sabato 27 febbraio 2016

Due parole sugli Oscar 2016 [Ombre elettriche]


Mi piace scrivere cazzate sugli Oscar ogni anno.
Lo ritengo rilassante e sono qui, a battere le mie impressioni riguardo a questa buffonata che mi diverte e mi permette di tenere decine di conversazioni con amici e parenti a tal riguardo. Poi mi lasciano basito quelli che di tutto ciò che è in lizza hanno visto un 2% e ne conoscono, per sentito dire, un ulteriore 5% (e chissà perchè, a detta di questi fenomeni, quel 7% deve vincere tutto e il più possibile, manco fossero i loro intelletti a essere candidati alla bramata statuetta). 
Che l'Oscar sia una bischerata lo dimostra, da ormai quindici anni, Bob Dylan: da quando ne ha vinto uno nel 2001 per la canzone Things Have Changed, non c'è stata sera o concerto del Never Ending Tour in cui si sia presentato- col ghigno beffardo di chi la sa lunga-senza l'invidiata statuetta appoggiata o sulle tastiere o su uno degli amplificatori della propria band. Dylan è Dylan, e ha capito meglio di tutti che la vera utilità dell'Oscar è quella di un bel soprammobile, anzi, di un bell'oggetto di scena fabbricato presso la lobby hollywoodiana.
La stessa lobby che quest'anno ha deciso di candidare allo strabiliante numero di dieci statuette un film australo-statunitense che ho amato tantissimo (tant'è che ha occupato il gradino più alto della mia top-ten di fine anno dei migliori film visti) e che mai mi sarei aspettato riuscisse ad arrivare- meritatamente -tanto in là. Sto parlando di Mad Max: Fury Road di George Miller, un capolavoro autentico e senza dubbio uno dei sei, sette film più importanti del XXI Secolo (state tranquilli, se ne aggiungeranno altri da ora ai prossimi settantacinque anni!). A maggio, poco dopo la sua uscita e poco dopo le sue due visioni che mi sono concesso in sala, mi sono subito sperticato in lodi sincere e prive di filtri, attirando su di me le perplessità di alcuni utenti FB:

"Addirittura", certo. Lo dimostrano i fatti, i premi e il parere della buona critica specializzata. C'è poi chi non lo ha visto e si è giustificato col rifiuto di un'ennesima "trashata" (gente che magari andrà in brodo di giuggiole per l'ottavo Die Hard o il dodicesimo F&F o che si sente raffinata quando, per Natale, preferisce Lillo&Greg a Neri Parenti), oppure chi lo ha visto e semplicemente non lo ha capito. I sempliciotti diranno <<E che c'è da capire in un film dove dei tizi scappano e altri tizi li rincorrono?>> e la risposta è: molto. Perchè, con ogni probabilità, Mad Max: Fury Road è una delle poche prove filmiche del famoso "qualcosa in più", un qualcosa di difficilmente spiegabile (non che da maggio ad ora non ci abbia provato!) e per cui l'unico aggettivo utile che mi sovviene è totale. Dal 2000 ad oggi abbiamo senz'altro visto scene, inquadrature, frammenti di cinema puro sparsi in un numero irrisorio (irrisorio rispetto a quanti film ci hanno subissati in sedici anni di visioni) di pellicole. Mi viene in mente, ad esempio, la scena del Club Silencio in Mulholland Drive, che in appena otto minuti condensa un linguaggio e un'arte ormai vecchi di centoventi anni. Ecco, Mad Max: Fury Road è un altro di quei frammenti, una messinscena del Club Silencio da centoquindici minuti.
Perciò, aggiungerò poco altro sugli Oscar 2016, se non che non ho ancora visto, purtroppo, Il caso Spotlight e che La grande scommessa continua a sembrarmi un favorito sopravvalutatissimo, per quanto coraggioso. Bando alle ciance! Mad Max: Fury Road per me deve uscire come vincitore assoluto. Filosoficamente e moralmente, lo è già, ma non nego che vedergli vincere un bel po' di premi non mi dispiacerebbe. Anche solo per far incazzare chi lo ha detestato, o non lo ha visto, o peggio ancora non lo ha voluto vedere.

Film: Mad Max: Fury Road
Regia: George Miller (Mad Max: Fury Road)
Attore protagonista: Michael Fassbender (Steve Jobs)
Attrice protagonista: Cate Blanchett (Carol)
Attore non protagonista: Christian Bale (La grande scommessa)
Attrice non protagonista: Jennifer Jason Leigh (The Hateful Eight)
Sceneggiatura originale: Josh CooleyRonnie del CarmenPete Docter e Meg LeFauve (Inside Out)
Sceneggiatura non originale: Phyllis Nagy (Carol)
Film straniero: -
Film di animazione: Inside Out
Fotografia: Emmanuel Lubezki (Revenant- Redivivo)
Scenografia: Jack Fisk (Revenant- Redivivo)
Montaggio: Margaret Sixel (Mad Max: Fury Road)
Colonna sonora: Ennio Morricone (The Hateful Eight)
Miglior canzone: Lady Gaga (Til It Happens To You)
Effetti speciali: Andrew Jackson, Dan Oliver, Andy Williams e Tom Wood (Mad Max: Fury Road)
Sonoro: Chris Jenkins, Gregg Rudloff e Ben Osmo (Mad Max: Fury Road)
Montaggio sonoro: Martin Hernandez e Lon Bender (Revenant- Redivivo)
Costumi: Jenny Beavan (Mad Max: Fury Road)
Trucco e acconciatura: Lesley VanderwaltElka Wardega e Damian Martin (Mad Max: Fury Road)
Documentario: -
Cortometraggio documentario: -
Cortometraggio animato: -

giovedì 25 febbraio 2016

"Vinyl", 2x01 [Recensione]

