Seger può vantarne almeno quattro nel proprio catalogo (un catalogo che, vale la pena sottolinearlo, ancora deve aspettare una ristampa completa su cd e che tantomeno troverete su Spotify) e può tirarsela anche soltanto per avere registrato uno dei live più belli di tutti i tempi. Oggi è un anziano leone, scrive poco e pubblica anche meno, si esibisce solo negli USA e ha paura di volare.

Capitolo Due.
2008-2015.
Sono da poco rientrato dalle vacanze estive. La sbornia del post-maturità è durata neanche quaranta giorni e fra un viaggio e un altro non sono riuscito a raccattare mezza idea su cosa fare da grande. E' un problema, un problema enorme. Mentre mi arrovello e concentro, alla televisione passa un video dei Metallica. Nuovo, lungo, polveroso, duro come la pietra e con un suono che non si sentiva dai tempi di ...And Justice For All. Alzo il volume della tv. Il video è girato benissimo e mostra un'azione di guerra nel deserto iracheno, mentre, in contemporanea, il gruppo suona in una landa desolata. Le immagni della parte bellica non seguono la musica; è assente, nel montaggio, un'idea di senso del ritmo e solo alla fine ha inizio una lunga galoppata strumentale e la scena si concentra solo sui Metallica, intenti a suonare nonostante siano raggiunti da una tempesta di sabbia. Sembrano tutti più vecchi e più saggi. La telecamera di Thomas Vinterberg (non uno qualsiasi) non accenna a voler nascondere acciacchi e segni dell'età di questi cinquantenni milionari. Un mese dopo esce nei negozi Death Magnetic e io, per partito preso, non lo compro. Tuttavia è un album magnifico, un disco di rinascita che pochi altri artisti possono vantare nel proprio catalogo dopo un periodo di crisi (in questo caso un periodo lungo una quindicina d'anni). Per una volta, i Metallica hanno ascoltato i fans della prima ora, hanno preso e tirato un calcio in culo a Bob Rock (che vada a produrre Bon Jovi!). I concerti migliorano mese dopo mese, il disco piace. E' imperfetto, e poteva essere nettamente migliore se non fossero state omesse alcune canzoni ripubblicate nel 2011 in un EP chiamato Beyond Magnetic. Da Death Magnetic in poi coltiverò un rapporto ambiguo con la band: troverò orripilante Lulu (e pensare che Lou Reed ci ha concluso la carriera con un album del genere), mentre mi esalterò perdutamente andando a vedere, al cinema, Through the Never. Più o meno nello stesso periodo, ascolterò intensamente Lords of Summer, demo poi convertita in singolo che lascerà presagire grandi cose.


