lunedì 25 settembre 2017

Rolling Stones @ Lucca Summer Festival, 23/09/2017 [Extra]

 29 agosto 2008.

A Poggibonsi, stasera, sembra quasi fresco. Strano, perchè sin dall'infanzia ho sempre percepito il paese che mi ha dato i natali come molto più caldo rispetto a quello in cui ho sempre abitato. Vuoi per campanilismo, vuoi che sia stato edificato in mezzo a una buca brutta e umida, vuoi che sono sempre stato poco avvezzo a bazzicarlo nei mesi estivi preferendogli il "bel mi'Colle", ma sono convinto che, nonostante la distanza ammonti soltanto a sette chilometri, questa escursione termica non sia solo frutto di una presunzione tutta colligiana. E poi è fine agosto, la maturità è un ricordo lontano, l'adrenalina dell'epica trasferta berlinese di luglio pure, il futuro un demone che fa capolino dall'altro lato della strada. Non ho voglia di fare nulla, neanche di prendere la tanto agognata patente: e infatti sono arrivato in autobus. Per il ritorno sono sempre in tempo a organizzarmi.
Vado al cinema all'aperto. L'arena estiva del Garibaldi, sala di essai poggibonsese storica, è la mia preferita. Venti giorni fa ci abbiamo visto con tutto il gruppo Il cavaliere oscuro di Nolan: bello, lungo, un film importante e insolito, specie se si pensa che parla di un milionario in calzamaglia che si veste da pipistrello ed esce di notte a picchiare i malviventi. Tuttavia, la compagnia di ragazzi che lambisco da alcuni mesi non ha i miei stessi gusti praticamente su niente: mi sto lentamente abituando a questa stranezza e a volte sento di fare un gran fatica. Ma immagino che la vita che mi aspetta, quella da adulto, funzionerà più o meno alla stessa maniera. Dunque stasera sono solo e pure eccitatissimo: vado a vedere Shine a Light di Scorsese, il film con e sui Rolling Stones uscito lo scorso aprile e "parcheggiato" solo per poche sere al Politeama.
Il Nikke non è con me per tre motivi: il primo, è che da oltre un anno è molto fidanzato; il secondo, è che ha già scaricato e visto il film mesi prima; il terzo è che si trova ancora al mare. Il primo motivo lo ha condotto, sempre in tempi recenti, a prendere una necessaria, dolorosa decisione: per lui, fra Beatles e Rolling Stones hanno vinto i Beatles. Alla sua Lady Jane piacciono di più i  baronetti. <<Okay, Nikke, non ci sono problemi. A ognuno il suo. Siamo nel 2008, quarant'anni fa ci saremmo scannati verbalmente e fisicamente su un tema simile... oggi tutto vola via, dimenticato nell'arco di qualche giorno...ci sono cose più importanti a cui pensare, tipo a quale università iscriversi, eccetera...>>. Pensieri come questi mi accompagnano fin dentro la biglietteria. La signora mi sorride: conosce bene i miei gusti, sa che non potevo mancare. Ordino una Coca Light al bar e mi accomodo nel cortile dove si svolgono le proiezioni. Pochi ragazzi dell'età mia (è agosto, tanti sono al mare, altri ancora sperduti per l'Europa a godere degli ultimi scampoli di una libertà irripetibile), mentre non mancano teste calve, ingrigite, canute. Il terreno ha ricominciato a bollire, per fortuna che l'unico neon che illumina la micro-arena si sta spegnendo: oscurità, calore, odore di polvere e la mia Coca che è già a mezzo. Prologo girato in un bianco e nero bello sgranato. Più che Toro scatenato, mi torna in mente Domino di Tony Scott, film che penso sia piaciuto a me e altre quattro persone in tutto l'Occidente. Dettagli di mani che impugnano bacchette da biliardo ed eleganti pirati i cui visi coperti di rughe sono sovrastati dal fumo. Sembra una versione più intensa e allucinata dell'inizio di The Last Waltz, solo trent'anni dopo. L'occhio di Ron Wood ben attento a colpire la palla, la risata sguaiata, cazzona di Keef, che ormai gioca per partecipare, mica per vincere. Lampade, tappeti orientali, teschi, fiori, sigarette. A proposito, fate fumare anche noi tabagisti del pubblico poggibonsese! Siamo solo ai titoli di testa, ma è già iniziata una sinfonia di accendini Bic e sonore boccate. Anche io appicco il Marlborino. Cinema, cicche e Stones e via, in culo ai benpensanti. Si può desiderare altro?
Da principio, il film si perde un po' troppo nei preparativi, Scorsese nel ruolo di se stesso è  predominante, perfino fastidioso in un paio di punti. L'incontro con i Clinton passa dallo spassoso allo schifoso rapidamente. E' proprio l'ex-presidente a voler annunciare la band, promuovendo una raccolta fondi a favore dell'ambiente: paccottiglia per cui negli USA la gente si strappa i capelli e piange lacrime di coccodrillo ma che, nell'arena estiva del Garibaldi a Poggibonsi, è accolta con glaciale disprezzo, accompagnato magari a qualche laica, sacrosanta bestemmia. Poi però, in pochi secondi, una cinepresa vola giù da un grattacielo, puntando diretta l'ingresso del Beacon Theatre, mentre Marty scartabella nervosamente dei fogli e dalla console di regia urla ai suoi assistenti <<Ok, first song!>>. Jumpin' Jack Flash mi entra in circolo, la vibrazione misteriosa del rock torna ad attraversarmi da capo a piedi. Resto rapito da quel riff che conosco fin troppo bene e che ritengo (a ragione) sublime. Che incredibile botta di vita sgargiante e colorata che sa essere la musica catturata da chi davvero sa farlo. L'atteggiamento è quello giusto, da concerto rock: alla fine del pezzo si applaude fragorosamente, illusi di trovare posto anche noi in mezzo a quei rocckettari filantropi. Svuoto la lattina senza distogliere per mezzo secondo lo sguardo dallo schermo e penso che stasera sono al posto giusto, in mezzo a una setta di fortunati, ma che, prima o poi, io a un concerto dei Rolling Stones vorrei andarci davvero.