Uno si aspettava che fosse tutto finito e che la magia, la musica, lo stile dell'episodio pilota di Vinyl fossero stati soltanto un rappresentativo esercizio d'autore.
E invece no, perchè anche questa seconda puntata si snoda attraverso i suoi 55 minuti in maniera egregia.
Richie Finestra risorge- anche fisicamente -dalle ceneri del concerto dei New York Dolls e si sente come se fosse la prima volta che ha udito il rock&roll.
L'accordo con i "cazzoni nazisti" della PolyGram va a monte e la sua lista di nemici inizia ad allungarsi. Il personale è a rischio licenziamento e ora più che mai i talent scout dovranno iniziare a scovare davvero validi talenti di questa scena sub-urbana che sta prendendo piede. Per questo, Richie è contento del lavoro svolto dalla "ragazza dei panini", involontaria preveggente del punk a venire, ventenne consapevole che il rock sta tornando a forme più semplici e spontanee.
Al personaggio di Devon, forse leggermente sfuocato nel Pilot, viene dedicato molto più spazio. Tornano ad emergere (e a tentarla) il suo passato alla Factory di Andy Warhol, le sue esperienze con ogni genere di sostanza psicoattiva, la vicinanza ai Velvet Underground.
Sommo il monologo anti-progressive di Richie durante la riunione e il sibillino finale. Che non è Scorsese, ma rimane scorsesiano. 
Come tutto il resto.

sabato 20 febbraio 2016

Deadpool [Recensione]

Deadpool è un supereroe (o antieroe?) che tutti conoscono e amano. Il perchè è presto detto: fa parte dell'universo dei mutanti ma riesce a starsene fuori, fa ridere ed è il più citazionista dei personaggi Marvel.
Va bene. Bravi. Ma veniamo al nocciolo della questione: cosa si cela dietro ad un film di merda?
Deadpool non è un eroe "storico", essendo nato nel 1991, ma la sua trasposizione cinematografica ha turbato i sonni di mezza Hollywood per oltre dieci anni. 
Come? 
E' presto detto: nel 2004 David S. Goyer inizia a scrivere un Deadpool con Ryan Reynolds da far produrre alla New Line Cinema, ma nel giro di pochi mesi si disinteressa e cede i diritti alla Fox, che mette in cantiere il progetto per il 2005. Poi l'oblio.
Quattro anni dopo, Reynolds interpreta Deadpool nel mediocre filmetto X-Men le origini- Wolverine, attirandosi le simpatie del pubblico, che chiede a gran voce uno spin-off dedicato a questo strambo personaggio. Vengono chiamati due validi sceneggiatori, Rhett Reese e Paul Wernick, che nel 2010 consegnano uno script nuovo di zecca e pensano ad un Robert Rodriguez regista (magari!). 
Il progetto naufraga e rimane in standby fino al 2014, quando Ryan Reynolds in persona tira fuori i soldi e i Marvel Studios scelgono l'esordiente Tim Miller come regista.
Alla fine, Deadpool è uscito ovunque (tranne che in Cina e Uzbekistan) e sta pure godendo di un buon successo. Un successo eccessivo per un film che è girato da cani, che fa ridere meno della metà di quanto vorrebbe (e vorrebbe far ridere tanto) e che trasuda banale violenza, volgarità fine a se stessa e cattivo gusto da ogni fotogramma. 
Non è che annoia, è moscio o non rende. E' una ciofeca vera e propria, in cui nulla- all'infuori del tassista indiano malato d'amore e del barman dei sobborghi -fila per il verso giusto. Comprimari super-eroistici orribili e un cattivone immune al dolore (Francis, detto Ajax e ulteriormente massacrato dal nostro doppiaggio) la cui faida si trascina per un'ora e mezza.
Visto l'enorme successo al botteghino, c'è da confidare in un Deadpool 2, sperando che la Marvel non impieghi altri dodici anni a realizzarlo, ma la faccenda potrà solo migliorare. Anche perchè qui siamo preoccupantemente lontani da tutto: in particolare, dal filone Marvel più umoristico a cui Deadpool ammicca senza neanche riuscire a somigliare. 

venerdì 19 febbraio 2016

10 dischi per fine febbraio [Suggestioni uditive]

Non propriamente in ordine di preferenza (a meno che "preferenza" non significhi arrivo dalla ribalta della memoria, intensità, persistenza), ma secondo un miscuglio di ordini. Ad esempio, la straordinaria score morriconiana è penultima perchè ho già visto tre volte il film e non mi sembrava urgente porla all'inizio della lista, mentre il decimo gradino di Vinyl è dovuto al fatto che ho finito di raccogliere, selezionare e masterizzare i compact solo ieri pomeriggio.
Dei nuovi album "rosa" firmati Lissie e Lucinda Williams ho già parlato, così come ho scritto del tributo "made in Alligator Records" a Blind Willie Johnson.
La Tedeschi Trucks Band, seppur lontana dagli standard qualitativi raggiunti dal vivo e ancora di più dai dischi del solo Derek, firma il suo miglior album in studio, un lavoro tenero e incentrato sull'immaginario del soul degli USA meridionali, molto meno blues dei due precedenti.
In cima, i Simo, che incidono nella Big House degli Allman (e impiegando anche la Gibson di Duane) un disco di esordio che è il più riuscito, disordinato e affascinante di tutta la lista, all'insegna dei grandi power trio blues degli anni Sessanta.
Fuori tempo ma non fuori lista l'intrigante cofanettone dei Weather Report, qui colti al loro apice artistico e concertistico.
Sto ancora ascoltando Bloomfield e Naftalin chiusi nei Record Plant di New York nel 1973: un bootleg arretrato, bello e necessario.
E poi un altro bootleg, sempre eccezionale sebbene si ponga fuori dalla numerazione della sola Series autorizzata: Dylan e Petty in tour nel 1986. Qualità audio ottima, grazie al lavoro della Rox Vox. Dylan pre-Never Ending Tour sembra quasi divertirsi a fare la rockstar che con chitarra elettrica e chiodo di pelle riempie uno stadio, sbattendo in faccia un repertorio già immortale e obbligando il pubblico ad ascoltare, percepire, sognare cosa è il rock.
Se poi considerate la filosofia di Will Oldham (aka Bonnie "Prince" Billy) povera e i suoi innumerevoli dischetti da venti, trenta minuti poco più che discreti, state alla larga dalla raccolta di outtakes sfornata dalla Domino Records, superflua, certo, ma tanto illusoria da rimanere simpatica e ottenere, senza motivo, il quinto posto.
The Life Of Pablo è, ad ora, il migliore album di hip hop del 2016, nonchè l'unico album hip hop del 2016 che mi sono messo ad ascoltare in maniera seria e sistematica.
Va da sè, per quanto lo abbia ascoltato in rete in scarsa qualità, che gli Avett Brothers abbiano firmato il loro migliore album live.

