domenica 31 dicembre 2017

L'anno che verrà [Extra]

Verso il 2018, e oltre.
Anche il natale 2017 è stato inghiottito dal passato, come del resto ogni altro secondo della nostra vita. Largo al 26 dicembre, che è terra di nessuno, un giorno per spiriti solitari. E' un momento di ventiquattro ore in cui il Natale finisce definitivamente. I negozi restano chiusi, i bar pure, i ristoranti idem. Gli unici contatti col genere umano restano le telefonate, i social, i messaggini. Inutile sottolineare che io sia assai poco ipnotizzato da tutti questi strumenti: da luglio poi sono tornato a possedere con una certa fierezza un cellulare, uno di quelli che telefonano, mandano SMS e non hanno bisogno nè di aggiornamenti performativi nè di un allaccio perenne ai tralicci dell'Enel per restare carichi e far dormire di conseguenza sonni tranquilli ai loro proprietari. Ho così ulteriormente dimezzato le mie possibilità di essere perennemente e inutilmente connesso. Essendo il giorno di Santo Stefano, posto su Facebook la prima strofa e il video di St. Stephen, crogiolandomi nell'efficacia di quel quasi capolavoro che è l'intero Aoxomoxoa. Roba pensata per riavvicinare l'uomo- ormai povero dentro -al suo vero io, mettendo in crisi certe sghembe convinzioni in cui la società ci ha imprigionati: sarà per questo che i likes faticano a concretizzarsi?
I commenti che si sentono e si leggono in questo periodo sono più o meno tutti uguali, sia che si tratti della blanda ipocrisia cattolica degli auguri sacri che del distaccato e altrettanto ipocrita cinismo anti-festività. In entrambi i casi a farla da padrona è l'insicurezza, la stessa per cui, col passare degli anni, continuiamo a far indurire la nostra scorza fino a giungere a un simbolico paradosso: per vivere meglio il presente dobbiamo rinunciare alla felicità completa e priva di condizioni del passato. Questo ho imparato da tutti i natali, santistefani, santelucie e capodanni cui ho partecipato: da percepire la festività come un'attesa (nel mio caso laica, sebbene un caro amico, credente di ferro, mi rassicura che dio non si è ancora stancato degli uomini) sono passato a celebrare una festa per l'anima della strada che è in me, una ricorrenza dove mi ritrovo a organizzare e passare in rassegna amicizie e conoscenze di tutta una vita. Per alcuni giorni sono investito da una serie intensa, quasi violenta di flashback e film mentali, sogni che sono sicurissimo di avere fatto poche notti fa ma che, in realtà, sono vecchi di anni e anni.
Se mi avventurassi nella scia
fra i viadotti del tuo sogno
dove immobili cerchioni di acciaio schioccano
e il fossato nelle strade secondarie mi ferma,
potresti trovarmi?
Baceresti i miei occhi?
Per stenderci giù
in silenzio, lentamente.
Per rinascere
dal lato opposto dell'oceano.
Per quanto in queste settimane astrali viaggi- giusto appunto- "in modalità Van Morrison", non posso mancare l'appuntamento con la musica dal vivo. Al Tortuga scendono da Castellina in Chianti alcuni membri degli ex-Modulo 101, storica punk band valdelsana, in una veste praticamente inedita e con una formazione affettuosamente denominata Lillo & i suoi Ramoni. Un'ora di fuoco e fiamme del repertorio Ramones, nessuna grossa sorpresa e la voce del cantante pericolosamente troppo filtrata da mixer ed effettistica. Quello che ci vuole prima di far salire gli Spoffish, che conosco personalmente e che sono venuti a pagare il tributo ai Clash e alla poesia di Joe Strummer. Insomma, il materiale portato (in maniera impeccabile) sul palco è quello che io considero uno dei massimi punti di arrivo di tutto il punk. L'approccio della band, vuoi per l'età, vuoi per le differente esperienze musicali precedenti, si rivela molto più in linea con ciò che Strummer fece negli ultimi anni di vita coi Mescaleros che non con Mick Jones e soci. Potrebbe suonare come una critica, ma non lo è: anzi, se si vuol essere obiettivi, è la miglior virtù di un gruppo come gli Spoffish.
Resta il fatto che l'inverno è bello, sì, ma da Santa Lucia a Natale, poi diventa noioso. Già Capodanno non lo capisco molto: che ci sarà da festeggiare in un altro anno che se ne va? E poi, diciamocelo, far finire l'anno il 31 di dicembre e farlo iniziare il 1 gennaio è una cazzata di proporzioni abnormi: sono due giorni assolutamente identici. Mediamente detesto il 31 dicembre, in quanto unica sera dell'anno in cui, se vuoi cenare, devi ordinare venti portate, oltre a essere quella in cui muoversi all'aperto è un revival della guerra in Vietnam. Inutile aggiungere che a me dell'ultimo dell'anno 2017 importa assai poco, ma, se qualcuno disponesse di una macchina del tempo e di un paio di biglietti, me lo faccia presente. La voglia di un salto indietro di una quarantina d'anni ce la potrei avere, così come avrei chiara la destinazione: il Winterland di San Francisco il 31 dicembre 1978. Sul palco si susseguono Quicksilver Messenger Service, Blues Brothers e Grateful Dead, che in questa occasione tengono uno dei concerti più lunghi della loro carriera. John Belushi e Jerry Garcia. Vite spericolate a modo loro. 
Concludo l'anno postando L'anno che verrà di Lucio Dalla. Conclusione della madonna di un disco della madonna (l'omonimo Lucio Dalla). "Chi se ne intende" storce la bocca di fronte al Lucio degli anni Ottanta, io no. Ma "chi se ne intende" snobberebbe anche ... And Justice for All, perchè "Cliff Burton era già morto" e i Metallica stavano vendendo "troppe copie" dei loro dischi. Mi sono sempre divertito a far incazzare queste persone, quindi lo dico apertamente: Lucio Dalla e Dalla non sono meno belli della trilogia prog-rock scritta con Roberto Roversi (Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili), mentre 1983 è innovativo come lo era stato, sei anni prima, Com'è profondo il mare, pur senza eguagliarne la stoffa di capolavoro. Sarei in grado perfino di salvare buona parte dei duetti di Dalla/Morandi, ma meglio che mi fermi qua. Come ho scritto su Facebook, chi non si emoziona veramente ascoltando L'anno che verrà non ha cuore, e probabilmente non ha anima e neppure orecchie. Oppure ha l'attenuante di non conoscere l'italiano.



