23 settembre 2017.

Insomma, è andata a finire che io i Rolling Stones li vado a vedere sul serio.
Data unica, travagliata, particolare. Organizzata dalla controversa agenzia versiliese D&G (D'Alessandro & Galli), questa serata "fuori-abbonamento" del ben noto Lucca Summer Festival è subito giunta agli onori delle cronache per il contenzioso riguardante la location del concerto stesso. La prima trattativa fra D&G e la multinazionale denominata Rolling Stones risale alla fine del 2015. I due promoters volano a Londra con mappe e modellini 3D di piazza Napoleone, spiegano che negli ultimi anni ci hanno suonato tutti i più autorevoli colleghi di Jagger&Richards, da Bob Dylan fino a Neil Young coi Crazy Horse passando per Tom Petty e i suoi cuori infranti. Ma il management delle pietre rotolanti non rimane impressionato: il palco comunale è piccolo, il pubblico limitato, la visibilità poco più che accettabile. Le trattative proseguono, intervengono il sindaco, la giunta, i giornali. Già nell'estate del 2016 iniziano a rincorrersi i pettegolezzi sui Rolling Stones a Lucca, ma ancora D&G non sa neanche dove mandarli a suonare. Gli eroici agenti volano di nuovo, stavolta a New York, con un nuovo, segretissimo progetto in tasca: un concerto fuori programma da suonarsi nell'area ex-balilla rasente le mura della fortezza, un punto in grado di ospitare fra le 60 e le 70mila anime. Gli Stones- in quel momento impegnati nella pregevole turnè sudamericana immortalata nel divertente Olè Olè Olè -devono ancora annunciare al mondo il loro No Filter European Tour, ma i patti vengono comunque siglati. Il resto è storia. Così come è già nella grande storia l'atterraggio a Pisamerda del Boeing 767 modello Rolling Stones:

Provo sensazioni di beatitudine analoghe nel vedere, al TGR, i pirati attraccare nella Pisan Bay e scoprirli veri, in carne e ossa, sorridenti e in forma. Tende comunque a sfuggirmi il motivo per cui, atterrando a Pisamerda e con un concerto da fare a Lucca, abbiano prenotato l'albergo a Firenze. Boh... affari loro! L'importante è benedire sempre chi ha creato Keith Richards.
Sullo sfondo, due sbirri; in primo piano uno che non ha mai avuto problemi di droga,
ma ha avuto problemi con la polizia.
Da parte mia, mi sveglio con un brutto intasamento ai condotti aerei. Cinque starnuti orribili, un paio di madonne, un intero pacchetto di fazzoletti che se ne parte subito. Brancolo nel buio della cameretta e scopro anche di avere un mal di testa discreto. A volte capita, ma oggi, porca puttana, proprio no! Faccio una colazione importante, medito sul gruppo che avrò davanti stasera e anche la capoccia torna in carreggiata. Poi penso a Ron Wood, 60 anni compiuti a giugno, padre di due gemelline di un anno e mezzo, operato di cancro ai polmoni due mesi fa e attualmente impegnato in un tour europeo, e mi sento subito meglio. E Ronnie- al contrario di Keef e, soprattutto, di Mick Taylor -non rientra di certo nella mia top-ten chitarristica, ma la bellezza del rock risiede anche nel fatto che si possono amare così tanti artisti che, alla fine, non sembra nemmeno vero. E se è pur vero che Wood continua ad essere un chitarrista snobbato e maltrattato da chiunque (dai fans, dalla critica, dai suoi stessi compagni di gruppo), io provo per lui una simpatia innata: mi piacciono i Faces, trovo che la bellezza (ineguagliata) dell'Unplugged... and Seated di Rod Stewart debba molto ai suoi interventi chitarristici e reputo i New Barbarians uno degli esperimenti più anomali e interessanti emersi dal decadente rock di fine anni Settanta. Fu proprio Ron, nel 2006, a pubblicarne le gesta a spese proprie tramite la Wooden, minuscola etichetta di sua proprietà.

Verso le 10:30 navigo su Facebook e scopro che la band ha messo a disposizione dei fans una app che permette di votare la canzone fuori-scaletta della serata. Dal sorteggio di Amburgo era uscita vincintrice Under my Thumb (un classico alla stregua di Jumpin' Jack Flash, sicchè niente effetto sorpresa), a Monaco Beast of Burden, a Spielberg She's a Rainbow (ma che problemi hanno gli austriaci?), a Zurigo la cover di Like a Rolling Stone (potremmo esserci). Tento di accedere a "o' sistemone", ma è tutto inutile. In queste occasioni, dovrebbero esser installati per legge dei seggi in ogni comune di Italia. Come recitava quella campagna della Democrazia Cristiana? "Nell'urna Mick Jagger ti vede, Stalin no"? No? Conoscendomi, a istinto butterei via un voto preferendo una outtake come Jiving Sister Fanny, poi ci ripenserei, perchè la lead guitar non è più la Gibson di Mick Taylor: sono passati quarant'anni dal suo addio agli Stones e io- che manco c'ero -continuo a non capacitarmene. Sarò poco imbecille? Perciò, finirei per optare per una perla: Memory Motel, possibilmente in versione No Security (1998).