1- Simo, Let Love Show The Way (Mascot Label Group, 2016)
2- Bob Dylan & Tom Petty, Live On The Radio '86 (Rox Vox, 2016)
3- Tedeschi Trucks Band, Let Me Get By (Universal Music, 2016)
4- Michael Bloomfield & Mark Naftalin, The Record Plant '73 (Shady Grove Records, 2016)
5- Bonnie "Prince" Billy, Pond Scum (Domino Records, 2016)
6- Kanye West, The Life Of Pablo (Def Jam, 2016)
7- Avett Brothers, Live Vol.4 (Repubblic Records, 2016)
8- Weather Report, The Legendary Live Tapes 1978-1981 (Sony Music, 2015, 4 Cd)
9- Ennio Morricone e altri, "The Hateful Eight" Soundtrack (Third Man Records, 2015)
10- AA.VV., Vinyl OST (compilata dal sottoscritto e contenente il meglio delle 42 canzoni comparse nell'episodio pilota della serie HBO spalmato su 2 cd).


AA.VV., "God Don't Never Change- The songs Of Blind Willie Johnson" [Suggestioni uditive]

AA.VV.,
God Don't Never Change- The Songs Of Blind Willie Johnson
(Alligator Records, 2016)












L'ondeggiare dei tribute albums è già di per sè misterioso, ma lo è ancora di più se riafferma la collaborazione tra musicisti viventi e musicisti morti. Due strisce, la Vita e la Morte, che si sovrappongono per conservare l'opera di uno dei più grandi maestri cantori di sempre: quel Blind Willie Johnson, il cui messaggio di dolore e tristezza più profondo (Dark Was The Night, 1927) e inesprimibile a parole viaggia, dal 1977, verso lo spazio interstellare, sottoforma di disco d'oro.
Le trenta canzoni incise da Blind Willie per la Columbia fra il 1927 e il 1930 rappresentano, da sempre, la facciata più ossessiva dello spiritual, che viene presa e trapiantata nel blues da un nero tenore texano che si era costruito una chitarra con una scatola di sigari a cinque anni ed era stato accecato a sette, con l'acido solforico, dalla matrigna. Jeffrey Gaskill, produttore e musicologo di comprovata fama (sua l'idea del non autorizzato e anche per questo affascinante Gotta Serve Somebody: The Gospel Songs Of Bob Dylan, uscito nel 2003), di quelle trenta canzoni ne ha scelte undici e ha chiamato a sè dieci diversi interpreti: Tom Waits, Lucinda Williams, Derek Trucks e Susan Tedeschi, i Cowboy Junkies, i Blind Boys Of Alabama, Sinead O'Connor, Luther Dickinson, Maria McKee e Rickie Lee Jones. Ci ha messo qualche anno (otto, a sua detta), ma il risultato è magnifico e il fantasma di Blind Willie Johnson- sempre impressionante e proiettato attraverso l'unica foto accertata giunta fino a noi -aleggia su tutta l'opera.
La ruralità dei brani originali resta intatta in buona parte dell'album. The Soul Of A Man e John The Revelator cantate da Waits restituiscono la visione apocalittica di Blind Willie in tutti i suoi stadi, dalla procreazione alla manifestazione. It's Nobody's Fault But Mine della Williams va a fare compagnia all'altra grande cover già conosciuta di questa canzone: quella dei Led Zeppelin, puramente hard rock e fissata alla fine degli anni Settanta.
Enormemente importante la Jesus Is Coming Soon dei Cowboy Junkies, dove la registrazione di quasi novant'anni fa viene esaltata dal rapporto Blind Willie/Margo Timmins/Gesù Cristo (Cosa/Soggetto/Visione).
Angelica, e venata di tutto il suo cattolicesimo irlandese, la Sinead O'Connor di Trouble Will Soon Be Over. Infernalmente campagnoli Luther Dickinson e la Rising Star Fife & Drum Band di Bye And Bye I'm Going To See The King.
Alla fine, l'unico brano interamente trascurabile della raccolta è proprio Dark Was The Night, cantato (eresia!) da Rickie Lee Jones, ma anticipato, una traccia prima, dalla superba Let Your Light Shine On Me della ricomparsa Maria McKee. Ora, tutti i titoli di Blind Willie Johnson sono oggettivi, precisi, determinati, ma Let Your Light Shine On Me lo è in maniera particolare. Si potrebbe dire che quello di questa canzone è il titolo che definisce tutte le altre. La McKee la canta rovesciando tutto l'apologetico cristianesimo di cui il blues di Blind Willie Johnson è luciferina e tersa incarnazione. L'attrattiva "erotica" del blues di Robert Johnson, con i suoi doppi sensi e i suoi ammiccamenti, è totalmente assente nel repertorio di Blind Willie, ma è la "magnifica ossessione" che formò tutti i maestri cantori del Delta (e poi del resto degli Stati Uniti) e tutti i bluesmen degli anni a venire ad offrirsi nuovamente, chiara e limpida, alle nostre orecchie. 