 

domenica 24 dicembre 2017

Cronache natalizie dal pianeta perduto [Extra]

Aspetto la Festa del Sole, più che la nascita del povero Cristo, che- è ormai appurato -nacque distante da neve e gelo. Nessuna stella tremolò sopra il capanno dove la vergine Maria (guai a dire che la mammina non si chiamasse Maria e il babbino non fosse tal Giuseppe, di professione falegname) lo dette alla luce, per non parlare dei re Magi: che fossero tre e che arrivassero dal buco di culo del mondo è una spicciola credenza popolare, portata avanti, fra l'altro, da chi non ha manco mai letto il Vangelo secondo Matteo. Altrochè "oro, incenso e mirra"! Fra lavoro, peregrinazioni limitatamente consumistiche, aperitivi e cenoni trovo il tempo per mettere il computer a scaricare una versione .flac di 30 Trips Around the Sun che, all'apparenza, sembrerebbe completa, sicura e non ingannevole. Giga e giga di materiale, oltre 73 ore di musica, roba che- se il download dovesse andare in porto -mi fa prefiggere l'ascolto di almeno due concerti dei Dead alla settimana: una stima fatta, troppo incautamente, già nel 2015, quando il box fu pubblicato e io (manco a dirlo, misero, tapino e sprovvisto di 700 dollari) decisi di reperirlo nelle profondità del cyberspazio, imbattendomi in cartelle .rar vuote, file .zip compromessi, sparuti e insufficienti mp3 che, alla fine, mi dissuasero da proseguire le ricerche. La faccenda parrebbe essere andata in porto. Ora per potermi avvicinare all'originale manca solo di masterizzare ottanta cd-r, ricostruire la scatoletta di legno, decorarla  e curare, una a una, trenta confezioni digipak, dopodichè è fatta.

Approfittiamo della penultima domenica d'avvento per visitare, a Firenze, mio nonno paterno, fresco dello spegnimento di ben novantuno candeline. Festa di compleanno fissata per pranzo. Una cosa ristretta solo a noi, ma efficace e in grado di allietarlo, lui che- comprensibilmente -tende a rincorrere pensieri sempre più funesti man mano che l'età si avvicina senza mai però scadere nel banale rompimento di coglioni. Guardandolo, posso solo sperare che il sangue non sia acqua: la testa c'è tutta, l'autonomia di movimento anche. Nel pomeriggio lo salutiamo e facciamo un giro piacevolissimo in centro. Molte famiglie, gente paradossalmente e apparentemente felice e rilassata, qualche coppia con lei impellicciata e siliconata e lui attempato tronista talmente unto da risultare inagguantabile. C'è una luce meravigliosa, l'aria è fredda ma piacevole e io riesco- nel caos dei consumi -a trovare due, tre strenne a prezzi accessibili: il che mi rende molto contento. Devo dire che la positività di domenica e, in generale, dei giorni che precedono l'arrivo effettivo dell'inverno mi accompagna per tutto l'inizio della settimana. Anni che non capitava.
La domenica sera a cena, di nuovo, si torna sull'argomento Manuel Agnelli. "Povero me, povero me!", per dirla col Ciccio. Questa storia inizia ad assumere dei contorni onirici: possibile che chi mi sta vicino non abbia ancora capito che a me fanno cacare Agnelli, la sua musica, i suoi capelli malamente tinti, i libri in cui consiglia la marca che produce il tubetto di balsamo più adatto per infilarselo in culo, ciò che rappresenta e il ruolo che svolge? <<Oh, però- senza offesa, eh -ma te, me e tanti altri, alla fine ad Agnelli, bisogna lustrargli le scarpe se si parla di musica...>>, mi sento dire. Ora, sarà che io non sono un lustrascarpe, sarà che la persona in questione può permettersi di prendere con me questa e ben altre confidenze, ma un po' ho rimuginato sulla replica e, alla fine, ho optato per farmi una risata e abbandonarmi a un perentorio <<E allora 'fanculo, ti lascio in compagnia di quell'altri!>>. Del resto, a natale siam tutti più buoni e, deo gratiasX-Factor sta per concludersi. Il lato alternativo della giuria perderà tutto il possibile: trionferanno quella megera della Maionchi e, con lei, un'idea di "bel canto" tutta italiana, feroce, reazionaria, terrificante, folkloristica. Io e la mia amica Martina (che al contrario di me trova fegato e tempo per seguire quella spazzatura griffata Sky) vorremmo comunque indire un cocktail party al solo scopo di festeggiare la sconfitta di Levante, nemesi che ci ha accomunati per tutto il 2017. Alla fine ci limiteremo a un brindisi solitario. Lei mi invia un articolo molto ben fatto e io improvviso un discorso forse un po' contorto, tramite cui cerco di esplicare che  il problema di fondo è che non sussiste più differenza fra guardare una puntata di Che tempo che faX- Factor Dalla vostra parte. Tutti e tre sono programmi "politici"- perchè se la politica non è tutto, tutto è politica -e da tutti e tre emerge chiaramente che gli italiani hanno (e guardano) ciò che meritano.
Negli stessi giorni, si accende il dibattito su Selvaggia Lucarelli neo-direttrice della versione digitale di Rolling Stone. Appare evidente da subito che nessun hater (tutti dichiaratamente di matrice arrocchettato-metallara) abbia mai letto l'immonda edizione nostrale di una rivista che già nella madre patria non è che goda propriamente di grande credibilità. Anzi, diciamo direttamente che Rolling Stone Italia è paragonabile, come contenuti, pubblicità e capacità di approfondimento, al tristemente noto settimanale Cioè. Solo che, in quest'ultimo, l'oggetto degli articoli sono tormentati e impossibili gossip su giovani star della rete e della televisione, mentre nel primo si dovrebbe, in teoria, leggere di musica, ma si finisce sempre col trovarne poca e mediocre. In USA possono dire che, seppur per un breve periodo, un Hunter S. Thompson lo hanno avuto, quando noi ci siamo limitati a Fabio Volo.  E comunque sarà arduo per la Selvaggiona nazionale fare peggio del suo collega "su carta" Massimo Coppola. Io poi non la amo, ma nemmeno la odio. Certo, mi fido poco di una che passa da una marca di carta igienica (Libero) a un'altra (Il Fatto Quotidiano) nel giro di mezzo governo breve, ma va tutto bene: è il giornalismo, baby! E ovviamente, come ripeto sempre, Gaber aveva ragione. Il mio unico appunto, tuttavia, da questo umile e inconsistente spazio, voglio muoverglielo: Lester Bangs, che in quello da lui ha definito il peggiore periodo della sua vita ha scritto anche per la rivista che la Lucarelli- seppur in digitale -sta andando a dirigere"allo scopo di rendere questo paese più rock",  si chiama "Bangs" e non "Banks". Da una parte, abbiamo un glorioso e controverso cronista musicale, dall'altra il capofamiglia del film Mary Poppins. Non è la stessa cosa.
Per fortuna il 21 dicembre arriva il solstizio. E pensare che, dalla notte dei tempi fino a tutta l'età romana, questa notte- la più lunga dell'anno -coincideva con la fine dell'anno solare. Poi è arrivato il cristianesimo a rompere i coglioni e addio ai ritmi naturali! Fatto sta che mi piace molto questa fase dell'anno, ingiustamente e sbrigativamente liquidata dai più ("persone facili che non hanno dubbi mai") triste e deprimente. Al contrario, mi piace provare a capire- inutilmente, purtroppo -se nevicherà come nel natale del 1995, o quante luci a intermittenza andranno di pari passo lungo il mio vialetto e, ovviamente, creare playlist a tema da regalare agli amici e alle amiche. Usanza vecchia di un decennio buono. Le primissime che ricordo contenevano, oltre ai miei consueti cavalli di battaglia dell'epoca (Iron Maiden, Bob Dylan, Guns N'Roses, Neil Young), molti bei pezzi di artisti non prettamente radiofonici (Bonnie Raitt, Jackson Browne, i Byrds, Eva Cassidy, i Doors, ecc.). In anni più intensi di quelli attuali lo scambio del cd natalizio era d'obbligo e spesso accompagnava ulteriori doni di carattere letterario, cinematografico e musicale. Oggi queste playlist vengono consegnate a una cerchia ristretta di amici e amiche in copia fisica, oppure mandate via dropbox. Le canzoni a sfondo prettamente natalizio, in realtà, sono ben poche, ma la selezione è fra le migliori che mi capita di redigere nel corso di tutto l'anno solare. Sarà che mi sento sotto una buona stella, il fuoco della vita arde e mi scuote anche quando la temperatura scende sottozero, certe immancabili paturnie esistenziali cadono sotto i colpi di fremiti ancestrali unici, ma arrivare alla vigilia di natale, anche quest'anno, è un attimo. Niente favolette su bimbi etiopi con occhi chiari e capelli biondi, niente presepi da difendere o alberi spelacchiati su cui improvvisare paragoni con l'amministrazione comunale che li ha installati: solo buon cibo, belle cose, buona musica e amici che si ritrovano per stringersi gli uni agli altri. Il che non è banale, vivendo su un pianeta sperduto nelle profondità dell'universo.