Cielo un po' nuvoloso, temperatura gradevole, colori neutri. Vado incontro a dei sessanta/settantenni che se la dovranno vedere con un repertorio principalmente redatto nel pieno dell'età testosteronica: insomma, dovrei essere distaccato, preoccupato, dovrei incrociare le dita, confidare che abbiano preso le giuste medicine, che il clima sia benevolo, che il Demonio li possa aiutare. E invece no. La bramosia mi cattura. Lucca è a un'ora e un quarto da casa mia, eppure mi sembra di essere diretto verso il buco di culo del mondo. Essere appassionati di musica può voler dire anche questo: metti in discussione il tuo concetto di spazio-tempo, estrai 45 giri dal juke-box dei ricordi e fai di tutto per garantire che queste canzoni siano la colonna sonora del tuo futuro. All'inizio, ho scelto di raccontare di quando andai a vedere Shine a Light al cinema all'aperto, ma avrei potuto scrivere di quel fine settimana pasquale passato da Nikke, mentre i suoi erano in Puglia, con una copia piratata di Sticky Fingers intenta a girare senza tregua nell'impianto "quello bono" e noi impegnati ad anticipare la moda del mixologist, preparando assurdi drink con tutto ciò su cui riuscivamo a mettere le mani, roba che, se bevuta oggi, ci garantirebbe un giro in qualche scomoda ambulanza diretta al più vicino pronto soccorso. Avrei potuto scrivere di quella compilation che Lea, con infinita amicizia, mi donò in un'epoca che sembra lontanissima e del fatto che non ebbi mai il cuore di rivelarle la scomoda verità: le ultime tre tracce erano state masterizzate in maniera maldestra e il cd si bloccava dopo aver emesso atroci rumori.
Semplicemente Rolling Stones by Lea (2005):
cosa si può desiderare di più (a parte la discografia completa del gruppo, ovviamente)?
E ancora tante cose avrei potuto raccontare su Exile on Main Street, su come corsi a comprarlo dopo averlo visto fra le mani di Matt Damon in The Departed (lo stesso film in seguito a cui presi anche Eat a Peach e detti il via ad un'altra grande storia d'amore, quella con la banda dei fratelli Allman), sul fatto che qualche anno dopo, nel maggio del 2010, regalai il cd a Checca per ricomprarmelo in una doppia versione deluxe definitiva, remixata da Don Was, sul perchè le vacanze di quella stessa estate furono trascorse- ma guarda un po' -al confine con la Francia, dove non mancò una breve tappa a Villefranche-sur-Mer (località comunque di passaggio se da Mentone si vuol raggiungere Montecarlo).
Ferru in Exile (agosto 2010)
O su quel breve periodo in cui la mia canzone da pomicio preferita risultò, di gran lunga, essere Angie (oggi le cose sono molto diverse, e il mio più grande problema, al massimo, è stabilire se e quanto Exile possa essere più bello di Let it Bleed o viceversa, perchè tanto son sempre questi due capolavori di un ulteriore, incredibile poker di capolavori a battersi per ottenere il gradino più alto del podio). Su quando tentai di impedire l'uscita di una recensione di A Bigger Bang sul giornalino della scuola perchè trovavo irritante la totale assenza di critiche a un disco del genere (la recensione, ovviamente, uscì e io non andai a vedere nessuno dei due concerti italiani di quel tour).  In effetti, per comprendere quanto possa essere difficile prescindere dagli Stones, basti pensare che un ragazzo di neanche trent'anni si ritrova con un quantitativo impressionante di aneddoti collegati a loro senza che li abbia mai visti dal vivo. <<Finora...>>, mi ripeto mentre imbocco l'A12 in direzione Lucca. Sono talmente coinvolto che in prossimità di Chiesina Uzzanese mi convinco di vedere Kristen Stewart ballare in un'area di sosta.