giovedì 18 febbraio 2016

Lissie, "My Wild West" [Suggestioni uditive]

Lissie,
My Wild West
(Lionboy/Cooking Vinyl, 2016)













My Wild West. Il mio selvaggio West. Il titolo a cui, per ora, giunge il percorso canoro della 33enne Elisabeth Maurus meglio nota come Lissie  sembra dichiarare senza ambiguità il materiale di cui è fatto il sogno della sua musica. 
Positivamente segnato dall'esperienza dell'autoproduzione e da arrangiamenti di alta qualità eppure molto lontani da quelli dei due album usciti per Columbia fra 2010 e 2013, My Wild West è il primo traguardo discografico di Lissie che davvero mi colpisce e conquista totalmente. Un disco di grande maestria tecnica e di puro cantautorato country. Dodici pezzi, tante chitarre di rara sontuosità, qualche effetto sonoro e un massiccio uso di microfoni ambientali lontano dalle pigre arditezze pop-country del filone pro-Taylor Swift.
Lissie- per quanto non manchi di citare fra le sue maggiori fonti di ispirazione Dolly Parton e Bobby Gentry -non somiglia a nessuna delle grandi countrysingers del passato, nè sembra interessata alla dimensione della vita da popstar contemporanea (lo dimostra il suo trasferimento da Los Angeles ad una anonima fattoria del Midwest, dove coltiva la terra e divide il proprio tempo fra animali, familiari e musica). Non prende in prestito standard o altra musica di repertorio, ma appronta un album suo al 101%. 
My Wild West suona subito come un classico straniato, aperto da una ouverture orchestrale vera e propri, dagli accordi al piano di Hollywood e dalla successiva Wild West. In questo trittico Lissie compie l'operazione di sintesi tra il suo West e la rappresentazione (hollywoodiana, per l'appunto) di una città che le ha spezzato il cuore e canta questo rito di passaggio in maniera impeccabile. Hero è il singolo di lancio, una piccola enciclopedia di vagabondaggi da road movie che però non restituisce la forza di quel bagaglio culturale e musicale sedimentato degli anni di ascolti, scritture, letture. 
Con Sun Keeps Risin', al contrario, eccede e firma un momento-capolavoro. C'è poco da fare: poca, pochissima musica risente di quell'energia, di quel vento che dà forma alle cose, per quanto si viva letteralmente circondati da note, rumori, suoni. Ebbene, Sun Keeps Risin' è una canzone palesemente vicina alla perfezione. 
Stay lotta contro il tempo e i tempi. Daughters è sfrontata, urlata e portata in fondo da un bizzarro, distortissimo assolo chitarristico. Together Or Apart è un capolavoro, uno di quei pezzi che fanno pensare a quando la musica ci imponeva di guardare negli occhi lo sguardo che rischiavamo di perdere per sempre. 
La conclusiva sequenza Shroud- Go For A Walk- Ojai torna a narrare quale spettacolo selvaggio, affascinante e anche triste è la vita. L'energia della voce di Lissie subisce un'ultima impennata, il suo country posteriore ad ogni tendenza e fiction televisiva va in scena col massimo di potenza e regala, in una seduta di solo voce-chitarra acustica, tutta la grandiosità di quella che Bob Seger (i cui migliori album torneranno alla mente degli appassionati più colti e preparati, per struttura e costruzione, ascoltando My Wild West) chiamava the famous final scene

mercoledì 17 febbraio 2016

"Vinyl", 1x01 [Recensione]

Sembrava una banale domenica di febbraio, e invece è stato un San Valentino di musica, sangue e bellezza. Mi sono bastati i cinque minuti iniziali per capire che, con Vinyl di HBO, Terence Winter e Martin Scorsese (coi soldi del baronetto di Sua Maestà Mick Jagger) stanno realizzando il più straordinario atto d'amore che si sia mai visto sul rock in televisione. Questo episodio pilota di 112 minuti restituisce un'immagine doppia del più grande momento che un determinato genere di musica abbia mai conosciuto: la compattezza energetica del presente e l'incognita di un futuro fratturato e disperso, come un Frankenstein non tanto casualmente proiettato a casa di Buck Rogers, l'uomo che ha portato il rock&roll nelle radio di tutta America. Vinyl non è- nè, credo, sarà -un documentario in odore di cinema come Woodstock o Gimme Shelter, nè un epico film concertistico accostabile a The Song Remains The Same o a Live at Pompeii. Lo stesso Scorsese, regista inimitabile di questa prima puntata (una prova riuscitissima, al contrario del pilot di Boardwalk Empire, sempre di Winter, sempre su HBO), non spolvera i panni dell'autore elegiaco di The Last Waltz, non vaga per le strade del Villagge come in No Direction Home, nè supera se stesso come successo con Live In Material World. Semplicemente, Scorsese fa ciò che gli riesce meglio da sempre: racconta le storie del potere, quelle di chi è arrivato in cima e deve rimanerci a qualunque costo. Che siano mafiosi, broker falliti o produttori discografici (e Bob Cannavale, protagonista di Vinyl, è Richie Finestra ed è, appunto, il presidente di una casa discografica) poco importa. 
Non ci è ancora dato sapere cosa accadrà a Richie Finestra, nè se la sua caduta luciferina avrà luogo o meno nel corso delle dieci puntate di questo show. Siamo appena all'inizio, in una New York che miscela Taxi Driver, Fuori orario, Al di là della vita e perfino un po' di Shine A Light. Manca solo Paul Schrader a battere a macchina. 
La colonna sonora è perfetta. 
Il prato di Woodstock è lontano, la regia splendida è tragica. 
Sulla West Coast il sole sta tramontando, ma a New York è già notte. 
E tutto lo spettacolo del rock finisce col somigliare alla vita quotidiana stessa di un singolo giorno. 