mercoledì 20 dicembre 2017

[Classifica] Best & Worst Albums 2017

top-ten albums

1- Gov't Mule, Revolution Come... Revolution Go (Fantasy Records)
2- Ambrose Kinmusire, A rift in Decorum: Live at Village Vanguard (Blue Note Records, 2 Cd)
3- Gregg Allman, Southern Blood (Rounder Records)
4- The Blue Note Allstars, Our Point of View (Blue Note Records, 2 Cd)
5- De Johnette, Medeski, Grenadier, Scofield, Hudson (Motéma Music)
6- Marty Stuart, Way out West (Superlative Records)
7- Cuck Berry, Chuck (Decca)
8- Gang, Calibro 77 (Rumble Beat Records)
9- Chris Hillman, Bidin'my Time (Rounder Records)
10- Charlotte Gainsbourg, Rest (Because Music)

best live album
Ryan Adams, Live at Rough Trade (Capitol Records, LP)


best cover-album
Ginevra di Marco, La rubia canta la negra (Funambolo Dischi)

best debut album
Miss Velvet & The Blue Wolf, Bad Get Some (Isotopia Records)

best box
Bob Dylan, The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More (Deluxe Edition) 
 (Columbia Records, 8 cd+ DVD)

best reissue album
Neil Young, Hitchhiker (Reprise Records)

best restrospective live album
Steve Winwood, Greatest Hits Live (Wincraft Records/Thirty Tigers, 2 cd)

best soundtrack
The Grateful Dead, "Long Strange Trip" Motion Picture Soundtrack (Rhino Records/Amazon, 3 cd)

best videoclip:
Gregg Allman, Song for Adam

worst-ten albums

1- Arcade Fire, Everything Now (Columbia Records)
2- Brunori Sas, A casa tutto bene (Picicca Dischi)
3- Carlos Santana & The Isley Brothers, Power of Peace (Legacy Recordings)
4- U2, Songs of Experience (Interscope Records)
5- Depeche Mode, Spirit (Columbia Records)
6- Father John Misty, Pure Comedy (Sub-Pop Records)
7- Foo Fighters, Concrete and Gold (RCA)
8- Queens of the Stone Age, Villains (Matador Records)
9- Mavis Staples, If All I Was Was Black (Anti Records)
10- Jovanotti, Oh, vita (Universal Music)



giovedì 7 dicembre 2017

La mediocrità contro la bellezza [Extra]