Capitolo Tre.
Hardwired... to Self Destruct.
 Al netto dei cinque anni di pettegolezzi e aneddoti che ne hanno anticipato l'uscita, Hardwired... to Self-Destruct è uscito due giorni fa in tutto il mondo. Le versioni presentate sono molteplici, ma le più importanti sono due: la standard (2 cd di cui si capisce poco il senso, dato che l'intero album dura meno di 78 minuti) e la deluxe (3 cd, ovvero l'album e un disco di extra contenente due outtakes, tre covers e otto brani registrati a Minneapolis lo scorso agosto). Qua si parlerà esclusivamente della standard.
Un paio di primati: è il primo doppio album di inedite della loro carriera; è il primo album a non contenere nessuna composizione firmata o co-firmata da Kirk Hammett. Difficile stabilire se sia un pregio o un difetto, dato che, già dopo la tripletta iniziale (Hardwired, Atlas, Rise! e Now that We're Dead) ci si rende conto che stiamo ascoltando un disco di impeccabile, cristallino trash-metal e non di canzoni vintage. James Hetfield e Lars Ulrich non sono compositori rinchiusi nella loro bolla temporale e smaniosi di un ritorno agli anni Ottanta. Certo, hanno commesso i loro errori, pubblicato merda per almeno tre lustri, ma alla fine il loro è il percorso di quasi tutte le rock-band di successo. Moth Into Flame è in assoluto una delle mie canzoni preferite di quest'anno, 
Per il gruppo, tutto Hardwired si segnala come un capitolo particolare: un disco duro e intrigante, più maturo di Death Magnetic (album che continuo ad apprezzare e che invecchia, oggettivamente, molto bene), non necessariamente interessato alla costruzione di un suono "contemporaneo" eppure perfetto per competere con tutto ciò che il panorama heavy offre nel 2016. Chiaramente, non è stato realizzato per lasciarsi ascoltare da chi ai concerti dei Metallica aspetta di tirare fuori l'accendino (o, peggio ancora, lo smartphone) per The Unforgiven, ma è forse proprio questo il suo pregio più grande. In effetti, più si prosegue nell'ascolto e più ci si rende conto di trovarsi fra le mani proprio il seguito naturale di ...And Justice for All e Death Magnetic.  Gli ultimi due brani del primo disco, la lenta Dream No More e l'epica Halo on Fire (altro apice dell'album), rappresentano due valide ragioni per comprendere com'è che il disco sia stato presentato con tanto entusiasmo da Hetfield e soci, e accolto con pari entusiasmo dalla critica (Kerrang! gli ha conferito addirittura il massimo dei voti). La seconda "parte" di Hardwired fa calare leggermente l'interesse da parte dell'ascoltatore, colpa forse di brani non sciatti ma mediamente meno riusciti (e qui più che mai varrebbe la pena domandarsi se un unico cd avrebbe giovato alla totalità dell'opera): si apre con Confusion, oscuro esempio di magia nera che ammicca a certi episodi del Black Album senza scendere però a compromessi. Del resto, anche il secondo disco presenta ben poco che farebbe piacere mettere ad un party con gli amici o durante una pomiciata al chiaro di luna: si prenda anche ManUNkind (video splendido), fra i pezzi più sempliciotti, ma con basso e chitarre elettriche che conferiscono al suono una potenza, una profondità, una tridimensionalità  che al repertorio dei Metallica mancavano dai tempi di Master of Puppets. Here Comes Revenge è una delle migliori canzoni del gruppo di sempre: impostata come il classico pezzo à la Death M agnetic, ha una potenza di fuoco devastante e poco importa se è inferiore a Damage, Inc. o Battery. Am I Savage? parte bene, ma convince poco nell'arco di un paio di minuti, mentre Murder One (anch'essa lontana dalla qualità udita sulla "prima facciata") non è solo rabbia e grinta, ma lascia intravedere passione, ritmo, entusiasmo, groove. Spit Out to Bone, in compenso, è la degna conclusione di un disco come questo, non si arrende, non teme confronti, non soffre di alcun complesso di inferiorità. E', assieme ad un altro paio del cd 1, la canzone che meglio rappresenta i Metallica del 2016, ovvero una band metallara in grado di assemblare un doppio album praticamente privo di riempitivi. L'entusiasmo che mi trasmette ascoltarla mi riporta ai tempi in cui Search & Destroy girava in modalità repeat nello stereo in cameretta e io saltavo dal letto facendo air guitar.
Hardwired... to Self-Destruct è il  disco con cui ascoltare e apprezzare i Metallica migliori. Per chi avesse tredici quattordici anni oggi, è anche, misteriosamente, un buon punto di inizio per conoscerli.

venerdì 11 novembre 2016

Like a Bird on the Wire [Extra]

Leonard Cohen al supermercato.