martedì 16 febbraio 2016

Perfetti sconosciuti [Recensione]

Esistevano, un tempo, in Italia, i film generazionali. Produzioni piccole, ben scritte, ben dirette, ben interpretate. Molte delle pellicole prodotte dalla fine degli anni Ottanta in poi e assurte al rango di cult movies appartengono a questo genere: Marrakech Express di Salvatores, Compagni di scuola di Verdone, Italia-Germania 4-3 di Barzini, Ferie d'agosto di Virzì sono solo alcune delle tante. Addirittura, negli anni Novanta, visto l'ottimo potenziale commerciale, storie di questo genere andarono moltiplicandosi, con qualche buon risultato e anche tante ciofeche (ciofeche contro cui si scagliava anche il buon Nanni nel primo episodio di Caro diario).
Poi c'è stato il passaggio del testimone: dai quaranta-cinquantenni dalla generazione sessantottina che si lecca le ferite, siamo passati ai quarantenni in crisi provenienti da altre epoche e il cinema è tornato a interessarsene. Paolo Genovese, romano, classe 1966, ex-pubblicitario, ha raccontato i quarantenni di oggi già con il suo Immaturi (2011), e da allora non si è più fermato. Purtroppo.
Con lo stratosferico numero di 7 lungometraggi usciti dal 2010 ad oggi, Genovese è il regista italiano più prolifico in circolazione. Eterno debitore verso la commedia francese e spagnola, è tornato a raccontare la propria generazione con Perfetti sconosciuti, dove sette personaggi a cena in una casa borghese mettono i cellulari sul tavolo e rendono la propria vita privata di dominio pubblico (nulla che non si sia già visto nel più riuscito Cena fra amici di Alexandre de La Patellière). Mentono, si scontrano, soffrono. Sono coppie di gomma (nel senso che sembrano di plastica, tanto la raffigurazione scenografica e registica appare artefatta, come è consuetudine nel cinema di Genovese), personaggi stereotipati e messi di fronte a sofferenze scaturite da luoghi comuni televisivi piuttosto che da un'attenta osservazione della realtà in cui viviamo. 
E' ovvio che il rapporto umano (e, in particolare, il rapporto di coppia) 2.0 sia frutto di malesseri sociali e culturali e che possa basarsi quasi esclusivamente sulla menzogna e l'ipocrisia: ma la fonte di questo malessere Perfetti sconosciuti la liquida velocemente, adducendo ogni colpa ad uno strumento potente e stupido come uno smartphone. Il dramma da camera, recentemente riproposto da Tarantino, Polanski, Archibugi (Il nome del figlio, sotto tanti punti di vista, è stato un film enormemente più coraggioso e politico di quello di Genovese) e compagnia bella, è qua poco più di una macchietta narrativa, un'ambientazione priva sia di forza che di bellezza e che nemmeno si prende la briga di fungere da metafora di un'era.
Chi esalta il cast, l'eleganza della sceneggiatura e la costruzione dei personaggi, forse farà bene a sintonizzarsi meno sul primo canale RAI durante il giorno, perchè qua non siamo in zona A un passo dal cielo, ma poco ci manca. I dialoghi che vorrebbero essere sconci ma non ce la fanno sono ormai una costante di queste deleterie produzioni con cui inforcare un pubblico largamente composto da professionisti cattodem noiosi quasi quanto i protagonisti del film. E poi c'è sempre la solita fotografia di merda, gli uomini devono per forza avere la barba e/o i baffi (tranne Mastandrea, falso omosessuale simulato e incazzato) ma senza possedere neanche i lineamenti. Imbarazzante la chiusura à la Nolan.
Perfino l'eclissi di luna- durante la quale mi è piaciuto pensare ad Antonioni, salvo poi vedere Giallini che sputtana tutto citando, ma va', i Pink Floyd -è photoshoppata.

domenica 14 febbraio 2016

L'ultima parola- La vera storia di Dalton Trumbo [Recensione]