Mese delicato dicembre: lungo momento di bilanci, classifiche, giudizi, critiche, ripensamenti. Ma, soprattutto, un mese in cui più che mai emerge, nella sua totalità, lo scontro secolare fra bene e male, fra bellezza e mediocrità. Vi entro come sopravvissuto al famigerato black friday, che ho deciso di boicottare semplicemente infischiandomene. Mai stato cane di trovar nulla, senza poi contare che l'unico paio di scarpe che mi piace da un anno a questa parte non è scontato in nessuna parte del mondo globalizzato. Non dispero: magari me le porta Babbo Natale, complice l'avvicendarsi delle festività del Sole, unico, autentico motivo di festeggiamento del 25 dicembre (alla faccia della natività e del papaccio!). Ma, ahimè, dicembre non porta solo regali graditi, film fuori catologo presi in edizione dual disc al prezzo di una birra media, cesti ricolmi di cd di ogni genere, luminarie affascinanti a cui ognuno delega il significato che preferisce, e ancora vini, dolciumi, formaggi, libagioni. Purtroppo, tocca far fronte anche all'ipocrisia del "buon cristiano", a quelle usanze piccolissimo-borghesi che, anno dopo anno, perdono in credibilità e riguadagnano solo in inutilità. E' facile vivere in una comunità medio-piccola e imbattersi in merde umane caracollanti e contraddittorie che sai per certo ti ammazzerebbero se solo l'omicidio non fosse reato ma che, in questo periodo dell'anno, si sperticano in asfissianti riverenze e dolorose (per me, che vi assisto, e per loro, che ne sono prede) prostrazioni. Non c'è salvezza: dove mi sposto, dove mi piove addosso una scarica di dolente banalità. Si comincia già nel primo week-end del mese alla Coop, dove, in fila al banco gastronomia, incontro una lontanissima parente, diretta discendente di quel ramo familiare che, al contrario di tutto il resto dell'albero genealogico, si è un po' arricchito. <<Tante care cose a te e alla tua famiglia...>>, mi dice, mentre io, in nome della buona educazione, accenno un sorriso falsissimo ma, per non scendere al suo livello, mi limito a un semplice <<Grazie... altrettanto>>. E poi penso <<E adesso, bucaiola maledetta, lasciami solo, a ordinare la mia schiacchiata con le zucchine...>>. Segue un episodio che vede protagonista una coetanea dei miei, rinomata mitomane con una spiccata tendenza alla malattia immaginaria, nemica giurata di intelligenza e raziocinio come io lo sono di razzismo e giudici di talent-show musicali. Mancano più di venti giorni a natale, ma nel bar-pasticceria in cui la incontro lei è già intenta a trattare il prezzo di panettoni, pandori e torroni. Solo sentirla parlare mi fa venir voglia di ordinare il primo Negroni della giornata, ma- resomi conto che non è nemmeno mezzogiorno -opto per una spuma bionda e un tramezzino col tonno. Ostento indifferenza senza perderla d'occhio nello specchio dietro il bancone, ma mi riconosce comunque. Mi tempesta di domande sul mio presente a cui non lascia neanche il tempo di formulare una risposta, e, mentre cerco di pulire con un tovagliolino di carta gli angoli della bocca, è già passata  a predire il futuro: mio, suo, dell'intero paese. Un futuro dove, manco a dirlo, l'Islam stravince. <<Magari!>>, mi verrebbe da auspicare già solo guardandola. Passato l'interminabile momento di livore fallaciano, veste un sorriso di circostanza e chiosa con una frase ebete e violenta: <<Oh, allora buone feste e, se iddio vole, basta la salute...>>. A volte mi convinco di vivere il lungo, distopico incubo di qualcun altro. Comincio a temere che un mondo migliore non esista. E se perfino nelle poche ore di sole a disposizione di una domenica dell'avvento dovessi guidare fino al limitare di uno dei miei amati boschi per poi imbattermi in un conoscente pronto a sfoggiare il suo miglior <<Ti faccio tanti auguri ora che ci si vede, ma tanto ci rivediamo, sì...>>? Meglio non rischiare. Resto a casa ad ascoltare, in trip, uno dei miei pezzi preferiti tra i cento che adoro dei Jefferson Airplane: Trial by Fire. Una storia vera, si dice, di una fuga di un giovane bandito che muore in un incidente stradale, o qualcosa di simile. Quando uscì questo live- ma anche in tempi recenti -si scrisse che il gruppo non aveva più niente da dire (siamo nel 1972 e i Jefferson pubblicavano regolarmente già da sei anni). Quanti ne vorrei di gruppi che non hanno "più niente da dire" e decidono di dirlo in questo modo. 
Devo andare via sull'autostrada, far durare questo momento
perché si avvicini al futuro, mescolandosi col passato.

Gironzolando contento, cosa pensi che veda ?

Quella mano ossuta che ti chiama e mi dice <<Ragazzo, vieni con me>>.

Quel motore non è abbastanza robusto per superare la curva,

così giaci sulla schiena nel mezzo di un campo e vedi il tuo corpo bruciare. 
Comincio ad approntare, grazie ad iTunes, la playlist per la compilation dell'inverno 2017 da regalare a chi me la chiede (un'usanza ormai vecchiotta nel mio giro di amicizie), mentre, di quando in quando, controllo il mio account TicketOne. Un paio di buoni posti per Bob Dylan a Firenze ci sarebbero pure, ma preferisco aspettare, vedere cosa rimarrà nei prossimi mesi e, soprattutto, se e a quali prezzi verranno "ributtati" i biglietti per la platea numerata del primo settore. Non c'è fretta, nè sono stato in grado di trovare un'anima disposta a tenermi compagnia per l'ipotetica serata del 7 aprile. Tutti cementificati su Firenze Rocks, tutti ancora indecisi se prendere o meno dei biglietti che, mentre loro riflettono, sono già finiti, tutti non ancora rassegnati alla triste realtà, la stessa con cui ho dovuto fare i conti pure io (ossia che tutti i posti per l'equivalente del golden pit per il 15 giugno sono andati esauriti in fase di prevendita). Riccardino è l'unico che mi ha rincuorato, dicendomi che lui Dylan andrà a vederlo, ma a Modena, perchè un'amica gli ha regalato il biglietto per quella sera. Tuttavia, non mi sembra troppo coinvolto: forse non ama sufficientemente lo zio Bob, o forse- come molti -lo teme. In effetti, tutti i torti potrebbe non averli, ma anche lui era presente, come me, di fronte al palco degli Stones lo scorso settembre. Anche lui, da musicista e appassionato, è in grado di analizzare i fatti e di non fare di tutta l'erba un fascia. Visto che nella giungla dei social si leggono già i primi sproloqui su questa corposa sezione italiana del Never Ending Tour e arrivano da ogni dove paragoni fra Dylan e quelle che odiosamente vengono definite "vecchie glorie" (un termine di moda trent'anni fa), me la sento di fare una precisazione,  a prescindere che ad anno nuovo mi rechi o meno al concerto al Mandela Forum: confrontare la musica di Dylan con quella di un qualsivoglia gruppo rock non è folle, è da ignoranti (proprio nel senso latino del termine). Sostenere, a cavallo fra 2017 e 2018, che Dylan sia un vecchio bavoso che fa concerti per soldi significa non sapere di cosa si stia parlando, in quanto la sua produzione poetica e musicale non è confrontabile con qualsiasi altro gruppo o artista di derivazione rock and roll: sono due livelli diversi e mai sovrapponibili.