Accendo il telefono ancora un po' assonnato, guardo quanti SMS di auguri ho ricevuto (è il mio compleanno) e poi penso che nessuno ti fa più gli auguri per messaggio: tutti a prediligere "prozzap" o "fastBook". E allora mi rigiro e apro proprio "fastBook" ("prozzap" mai avuto). Joan Baez scrive: 
Bless Leonard Cohen. I met him in 1961, a mysterious, dark and gloomy, gifted songwriter, in the lobby of the notorious, dingy 60s-atmospheric pot and poetry Chelsea Hotel. Someone was throwing up in the phone booth. I was a newbie to it all. Over the decades, from the Village to the stage to the seclusion of a monastery, to his own seclusion, he gave us much of his wisdom and beauty in magnificent poetry and song. Hallelujah.
Leonard Cohen è morto, per giunta per il mio compleanno? Non posso entrare nel "Club dei 27" sotto un auspicio del genere. Mi informo meglio e scopro che è morto alcuni giorni fa, il 7 novembre, ma che solo ora la famiglia e La casa discografica hanno deciso di rendere pubblica la notizia. Penso a tutte le recensioni di You Want It Darker che ho letto fino a una decina di giorni fa: tutti lì a parlare di testamento artistico e spirituale, di disco già scritto e registrato dall'oltretomba, ecc. Saranno contenti questi gufi scribacchini, ma a me un po' dispiace. Anche se lo sapeva, anche se era preparato al meglio (leggere questa bella intervista al New Yorker può bastare per farsi un'idea), anche se in questi anni dieci sembrava più che mai intenzionato a riempire la vita degli ascoltatori di buona musica con grandi canzoni, registrando e componendo a ritmi che non aveva mai tenuto nemmeno in gioventù.
E poi quale gioventù? Leonard Cohen è l'unica rockstar a non aver goduto di una delle stesse prerogative del rock&roll: la giovinezza. Lui che avrebbe potuto trascorrere la vita pubblicando splendide poesie e aspettando, comodamente, un Nobel. Lui che si approcciò tardi alla chitarra e pubblicò il primo, grandioso album a trentatrè anni. Lui che ha cambiato musicalmente pelle molte volte, partendo da una formula chitarra-voce tipica del folk dei suoi tempi e approdando perfino al synth-pop
Una volta, per scherzo (ma fino a un certo punto), dissi che l'unica epigrafe funeraria che accetterei è la prima strofa di Bird on the Wire
Quest'estate, ero su un'isoletta greca sperduta e lessi su un giornale online la notizia della morte di un suo vecchio amore (la Marianne Ihlen di So Long, Marianne per l'appunto). Lo stesso giornale riportava la traduzione di un biglietto che Cohen, tramite un comune amico norvegese, aveva fatto recapitare alla donna malata terminale. Una lettera di amore ma pure di rassegnazione, breve e semplice, per molti versi simile a molte delle sue canzoni. Una lettera che si concludeva con la frase "Addio, mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada". Anche lui e Marianne si erano conosciuti su una piccola isola greca (Idra) in una calda estate di cinquant'anni prima.
E ora, ladies and gentlemen, le parole e, soprattutto, la Musica di Leonard Cohen, la mia preferita, quella che mi porto dentro già da molto tempo e che continuerà a far parte di me:

Addio Marianna, era tempo di ricominciare
a ridere e piangere 

e piangere e ridere su tutto questo ancora.

Come un uccello sul filo, 
come un ubriaco in un coro di mezzanotte
ho cercato a modo mio di essere libero.
Lei portava calze verdi, dormiva con tutti,
ma <<Cosa fai domani?>> non lo chiese mai a nessuno.
S'innamorò di tutti noi, non proprio di qualcuno 
non proprio di qualcuno. 
Dicevamo che era libera e nessuno era sincero.
Molti hanno usato il suo corpo, molti hanno pettinato i suoi capelli. 
E nel vuoto della notte, quando hai freddo e sei perduto,
è ancora Nancy che ti dice <<Amore sono contenta che sei venuto>>.
(come la cantava FdA)

E grazie per le ansie che hai tolto dai suoi occhi.
Pensavo che fossero lì per sempre e quindi io non ci ho neanche mai provato.


Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel,
parlavi con coraggio e dolcezza,
facendomi un pompino sul letto disfatto 
mentre le limousine aspettavano in strada. 
Non voglio dire che ti ho amata al meglio,
non posso ricordare ogni pettirosso caduto.
Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel.
Tutto qui, non penso a te neanche tanto spesso…

Ho cercato di lasciarti, non lo nego, 
ho chiuso il libro su di noi almeno un centinaio di volte.
Mi sveglio ogni mattina al tuo fianco, 
gli anni passano, tu perdi il tuo orgoglio,
il bambino piange, così tu non esci. 
Tutto il tuo lavoro è proprio davanti a te.
Buonanotte, mia cara, spero tu sia soddisfatta, 
il letto è un poco stretto, ma le mie braccia sono aperte 
e qui c’è un uomo che ancora si dà da fare per un tuo sorriso.

Mi sono avvicinato alla ragazza più alta e più bionda
e le ho detto <<Tu non mi conosci,
ma presto lo farai,
dunque non mi lasceresti vedere
il tuo corpo nudo?>>.
Fammi danzare fino alla parte scura della palestra,
credo che ti lascerò l’iniziativa.
<<So che sei affamato, lo sento nella tua voce,
ci sono molte parti in me che puoi toccare.
Scegli tu
ma no, non puoi vedere 
il mio corpo nudo>>.

Per tutta l’estate lei mi ha toccato, 
la luce veniva dal suo corpo e la notte attraversava la sua grazia, 
ed io l’ho conosciuta viso a viso, 
ed il suo vestito era blu e argento e le sue parole poche e brevi. 
Lei è la nave di tutto il mondo, la signora di noi tutti, la regina della solitudine.

Fammi danzare fino alla tua bellezza con un violino di fuoco, 
fammi danzare fino al panico 
fino a che sarò al sicuro. 
Sollevami come un rametto d’ulivo e diventa la colomba che mi riporterà a casa. 
Fammi danzare fino alla fine dell’amore.

Se quello che vuoi è un amante ,
farò qualsiasi cosa tu mi chiederai, 
e se vuoi un amore diverso 
indosserò una maschera per te, 
se vuoi un compagno 
prendi la mia mano, 
o se vuoi colpirmi con la tua collera 
io sono qui, 
sono il tuo uomo.
Se vuoi un pugile 
salirò sul ring per te, 
e se vuoi un dottore 
visiterò ogni centimetro di te, 
se vuoi un autista 
sali, 
se vuoi solo fare un giro 
sai che puoi farlo,
sono il tuo uomo.

Ho sognato di te, baby
è stato solo l’altra notte, 
eri quasi nuda 
ma eri anche luce, 
la sabbia del tempo scorreva 
dalle tue dita e dal tuo pollice 
e tu stavi aspettando 
che accadesse il miracolo.
(Per inciso, non potrei vivere senza The Future)

E stiamo ancora facendo l'amore,
nella mia vita segreta.

Non ti è mai piaciuto ricevere le lettere che ti spedivo, 
ma ora hai colto l’essenza di quello che le mie lettere volevano dire
e ora le rileggi, quelle che non hai bruciato. 
Te le appoggi alle labbra,
le mie pagine di preoccupazione;
la tua storia era così lunga, 
la trama così intensa. 
Ci hai messo anni a superare la linea dell’autodifesa; 
tu cammini nella mia stanza,
sei alla mia scrivania 
e inizi la tua lettera per chi verrà dopo.

Ho preso l’oscurità bevendo dalla tua tazza; 
ho chiesto <<E' contagioso?>> e tu hai risposto <<Finisci solo di bere>>. 
Non ho futuro, so che i miei giorni sono contati, il presente non è piacevole, solo una lista di cose da fare, credevo che il passato mi avrebbe finito ma l’oscurità ha preso anche quello. 
Mi piaceva amare l’arcobaleno, mi piaceva amare la vista, mi piaceva il mattino presto, fingevo che fosse nuovo, 
ma ho preso l’oscurità baby e l’ho presa peggio di te.

La guerra è persa,
il trattato è stato firmato.
Vivo in mezzo a voi,
ben camuffato.
[Fra l'altro, T-Bone Burnett ha definito Nevermind <<la più importante canzone del XXI secolo>>, tanto che l'ha scelta come brano per la sigla della seconda stagione della più bella serie televisiva di tutti i tempi. Vedere qua per credere.]