Il primo aggettivo che mi sovviene ripensando a L'ultima parola- La vera storia di Dalton Trumbo è "encomiabile".
Una biografia asciuttissima, girata da Jay Roach con mezzi semplici e di certo senza eccessi di estro ma totalmente nelle mani dei suoi interpreti: Brian Cranston è Dalton Trumbo, negli anni '40 lo sceneggiatore più pagato di Hollywood (e quindi del Mondo), negli anni '50 un sovversivo radicale fieramente iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti e per questo ostracizzato, schedato e- dal 1950 al 1951 -incarcerato come nemico del paese più democratico del sistema solare. Nonostante tutto, grazie al proprio talento, alla propria furbizia e all'indissolubile fede nei propri ideali, continuerà a scrivere film di ogni genere avvalendosi di pseudonomi (Robert Cole, Jack Davis, Robert Rich) e prestanome e vincendo addirittura due Oscar (uno per Vacanze Romane, l'altro per La più grande corrida). A riabilitarlo ci penseranno, negli anni '60, un regista (Preminger), un attore (Kirk Douglas) e due film in cui il suo nome tornerà a comparire nei titoli: Exodus dello stesso Preminger e Spartacus di Stanley Kubrick. 
Intorno a lui si sprecano e radunano grandi attori e grandi nomi: Helen Mirren nei panni della potente giornalista-stregha di tabloid Hedda Hoppper, John Goodman in quelli (magnifici) del produttore di serie B Fran King, Christian Berkel è Otto Preminger, Dean O'Gorman è preoccupantemente identico a Kirk Douglas (al contrario, David James Elliott caratterizza bene il cervello e il garbo di John Wayne, ma appare molto diverso sul piano della fisionomia), mentre Diane Lane ed Elle Fanning regalano prove diverse e molto convincenti nei ruoli della moglie e della figlia di Trumbo.
Ci sono alcune modifiche alla biografia ufficiale (i Trumbo, ad esempio, andarono a vivere in Messico e non in un sobborgo losangelino) e un paio di passaggi di eccessivo sentimentalismo familiare potevano essere risparmiati, ma tutto il film riesce a restituire la grandezza di Trumbo come sceneggiatore, pensatore e uomo. Filmati d'epoca, interviste e documenti magistralmente impiegati.
Ancora una volta, alla Fabbrica dei Sogni viene restituito il suo volto nascosto e forse più autentico, quello della Fabbrica degli Incubi, del controllo, del degrado e della mancanza di possibilità. 
L'ultima parola è un film amorevolmente di parte e vergognosamente autentico (pensateci, questa è storia recente), e chi- come me -porta nel cuore il lavoro di Trumbo grazie a film come Solo sotto le stelle, Vacanze romane e Papillon non rimarrà indifferente.

venerdì 5 febbraio 2016

Dream Theater, "The Astonishing" [Suggestioni uditive]

Dream Theater,
The Astonishing
(Roadrunner Records, 2 Cd, 2016)