Nella notte fra il primo e il 2 dicembre rompo ogni indugio e mi iscrivo a neilyoungarchives.com. Sulle prime, tento via Facebook, ma il sistema deve essere intasato e compromesso, visto che per dieci minuti i miei dati non vengono nè assimilati, nè riconosciuti da questo gigantesco sito a cui il Loner ha lavorato (e ha fatto lavorare, mi sa) negli ultimi anni. Così, ricorro al mio account gmail e la cosa va in porto nel giro di alcuni secondi. Nella casella di posta elettronica mi arriva una mail di Neil, una lettera indirizzata e firmata che mi fa tremare le gambe e battere il cuore (<<Abelardo? Eloisa? tiè!>>). Leggo distrattamente una lista di istruzioni in inglese, salto a piè pari un video tutorial sempre in lingua e passo ad aprire gli archivi. L'interfaccia è una meraviglia. Imposto come preferita la modalità timeline, semplice e intuitiva. Non c'è traccia dei dischi perduti, ovvero quelli destinati- nel catalogo fisico -alla famosa SRS (Special Release Series), sulla quale, dall'anno dell'annuncio (2009), è stato pubblicato solo Hitchhiker (nel settembre scorso e per giunta come quinto cd della serie): tuttavia, nella sezione FAQ del sito, leggo che verranno messi presto. E' notte, ho le cuffie e non posso gustarmi la tanto sventolata qualità audio delle canzoni pervenute a tutto volume nell'impianto. Lo faccio l'indomani. Se mancavano ulteriori prove per dimostrare il fallimento di Pono e di tutte le strampalate teorie di Young sull'alta fedeltà nella musica liquida (recentemente si è distinto anche come sostenitore del progetto di streaming "di qualità" denominato Xstream), paradossalmente sono proprio i suoi archives a fornirle: le canzoni che possiamo ascoltare qui sono semplici file mp3 in risoluzione 320 kbps; poi, chiaramente, se spostiamo il cursore dalla sigla "320" su "Master" otteniamo lo stesso file in qualità 24bit, ma occhio a non avere il PC (dallo smartphone non è possibile accedere agli archivi se non tramite una app che sembrerebbe essere in arrivo) troppo occupato o sovraccarico. La risoluzione, in questo caso, diventa paragonabile a quella di un cd semplice: il che, per un artista che fu fra i primi a interessarsi a formati ottici di fascia superiore e che ha impiegato oltre vent'anni prima di poter ripubblicare interi capolavori della propria carriera in HDCD o DVD-Audio, fa quantomeno sorridere. Per il resto, il sito è bello da vedere e piacevole da visitare e magari- fin tanto è gratis -iscriversi e bazzicarlo non fornirà le risposte alle grandi domande dell'esistenza ma sicuramente renderà più sopportabile viverla. Concludo con una dritta: se di fronte alle cartelle dei film e/o documentari vi viene duro, sappiate che sono corredate da schede di informazioni, foto, link a video preesistenti su YouTube ma che non avrete nessuna possibilità di visionare il materiale, nè parzialmente, nè per intero. Anche in questo caso, come accennavo poco sopra, ad oggi 7 dicembre, nessun barlume di materiale inedito: il che, per uno che è dalla tarda adolescenza che anela ad ascoltare Homegrown, è un po' frustrante.

Dal 2 dicembre entro anche in modalità "cene". Lo so che ingrassiamo, riempiamo i nostri corpi di sostanze inusuali, se non, talvolta, di merda, ma attendere il solstizio di inverno cenando in compagnia presso tavolate di ogni forma, colore e dimensione è il massimo. Capita, tuttavia, di non digerire immediatamente il ben di dio ingurgitato la sera prima, e così, certe domeniche mattina, invece di essere votate al sacrosanto riposo, finiscono col partire con largo anticipo. Sono momenti in cui, se supero il giramento di coglioni, cerco di far volare alti i pensieri, leggo un libro, disegno, ne approfitto per stare un po' da solo con me stesso, spippolando il computer e lasciandomi trasportare dalla corrente di quei siti e-commerce a cui, ogni tanto, devolvo il mio obolo. Come il web 2.0 ci ha ormai abituati, è facile cliccare su un prodotto che ci interessa e che, subito dopo, negli spazi dedicati alle inserzioni del sito visitato poc'anzi, si configurino oggetti identici o simili, segnalati con insistenza e venduti "a partire da" una cifra sempre e comunque inferiore a quella visualizzata precedentemente. Oggi mi si para davanti, in tutto il suo splendore, DVD dei Led Zeppelin. Ci avete mai pensato a che razza di titolo meraviglioso e definitivo è DVD per un dvd? Quando da ragazzino presi in mano, svenandomi, DVD dei Led Zeppelin, non sapevo cosa ci fosse dentro, ma mi resi perfettamente conto che stavo portandomi a casa un pezzo di Storia. Era nei negozi da un paio d'anni e continuava a vendere una cifra pazzesca (pazzesca, intendo, per un DVD musicale), costava una cifra con cui oggi compri un box con tre stagioni de Il trono di spade e faceva il paio con The Song Remains the Same, che avevo trovato in forte sconto, alcuni mesi prima, alla Coop di Poggibonsi. Ingenuamente, lo misi a disposizione durante l'autogestione scolastica della primavera successiva e sparì prima che riuscissi a pronunciare la parola "Knebworth". Non ho mai saputo il nome di chi lo rubò, ma spero tanto che abbia una faccia su cui, prima o poi, io possa sputare in totale tranquillità. Nel frattempo, dopo quasi dodici anni di separazione forzata, ho deciso di risolvere. Gioiamo! La bellezza ha vinto di nuovo.

domenica 3 dicembre 2017

[Classifica] Top 10 concerti 2017

Top-ten 2017 concerts

1- Guns N'Roses, Autodromo Renzo e Dino Ferrari, Imola (BO), 10 giugno
2- Tedeschi Trucks Band, Alcatraz, Milano, 19 marzo
3- Claudio Fasoli & Samadhi Quartet, Un Tubo, Siena, 8 marzo
4- Giuseppe Vitale Trio, Bottega Roots, Colle di Val d'Elsa (SI), 26 novembre
5- Ginevra di Marco, Marcialla (FI), 12 luglio