Torno in me alcuni metri dopo, quando tutte le altre macchine frenano senza apparente motivo. Intravedo un lampeggiante: <<Non può essere!>>, dico. <<Non dirmi che son gli Stones!>>. Sono gli Stones. Una lunga fila di Mercedes Vito capitanata da un Classe S e da una volante della polizia. Vanno pianissimo. Supero e passo accanto alla carovana praticamente a passo d'uomo. Nella terza macchina, grazie al riflesso sui vetri scuri (ma non troppo) intravedo Charlie Watts. Esulto e penso ad un arrembaggio al Vito. Mi immagino Keith che mi spalanca lo sportello, mi invita a sedersi per uno screw-driver e mi offre una sigaretta. Ho smesso da quattro anni, ma decido che una delle sue non potrà certo ammazzarmi. Per colpa di queste e altre allucinazioni, sbaglio clamorosamente uscita. Sofi mi dà comprensibilmente del rincoglionito.
Mi tocca uscire a Pisa Nord e tornare indietro, bestemmiando in almeno tre lingue. Tento una battuta del tipo <<Però dai, almeno abbiam scoperto quanto sono vicine Pisa e Lucca...>>, ma vengo nuovamente zittito. Prevedo una fila terrificante all'uscita, e invece niente. In larga parte, la mia è ansia da prestazione: due anni fa venimmo in macchina al Lucca Comics e ci mettemmo quasi quattro ore ad arrivare a destinazione. Già all'uscita dell'A12 iniziano a fioccare i cartelli gialli con lingue rosse, noto gruppi di persone parcheggiare le auto in un campo sotto un cavalcavia. Non ci sono segni di autobus e navette nei dintorni. Come e quando arriveranno queste anime perdute? Non è dato saperlo. Proseguiamo. So che ci sono dei parcheggi a pagamento non lontani dalle mura: <<Alle brutte la mettiamo là>>, diciamo entrambi. Mentre faccio il mio ingresso in città e inizio a superare controlli, posti di blocco, strade chiuse e ztl, Sofi legge su internet che tutti i parcheggi sono esauriti. Non mi stupisco, imbocco la vecchia statale che porta in Versilia, ma torno indietro quasi subito. A un certo punto, freno, scendo, litigo con un tipo dietro che non fa altro che suonarmi e riparto. Siamo in città da dieci minuti e sono le 17 quando scorgo un campino da calcio, il cui perimetro è delimitato sia dalla rete di ordinanza che da un muro di due metri lungo il quale ci sono parecchie macchine parcheggiate, presumibilmente di proprietà dei tifosi locali accorsi a veder giocare la squadra. Mi infilo in un buco libero e parcheggio. Cosa diceva Jim Carrey?
I famosi parcheggi esauriti da 15€ distano dalle mura un chilometro, ma noi, grazie a Google Maps, apprendiamo che la piccola via dove abbiamo messo la macchina è appena a un chilometro e trecento metri. Le battute sulle mie botte di culo in fatto di "dove mettere la macchina nel giorno di un concerto sovraffollato", ovviamente, si sprecano.
(Per chi volesse approfittarne in futuro...)
Ci incamminiamo verso le mura. Tanta gente, ma nemmeno tantissima. Nel giro di dieci minuti siamo al primo controllo, il più duro, il più estremo, quello in cui se sei una donna e non porti con te una borsa che rispetti le misure richieste (148x210 cm), vieni rimandata al punto di partenza come nemmeno al gioco dell'oca succede. Sofi ha una borsetta di Zara piccola e pratica: ha giusto lo spazio per contenere borsello, sigarette e biglietti ed è forse più lunga di un centimetro e mezzo. Per la spietatissima organizzazione D&G va benissimo e la fanno passare. Al secondo controllo prendono di mira me, mi perquisiscono e alla fine, delusi, mi fanno lasciare il mio litro di acqua naturale. <<Bottiglia troppo grossa>> dicono loro. Io sorrido, pensando al fatto che, se una persona crede in ciò che fa e vuole farsi esplodere in mezzo a un concerto, può riuscirci senza troppi problemi anche con tutti questi controlli. Il tempo trascorso fra il secondo step e il passaggio ai tornelli mi sembra un'infinità. Osservo un elicottero sovrastare incessantemente l'area dove si svolgerà il concerto, scatto un paio di foto con la piccola digitale che la crew non è stata in grado di rinvenire dentro il mio giubbotto di pelle.
Iniziamo a guardarci intorno seriamente. Offendiamo i token: un sistema che forse poteva andar bene in qualche campo di concentramento- e, ripeto, forse -ma che fa davvero ridere i polli. Da meravigliarsi che i banchi dei token, del cibo, del merchandise vengano presi così accanitamente di mira da chiunque, giovani e vecchi che si accoltellano per un po' di carnazza bruciacchiata e una birra chiara venduta a prezzi che neanche in Costa Smeralda. La stessa gente che passerà il resto dell'anno a piangere miseria, badate bene. Mi sto incattivendo, potrei scadere nel populismo più bieco, quando dei bodyguards molto giovani, con capelli in esubero e intenti a pocciarsi delle splendide e-cigarettes, ci invitano a superare i tornelli. Sono approssimativamente le 18:00 e per noi, possessori di biglietto per il prato settore B, ha inizio un calvario che potrà dirsi concluso solo a concerto finito.
Alle mie spalle, lungo la via crucis.
Non ci vuole molto tempo, infatti, per comprendere in quale razza di trappola siamo finiti. Palco decisamente lontano (non invisibile, eh!), visuale sui maxi-schermi oscillante fra il buono e l'ottimo, nessuna possibilità di movimenti autonomi. L'aria è pesantissima. Penso a chi è indietro di ulteriori sessanta metri e non ha neanche una seconda fila di schermi per gustarsi (nei limiti del possibile) il concerto. Io poi sono miope, quindi tendo a drammatizzare le problematiche di visuale e, in generale, il concetto di lontananza. Attorno a noi si iniziano a creare dei micro-gruppi: dei ragazzi di Catania molto simpatici, dei commercialisti di Segrate con cappellini alla moda (rubati ai figli) e golfino blu, qualche Rolex e qualche canna che, simpaticamente, si confondono, vecchie groupies e giovani rockandroller di assalto con la foto di Brian Jones come sfondo dell'iPhone. L'umanità intera, insomma. Se ne vedono di tutti i colori, mentre dalle casse esce fuori musica banalotta a volume bassissimo. Rifletto su quanto si debba essere tarati di cervello per scegliere di organizzare un concerto in una sottospecie di corridoio quale sono queste mura lucchesi.