Una delle diramazioni più significative e di maggior successo nella storia del Metal fu quella più tardi battezzata Progressive Metal. Il metallo progressivo nacque nel 1986 dalle ceneri calde della NWOBHM. Nello stesso periodo i confini della musica metal si ampliavano attraverso la sperimentazione e nascevano i sottogeneri: trash, death, black, street, noise. Fino a quel momento le radici dell'Heavy Metal erano state saldamente piantate nell'hard rock di matrice classica, ma uno dei nuovi assiomi del genere ad imporsi a metà anni Ottanta era la contaminazione: con il jazz, con la musica classica, con la musica world, perfino col pop e col folk. Come già successo nel Progressive dell'età classica (King Crimson, Pink Floyd, Genesis, Yes, Rush), l’importante era  abbattere gli steccati: la musica, pur nella sua costituzione metallara, non doveva più necessariamente essere modellata in una forma canzone, non doveva più necessariamente durare i tre o quattro minuti di un 45 giri o di un cd single, e il suo scopo principale non doveva più essere quello di finire nella classifica di vendita o di ottenere un video da mandare in rotazione su MTV. L’idea era piuttosto quella di un Heavy Metal pensato all'insegna dell'arte, dell'impegno, del virtuosismo e dei tempi dispari.
I gruppi di punta risultarono essere, sin da subito, quelli dei veterani Savatage e dei giovani Majesty, che nel 1987 cambiarono nome in Dream Theater, su suggerimento del padre del loro batterista, Mike Portnoy. Questi ultimi furono lanciati dalla MCA col ''difficile" When Dream And Day Unite (1989). La formazione non offriva più il tipico ''quadretto'' di basso, batteria e chitarre elettriche, e mentre diventavano co-protagoniste le tastiere, facevano la comparsa effetti sonori inusuali come flauti, violini più o meno elettrificati e redivivi sintetizzatori (primo fra tutti il Moog). La primavera del Progressive Metal sarebbe durata un lustro, a partire da Hall Of The Mountain King (1987) dei Savatage, No Exit (1988) dei Fates Warning e, appunto, When Dream And Day Unite dei Dream Theater, per poi approdare in Europa grazie ai tedeschi Dreamscape, agli svedesi Pain Of Salvation e Opeth, e perfino in Sud-America, grazie ai brasiliani Angra. Dopo l'arrivo di grandi e geniali band che rispondevano ai nomi di Tool e Dark Tranquillity (e che non si limiteranno a pascolare nell'orticello del Progressive),  la spinta propulsiva di questa variante evoluzionistica del metal si adagiò sul suono kitsch dei sintetizzatori e sulla velocità di esecuzione di tastieristi e chitarristi, fino a insabbiarsi nelle secche della noia e del virtuosismo, ed essere spazzata via dal giorno alla notte- come già accaduto ai famosi "dinosauri" uccisi dalla new wave e dal punk -dal ritorno a forme più essenziali (i radiofonici Shadow Gallery fungono da valido esempio) e da una miriade di altri sottogeneri più popolari, semplici o modaioli.
È paradossale come la cosiddetta scena nu-progressive metal, comparsa nel nuovo millennio, sia in realtà quanto di più palloso e lontano si possa immaginare dalle motivazioni di partenza del metallo progressivo. La stragrande maggioranza dei gruppi nu-prog (e, paradossalmente, anche una buona fetta delle band storiche ancora in attività, Dream Theater su tutti)  non sperimenta nulla, ma si diverte a suonare avvitandosi in un lunghe suites pretenziose e barocche, i cui ingredienti sono melodie banali, power metal di bassissima lega e virtuosismo strumentale. Una musica da nerd di fronte alla quale non c’è da sorprendersi che la parola progressive evochi al tempo stesso nostalgia e sorrisi di compatimento.
Ma così non era nei magici anni in cui i Dream Theater sfornarono album come Images And Words, Awake, A Change Of Season, Falling Into Infinity, Scenes From A Memory e Train Of Tought, dischi con cui John Petrucci e soci si guadagnarono rispetto e autorevolezza. Quelli che fra il 1989 e il 1992 fissarono le regole del progressive metal, ispirando i percorsi creativi di tanti altri grandi gruppi al di là e al di qua dei due oceani. Gli stessi che si abbandonarono, fra il 1997 e il 2008, a una serie di esperimenti paralleli solisti o di gruppo; progetti che hanno offerto alternative validissime, ma che sono serviti soprattutto ad allungare il brodo di un'ispirazione calante, come dimostrava già Octavarium (2005). Nel 2009 è stato dato alle stampe l'ultimo disco dei Dream di ottima qualità, ovvero Black Clouds & Silver Linings, che sembrava però destinato a rappresentare il canto del cigno della band. Mike Portnoy, infatti, pareva aver perso la voglia di giocare al batterista prog per eccellenza dichiarando ufficialmente la propria uscita dal gruppo. Era il 2010, la band restò unita e, per quanto i fans più incalliti possano starsene ore a sproloquiare su assurdi confronti, la sostituzione operata con Mike Mangini aveva in partenza ben poco a che vedere col declino artistico dei Dream Theater. A Dramatic Turn Of Events (2011) e l'insipido, desolante Dream Theater (2013) sarebbero stati mediocri album anche se vi avesse suonato la batteria il fantasma di John Bonham. 
Destino ha voluto che John Petrucci- nelle poche ore che la chitarra e il body building gli lasciano libero -iniziasse a scrivere una storia che fondeva 1984Il trono di spade e Guerre Stellari, buttandoci di mezzo, come pretesto, il Dono (the Gift) della Musica. Da questo soggetto partiva la lavorazione del nuovo, doppio album del gruppo: The Astonishing, rock-opera futuristo-distopica in due atti e trentaquattro brani accompagnata, in sede di promozione, da un videogioco di ruolo che ne presenta trama, personaggi e sviluppi. La stesura dei brani, operata da Petrucci e Rudess, è stata lunga e tortuosa, specie perchè  l'astuto John prendeva l’iniziativa di sovrincidere le demo domestiche delle due chitarre con la propria voce, facendone delle canzoni, e poi, non pago, di passare i nastri a James ''Inutile'' La Brie, che apprendeva, obbediva e cantava, allo scopo che anche John Myung incidesse. Infine le trentaquattro scenette, risultato di tanto sforzo, sono state passate al trattamento della sezione ritmica del bisfrattato pellaio Mangini e del direttore di orchestra David Campbell. Insomma, The Astonishing è nato come una di quelle torte a strati, in cui più gusti, sovrapponendosi o possono dar vita ad un unico omogeneo sapore o ad una melassa informe e disgustosa. Le registrazioni, tornate a Petrucci e Rudess, li hanno sbalorditi, portandoli a dichiarare di trovarsi di fronte uno dei dischi dei Dream di cui vanno più fieri.
Il disco non è affatto male. Anzi, in questi tempi di scarsità, è pure piacevole. Certo, gli uggiosi nerd che non escono di casa per studiare gli effetti della pedaliera di Jordan Rudess e che magari non hanno mai ascoltato mezza canzone dei Van Der Graaf Generator prenderanno colore e palpiteranno, ma resteranno a bocca asciutta per quanto riguarda le consuetudini virtuosistiche di Petrucci, che forse si era venuto a noia da solo. Per le parti cantate La Brie non rompe troppo l'anima, mentre David Campbell può dirsi, in un certo modo, il ''sesto elemento'' del disco, con una direzione dei motivi orchestrali sobria, mai sperimentale o ardita e anzi molto orecchiabile. Mangini ha finalmente conferito al suono delle proprie pelli un'aria moderna con la sua batteria agli antipodi di quella che suonava nei due album precedenti e più vicina- deo gratias -a quelle degli anni Settanta a cui il disco sembra maggiormente ispirarsi. 
I fans hanno accolto la colossale sorpresa a corrente alternata: quelli del suono più scuro e technical dei Dream anni Duemila hanno storto il naso, i nostalgici di A Change Of Seasons e di Scenes From A Memory hanno apprezzato. Io sono, per la prima volta dopo diversi anni, con Petrucci: il disco non sarà un capolavoro, ma è di una pregevole fattura e di una rara piacevolezza. Potrebbe lasciare sperare in un intero nuovo capitolo per la banda del Teatro del Sogno, considerando che, di regola, i cicli creativi di Petrucci&co. vanno di dieci anni in dieci anni.

giovedì 4 febbraio 2016

The Hateful Eight [Recensione]