6- Kirk Fletcher & The Dany Franchi Band, Il Tortuga, Poggibonsi (SI), 30 marzo
7- Elli de Mon, Bottega Roots, Colle di Val d'Elsa (SI), 05 maggio
  8- Enrico Rava Quintet, Un Tubo, Siena, 12 aprile
9- Hugo Race & Michelangelo Russo, Bottega Roots, Colle di Val d'Elsa (SI), 1 novembre
10- Le Birrette, Pieve di Molli, Sovicille (SI), 27 agosto

[N.B.: le foto 3, 7 e 9 non le ho fatte io; meglio specificare, non si sa mai...]

mercoledì 29 novembre 2017

Neil Young, "The Visitor" [Suggestioni uditive]

Neil Young,
The Visitor
(Reprise Records, 2017)

















In breve. Faccio fatica a comprendere la natura di The Visitor, trentottesimo disco in studio di Neil Young. Non è per la sua bruttissima copertina, nè per la scelta dei Promise of the Real come backing band (a loro, ormai, tocca rassegnarsi), ma proprio per le motivazioni che spingono, da tre lustri abbondanti, un fuoriclasse del calibro di Young a prodigarsi in pubblicazioni scialbe, prive di spessore, mediocri. The Visitor, parimenti a Earth, Monsanto Years, A letter Home, Storytone, Fork in the Road, Chrome Dreams II o Living with War, non sembra destinato a lasciare il segno nella produzione della terza età del canadese. Capisco anche che non si possa pretendere, da una rockstar settantenne, un Prairie Wind l'anno, un secondo Le Noise o un ulteriore, incredibile, doppio come Psychedelic Pills. Ma allora che senso ha, per un legacy artist che da tempo "promette di regalare oceani", illudere e deludere il proprio pubblico con dischi in tutto e per tutto simili a un lungo riempitivo? Certo, Carnival è talmente inconsueta (per Young, non per Ry Cooder o i Los Lobos o i Doors) da risultare perfino accattivante a un primo ascolto: fosse durata meno, sarebbe stata perfino bella. Change of Heart ora conquista (l'unica a riuscirci), ma fra un mese ce la farò ad ascoltarla senza rompermi i coglioni? Vorrei sottolineare che amo Neil Young: senza i suoi album del periodo 1969-1979 (nessuno escluso) potrei vivere, ma vivrei male. Anche Deja-vù, Four Way Street (inarrivabili esempi del sodalizio con Crosby, Stills e Nash) e Long May You Run (a firma Stills-Young Band) mi hanno aiutato e continuano tuttora a farmi galleggiare meglio nelle acque torbide dell'esistenza. Tuttavia, sono cinque anni che non compro un suo album "nuovo", perchè non ne trovo il senso. Passa dall'Italia, tiene concerti che sembrano pure essere molto belli, ma non vado a sentirli, perchè mi evito volentieri il cordoglio di vederlo capitanare una squadra di pischelli, una band dal basso profilo e priva di personalità. So che l'ha scelta lui, ma è una scelta che non mi sento di condividere, specie dopo aver ascoltato i desolanti risultati discografici degli ultimi due anni. Neil resta un gigante, per la sua statura musicale, per il suo songwriting, per la sua concezione di come debba essere il suono di una chitarra, per la sua idea di rock in senso stretto. Ma The Visitor è fonte di imbarazzo sia per lui (che lo ha scritto), che per noi (che lo ascoltiamo).

martedì 21 novembre 2017

I Firenze Rocks blues e altre maraviglie [Extra]