Devo ammettere che avevo lasciato un po' perdere tutte le questioni sorte intorno alla lavorazione dell'ottava pellicola di uno dei più grandi registi viventi. Non per nulla, ma mi ero stufato di leggere articoli che parlavano solo di sceneggiature rubate, produzioni ritirate, litigi, agenti licenziati, ripensamenti e altri casini che con la Settima Arte hanno poco o niente da spartire. In aggiunta, non si può dire che questo film abbia goduto di eccessiva pubblicità e il fatto che Tarantino in persona abbia declamato un lungo monologo contro il monopolio distributivo della Disney non ha di certo facilitato le cose. Insomma, avevo sistematicamente optato per non essere a conoscenza di troppi dettagli di trama e contenuti, e le uniche cose che sapevo di The Hateful Eight erano i nomi di metà del cast, il fatto che Morricone fosse tornato a scrivere musica originale per un film western (o meglio, di ambientazione western) dopo quarant'anni e che era stato girato tutto su pellicola Panavision Ultra 70mm.
Quella superba sfilza di panoramiche fisse che anticipa, in un silenzio tombale, i titoli di testa basta a descrivere l'ambientazione e lo spirito che permea tutto il film: un mondo gelido, innevato e- come suggerirà poi il personaggio di Michael Madsen -in pieno periodo natalizio. E' come se Dio o chi per lui avesse deciso di spandere neve sulle praterie inquadrate nel prologo di Non è un paese per vecchi. La prima forma umana mostrata è un crocifisso in legno,  anch'esso cosparso di neve e fisso ad un crossroad invisibile. Poi inizia la sfida di Tarantino, la stessa sfida che ha già portato a teatro e che neanche considerava più di fissare su pellicola. La sfida è, in particolare, rivolta a uno dei romanzi più celebri di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani. Come in quel libro (e nelle sue innumerevoli trasposizioni), un enigma, apparentemente irrisolvibile, e un clamoroso colpo di scena sono i punti cardine di uno script che, partendo da una felice intuizione in perfetto stile Le iene e trasportandola- con le opportune e geniali modifiche -nel selvaggio west del dopoguerra di Secessione, approda ad una situazione che odora di Alfred Hitchcock, Howard Hawks e, di conseguenza, di John Carpenter. Anzi, l'influenza di Carpenter e della sua Cosa si spinge anche oltre, e non mi riferisco solo alla neve, all'immenso Kurt Russell e ad un particolare genere di cappello, ma anche alle musiche (Eternity, Bestiality e Despair, sempre di Morricone e tratte proprio dalla The Thing OST, riaffiorano, quasi impercettibili, sul finale), all'atmosfera e al fatto che, a livello di storia, nessun personaggio finisce col fidarsi di nessun altro. Il west di John Ford latita, e gli spaghetti sono un ricordo ancora più sfocato di quanto non lo fossero in Django Unchained, laddove il western diventava più un southern. Il lungo addio agli omaggi a Sergio Leone si è davvero definitivamente consumato in quel gigantesco campo largo con cui si apriva Bastardi senza gloria e qui arriva per il cinefilo Quentin il tempo di tornare all'infanzia, alle puntate speciali di shows come Bonanza, Il virginiano e Ai confini dell'Arizona. Tarantino incontra il kammerspiel e lo dilata, si trastulla con tutte le sue forme e i suoi meccanismi, manco fosse un bimbo nella camera dei giochi. Gira con la naturalezza e la disinvoltura professionale di tutto ciò che ha girato dopo A prova di morte, dirige equamente attori di serie A (Kurt Russell, Eli Roth, Samuel L. Jackson, Bruce Dern) e di serie B (Walton Goggins, Michael Madsen, Demiàn Bichir e Jennifer Jason Leigh). Toglie spazi, attori, personaggi, musiche e dinamiche, ma al contempo ridimensiona aspetti più sottili e non meno importanti (la durata, la pellicola, il sangue). Folle e tecnicamente geniale la sfida di utilizzare il formato panoramico ed epico per eccellenza (il 70 mm) per un film che è girato per tre quarti in interno. Ardita e riuscita la scelta di commissionare- per la prima volta nella sua carriera -un commento sonoro originale (commento che ha già valso un Golden Globe a Morricone e rappresenta una delle due striminzite candidature agli Oscar di The Hateful Eight) e di sfruttare solo tre canzoni, fra l'altro molto lontane fra loro e diversamente affascinanti: Apple Blossom dei White Stripes, la ritrovata Now You're All Alone di David Hess (che da craveniano ammiratore de L'ultima casa a sinistra non ho potuto fare a meno di riconoscere) e un oscuro pezzo di Roy Orbison che si intitola There Won't Be Many Coming Home. Non rinuncia a far sentire la propria vocina nei panni del narratore (nell'originale, si capisce), nè ai suoi attori del cuore, James Parks e Zoe Bell. Dissemina la propria mappa di indizi e citazioni come fa da quando lavora nel cinema e trova anche il tempo di far udire due vecchie canzoni piratesche (non avrei trovato nulla di strano se il film fosse stato ambientato al tempo dei pirati, coi personaggi chiusi nella balera di qualche porto franco, e fuori una bella tempesta tropicale). Si concede licenze poetiche che solo lui sa di potersi concedere (quando mai si è visto mezzo ralenti in un dramma da camera à la Ingmar Bergman?) e non si ripete mai. Perchè The Hateful Eight non è l'epico, appassionato seguito di Django Unchained, nè vuole rappresentare il terzo capitolo della fasulla trilogia inaugurata dai Bastardi e inventata esclusivamente da giornali che non di cinema parlano ma di futilità culturali assortite. E' un film totalmente a sè, il più lungo mai girato dal proprio autore (sia che lo si prenda nella versione standard da 170 minuti che in quella da 187) e che fa tesoro in partenza della numerologia. L'ottava pellicola del regista, ha otto protagonisti che si dividono su quattro (la metà di otto) tematiche principali che raccontano sia il passato che il presente. Tarantino, da vero american author, sa e ammette che il western è il genere con cui si può raccontare meglio la contemporaneità. Il crudo ed esasperato pessimismo che accompagna tutto ciò che ancora respira e sopravvive dentro una baracca di legno nel cuore di una notte innevata potrà sembrare un ingrediente nuovo e perfino inusuale nel menù del suo autore, ma non è così. Perchè Tarantino non solo ha ripreso in giro tutti girando un western che non è un western, ma è tornato, in qualche modo, dentro a quel garage di gangster bugiardi in cui era iniziata la sua meravigliosa carriera. Quasi venticinque anni fa.