Se era difficile, per me, pensare a un 2018 prospettivamente superiore al 2017 (in ambito musicale), sono stato prontamente smentito: dapprima, la notizia di un sostanzioso frammento di Never Ending Tour comprendente sette date e quattro città italiane (Roma, Firenze, Mantova, Milano), e pochi giorni dopo gli appuntamenti della seconda edizione di Firenze Rocks, che quest'anno cresce e regala gioie. La scorsa estate, rinunciai ad andare a vedere gli Aerosmith: non che fossi pentito (avrei visto gli Stones due mesi dopo), ma un minimo di curiosità mi era rimasta, più per l'evento che per altro. Ma- se si è persone con un minimo di cervello e una viscerale passione per la musica -come si può osservare il cartellone su cui si susseguono i nomi di Foo Fighters, Guns N'Roses, Iron Maiden e Ozzy Osbourne senza metter mano al portafogli? Le persone più avvedute e di bocca buona hanno sborsato 270€ per l'abbonamento: in pratica, paghi l'equivalente di tre concerti su quattro, compri il biglietto con qualche giorno di anticipo e non hai da litigare con app che non funzionano, terminali in tilt, distribuzioni delinquenziali, ecc.; scelta legittima, ma onestamente non saprei davvero di cosa farmene, considerando che provo fatica già solo pensando di trascorrere quattro giorni alle Cascine e che delle quattro serate ritengo imperdibile quella dei GNR, appetibile quella dei Maiden, trascurabile quella dei Foo Fighters e del tutto inutile quella di Ozzy. Ovviamente, su Facebook e sulla carta stampata se ne leggono di tutti i colori, anche se fa piacere veder superate alcune lamentele sul caro-prezzi (che poi la gente può dire quello che le pare, ma io ho speso meno dell'anno scorso a Imola). Finisco in una polemica (della cui nascita verrò paradossalmente additato fra i principali responsabile) del tipo "mainstream contro underground", roba che mi fa convincere, per alcuni secondi, di essere finito in una puntata della serie Ai confini della realtà. Nonostante i toni assumano, a tratti, quelli di un'ipotetica mitologia becera, cerco di mantenere fermezza, lucidità e senso della grammatica, così da poter argomentare al meglio le mie ragioni. Leggo delle cazzate interminabili, piagnistei sui tutti i grandi gruppi che, per rimanere "puri", rinunciano a un maggior successo di pubblico e ciò fa di loro delle persone e degli artisti intrinsecamente migliori. Eppure a me sembra così semplice accettare, quando si parla di musica, che la fama e il successo non hanno necessariamente alcun rapporto con il valore artistico: o meglio, può capitare che lo abbiano, ma la discografia è un'industria con le sue regole precise ed è chiaro che ciò che essa fa emergere e ciò che poi, sempre grazie alla stessa, diventa popolare è solo una piccola parte, la punta dell'iceberg di un mondo musicale vasto come l'oceano e spesso sotterraneo. Sono il primo a conoscere, ascoltare e apprezzare centinaia di band del mondo che hanno prodotto migliaia di canzoni di cui solo l'1% della popolazione è e sarà mai a conoscenza. Una scena musicale sommersa che abbraccia ogni genere e che è totalmente ignorata dalla massa. Quindi, ha senso tracciare paragoni improbabili, vantarsi di preferire al biglietto per Firenze Rocks da ottanta euro un concerto in un centro sociale da ingresso a cinque euro (bevuta compresa)? Per me, no, perchè altrimenti restiamo ai livelli del gioco del "miglior gruppo", del "miglior chitarrista" o del "miglior cantante". Perfino in questi ultimi casi che ho portato a estremo esempio finiamo comunque col parlare di ciò che è emerso e che ha trovato un riscontro discografico, ma non potrà mai fungere da valutazione oggettiva, in quanto la serie A della musica rock è composta per antonomasia da band americane e inglesi. Un discorso vecchio, usurato, tremendamente ovvio, o almeno così credevo fino a pochi giorni fa. Che se ne facciano una ragione i difensori dell'underground da sagra del brigidino: quelli per cui, fino all'altro ieri, il problema era che nessuno compra più i dischi, che le nuove generazioni non ascoltano il rock, o che nella loro regione non viene mai nessuno a suonare. Credo che queste persone (fra cui voglio inserirmi pure io) dovrebbero dotarsi di maggiore umiltà e iniziare e rivedere le proprie opinioni sul rock and roll come spettacolo e come fenomeno culturale. Capisco che possa essere difficile, perché noi, il rock, lo abbiamo sempre visto da troppo lontano, ma è uno sforzo che vale la pena fare. Ma torniamo al vivo della materia trattata, ossia il festival fiorentino della prossima estate, che tradotto in bellesiano significa- tagliamo la testa al toro -i Guns N'Roses a un'ora da casa mia, cristo! Sono già partite le battute su Axl grasso? Ovvio. Proseguono le illazioni su una reunion (che reunion non è) fatta per i soldi? Ma è chiaro! Mi piacerebbe poter aggiungere una terza domanda, ma i punti finiscono qui, perchè tanto queste due cose sa pronunciare il popolo bue quando si parla di GNR: ciò che appare (la forma, la superficie, l'avvenenza) e i quattrini. E il fatto che nessun dio si prenda la briga di fulminare le capre ignoranti che ammorbano la rete e la realtà è soltanto l'ennesima dimostrazione che non esiste dio alcuno, almeno in questo universo. Si possono criticare quanto vogliamo le scelte artistiche di una determinata band, ma, fino a prova contraria, un gruppo non finisce quando lo dicono i fans, ma quando lo vogliono i suoi componenti. Il Nikke, di contro, ha i biglietti (stesso prezzo, stesso settore) per i Foo Fighters. Suonano il giorno prima, trainano il nuovo, disdicevole Concrete and Gold e, al momento in cui scrivo, rappresentano la serata di maggior successo su un piano di vendite. Conosco poco i Foo dal vivo. Immagino che lavorino come i Guns o i Pearl Jam e non disdegnino tenere concerti lunghi dalle due alle tre ore, intrisi di pathos, con la giusta misura di vecchi classici e covers ma un minor spazio dedicato a ciò che, a mio avviso, legittima l'esistenza della musica live: improvvisazione, sorprese, qualche novità. Insomma, piano-barismo rock di ottima fattura, anche se la loro incostanza è arcinota (su Facebook magari non lo leggerete, ma affacciatevi in qualche forum e vi renderete che non tutto è oro quel che luccica) e ai miei occhi rimangono la band presa per il culo sulla pagina I Foo Fighters che fanno cose buone. Ad esempio, Sofi, che i Foo Fighters li ama davvero, ha il DVD di un concerto a Wembley che si conclude con Rock & Roll dei Led Zeppelin suonata da Grohl alla batteria, Jimmy Page alla chitarra, John Paul Jones al basso e Taylor Hawkins alla voce ed è una delle più brutte versioni di questo brano mai registrate. Molto più interessanti, a confronto, nella veste acustica di Skin and Bones. E poi Dave Grohl a me tutto questo gran pozzo di spontaneità non sembra: anzi, lo trovo uno dei personaggi più costruiti e artefatti del rockstar system odierno. Non vogliatemene, perciò, se i Foo Fighters li mando affanculo in maniera più che cordiale, indicando loro pure la direzione, e magari concedo il beneficio del dubbio alle vergini di ferro. Per carità, se Dave Grohl e amici non inforcano il giusto album da un decennio, gli Iron Maiden non pubblicano un capolavoro di inedite da oltre trent'anni. Qualche vagito in Fear of the Dark, un paio di buoni pezzi su A Brave New World e poi il vuoto. Eppure sono i Maiden, fautori di uno show musicale che è tutto un programma. Bruce Dickinson non ha più voce? Janick Gers potrebbe non esistere? Steve Harris è imbolsito? Chissene: andare al concerto costerebbe sette euro in più rispetto a quattordici anni fa. Allora toccò al Mandela ospitarli, il tour era quello di Dance of Death, gli Irons erano ancora il mio gruppo preferito e io di rado, nella vita, sono stato parimenti invidioso come lo fui di quei ragazzi di uno, due anni più grandi di me che riuscirono a convincere le famiglie ad accordar loro il permesso di andare. 
Mi sarebbe piaciuto molto scrivere qualcosa su Oh, vita, nuovo singolo di Lollo Cherubini volto ad anticipare il chiacchieratissimo album dal titolo analogo prodotto da Rick Rubin. Tuttavia, devo invocare il perdono dei lettori: sto ancora cercando per terra i coglioni, che mi sono caduti dopo qualche secondo di ascolto.
X-Factor (e le schegge che fuoriescono da esso intaccando la realtà pure di chi non lo segue) assume sempre di più le fattezze di un lungo incubo. Sono arrivato al punto in cui mi basta leggere un titolo (l'articolo in sè non è poi granchè) del Fatto Quotidiano che critica Levante per scoppiare a ridere e abbandonarmi a qualche secondo di godimento. Se sin dall'adolescenza mi sono crucciato nel vedere Manuel Agnelli e gli Afterhours liberi di muoversi nel mondo e non in catene lungo una linea ferroviaria in costruzione, con la reinterpretazione di Non è per sempre da parte di Wilma de Angelis si tornano a sondare gli abissi dello sterco. Manuel, magari- dagli attici dell'alta qualità nei quali è convinto di albergare -per qualche minuto si è sentito come Rick Rubin quando mostrò per la prima volta lo spartito di Hurt dei Nine Inch Nails a Johnny Cash e gli propose di inciderne una sua versione, ma qui siamo più dalle parti dei fratelli Vanzina.
Basta seguire su Facebook un paio di pagine americane dedicate ai Grateful Dead per innervosirsi subito. Spesso e volentieri, i miei occhi passano in rassegna una lunga carrellata di oggetti, ascolti, visioni che bramo ma a cui devo resistere. Lasciando perdere le Dave's Picks- che comunque scarico in .flac e ascolto con certosina puntualità -l'argomento box-sets e deluxe edition dei Dead è ampio, complesso e scarsamente affrontato (nel nostro paese, of course). Oggettivamente, di fronte a certa roba, l'unica domanda che mi pongo è <<Ma chi se lo prende questo?>>, e mi riferisco a merce di fascia collector's che trova distribuzione anche da noi o ai costosissimi vinili 180 gr. mandati nei negozi di dischi per il Record Store. Me lo chiedo anche mentre estraggo il file zippato contenente il nuovissimo RFK Stadium, Washington D.C., July 12&13 1989 (Rhino Records, 6 cd ), io che mi definisco un deadhead per farmi due risate, mica sul serio. Infatti, anche restringendo il campo a quelle fasi della carriera del gruppo che mi interessano maggiormente (1969-1972, 1975-1978, 1987-1995 gli squarci temporali che preferisco), il numero di uscite previste o già sul mercato dedicate al gruppo sono comunque troppe. Sei cd poi sono tanti da affrontare, specie se si è reduci da quasi due settimane dedicate agli otto di Trouble No More Deluxe Edition di Bob Dylan (peraltro uno dei migliori acquisti musicali "di peso" che ricorderemo del 2017). Ad ogni modo, Pensare ai tardi anni Ottanta dei Grateful Dead significa tante cose: anzi tutto, un nuovo, provocatorio modo di registrare i dischi e l'idea di trasportare questo new sound sui palchi, le imprudenti escursioni nei territori dei videoclip, l'insperata conquista di un'intera nuova generazione di freaks, le liti plateali fra Jerry Garcia e una stampa specializzata rea di non accordare al gruppo neanche un barlume di fiducia (leggete recensioni d'epoca e voti destinati a meravigliosi album come In the Dark o Built to Last, poi ascoltateli e mettetevi a ridere), ma, soprattuto, tante avventure live peraltro già ben documentate grazie a decine di uscite ufficiali. Ecco, appunto, i Grateful Dead di fine '80 sembrano i personaggi di una saga dostoevskijiana più che un nutrito gruppo di mezza età con sulle spalle il peso dei vari Aoxomoxoa e dei Live/Dead. Questi due concerti all'RFK Stadium lo spiegano benissimo: l'ascolto è un fiume in piena che attraversa un repertorio che, allora, aveva da poco compiuto un quarto di secolo. Senza contare che il pretesto del tour era la promozione di Built to Last, vertice- ahimè, in tutti i sensi -della carriera in studio del gruppo, un disco che ad oggi funziona ancora alla grande, pieno com'è di canzoni che ardono come fiamme, piene di energia e di idee. Non ci credete? Tentate l'ascolto. 
Nel giro di pochi giorni, lasciano il nostro mondo e vanno a bruciare all'inferno (anche se preferirei saperli come Jack-o'-lantern, ma senza la zucca) Totò Riina e Charles Manson. Due guru, due criminali, due anziani sopravvissuti relativamente bene al dolore che hanno arrecato ad altri esseri umani e al mondo. Ieri sera, al TG1, commentavano la scomparsa di Manson alternando ad una famosa intervista scene estratte sia da Woodstock che da Gimme Shelter (forse più adatto) e con, in sottofondo, la cover di Look at Your Game, Girl dei Guns. <<Cazzarola>>, penso, <<se per metter su un po' di buona musica al TG1 devono aspettare che muoia Charles Manson, son messi proprio male...>>. Quando i giornali avevano dato notizia del suo ricovero in fin di vita presso un ospedale californiano, mi erano rimbalzate in testa le parole di Dylan in Masters of War, quelle in cui dice "And I'll watch while you're lowered into your deathbed/ And I'll stand on your grave till I'm sure that you're dead". Nemico numero uno della musica (in senso letterale e non figurato come Gigi d'Alessio), fu amico e "scoperta" di Dennis Wilson dei Beach Boys e venne definito da Neil Young "non tanto un cantautore quanto uno sputa-canzoni". Fu proprio il rifiuto di un famoso discografico a cui Wilson lo aveva raccomandato a scatenare la furia vendicativa di Manson. La vendetta sarebbe sfociata nella strage di Bel Air, da lui pianificata e ordinata. Neil Young rimase talmente sconvolto dal riconoscere nel mandante degli omicidi quel bizzarro, mingherlino hippie fallito da farlo tornare sulla questione più volte nel corso dei decenni successivi. Ne Il sogno di un hippie (Feltrinelli, 2012) dedica alcune righe al loro casuale incontro, ma vale la pena rispolverare un'intervista del 2008 in cui- alla faccia dei "giorni di pace, amore e musica" -descrive quell'epoca come "tempi spettrali. Conoscevo Charlie Manson. Alcune persone stavano in questa casa sul Sunset Boulevard, e c'era diversa gente. Non sapevo chi fosse. Me lo presentarono e lui non era un tipo felice, ma sembrava avere presa sulle ragazze. Era il lato oscuro del Maharishi. Sapete, c'è un lato luminoso, quello dei bei fiori, delle vesti candide e di tutto il resto, e poi c'è qualcosa che sembra molto simile ma non lo è affatto". Di lui, si dice, parla l'ultima strofa ("I never knew a man could tell so many lies/ He had a different story for every set of eyes/ How can he remember who he's talking to?/ Cause I know it ain't me, and hope it isn't you") di Ambulance Blues, epitafio di quei "tempi spettrali" e degna conclusione di un altrettanto indispensabile capolavoro. Certi pomeriggi tardo autunnali sembrano inventati per stare in casa ad ascoltare proprio dischi come questo, di cui val la pena continuare a seguire ogni istante, ogni nota, ogni parola. Capire On the Beach, perdersi nei suoi simboli, nella sua cristallina perfezione è come entrare in un universo parallelo: una volta fatto, ogni altro testo e qualsiasi altro cantautore sembrano banali.