Rivolgo gli occhi in alto, verso la tribuna vip. Sul giornale, dopo pranzo, ho letto i nomi di alcune eminenti personalità accorse per l'occasione: Bebe Vio, Susanna Camusso, Emanuele Filiberto. Insomma, una tribuna vip più adatta a un concerto di "Lollo" Jovanotti che non a quello degli Stones. Intorno a noi si mormorano anche i nomi di Richard Gere, Tom Cruise, Vasco Rossi. <<Seeeeh... c'è anche Bob Dylan lassù!>>, urlo io suscitando l'ilarità di alcuni. Perdo la cognizione del tempo, mi sento una sardina. Degli impasticcati del nord di fronte a noi bisticciano con chiunque capiti a tiro, afferrano telefoni, rubano bottiglie di birra. Una ragazza tira fuori dalla borsetta due fogli di carta velina contenenti alcune fette di mortadella e inizia a mangiarle. Mi chiedo come ci riesca: io in questi momenti di tutto ho bisogno fuorchè di cibo.
Tribuna vip
Non so dire a che ore si presentano sul palco gli Struts, degli esagitati e inutili inglesi che hanno l'ingrato compito di aprire agli Stones. I tempi in cui gli artisti convocati per un simile onore rispondevano ai nomi di Stevie Wonder, Ike & Tina Turner, B. B. King, Guns N'Roses, Red Hot Chili Peppers, Black Crowes sono davvero lontani. Tocca sorbirci quasi un'ora di indie-rock dai lievi contorni glam. Il cantante è antipaticissimo: gorgheggia, acutizza, ballicchia. Le canzoni sono tutte uguali, tutte noiose, tutte orribili. Se già la schiena inizia a dolorarmi ed è difficile perfino chinarsi per trovare un attimo di tregua, con questi coglioni come sottofondo diventa davvero dura sopportare il tutto.


Il sole inizia ad andare giù. I monitor cambiano colore. La grafica del No Filter European Tour, con quel giallo rasserenante, allieta i presenti, ma quaranta minuti per cambiare il palco sono comunque tanti. Anche qui, torno a fare il paragone con l'organizzazione dei Guns a Imola e non ci sono confronti. Si spengono le luci e i monitor. I colori del palco virano al rosso. Visto ora, mi rendo conto di quanto sia gigantesco. Fuoco e fiamme: si spalancano le porte dell'inferno. Tablas, djembe, maracas, i primi timidi tocchi di batteria del buon Charlie (che indossa delle cuffie imbarazzanti), i 60.000 che urlano <<Uh-uh>> e Jagger che, dal canto suo, appare e risponde. Quindi aprono con Sympathy for the Devil, pezzo lunghetto e difficile come opening. Non penso che si potesse iniziare peggio. Arrivati al famoso accordo di SI ("Pleased to Meet You...", ecc. insomma) entra in scena Keith Richards. La tempestica chitarra/luce stroboscopica sarebbe anche un'ottima trovata scenica, peccato solo che lui non entri a tempo, che la chitarra abbia un volume da denuncia, che gli assoli siano dei pasticci senza capo nè coda.
Il sentore che stasera il mio rolling stone preferito farà abbastanza pietà è rafforzato da It's Only Rock&Roll, con Ronnie che inizia a svettare nettamente sul resto dei musicisti e Mick che domina il palco. L'approccio a questo brano (brano che nel corso dei vari tour ha finito col diventare uno standard) è piuttosto grezzo e tirato via, potrebbe quasi ricordare gli Stones pelle e ossa del tour americano di Some Girls. Tumbling Dice è assai innocua, la backing band fa fatica a inserirsi, Chuck Leavell e i coristi sembrano frenati. Un vero peccato, perchè la canzone di per sè è uno dei vertici dell'intero catalogo Stones. Riascoltiamocela nella sua versione originaria, va':


Le prime emozioni arrivano quando Mick- che in un buon italiano pronuncia le solite frasi di consuetudine rock -presenta i due brani estratti dall'ultimo Blue&Lonesome, disco che a dieci mesi dall'uscita continua a girare con soddisfazione nei miei canali. Mick Jagger è davvero una bestia che fa razza a sè: ha già mostrato di essere il migliore a cantare, ballare e intrattenere, ma quando tira fuori l'armonica per Just Your Fool finisce di compiere l'unico incantesimo che vedremo stasera in questo posto di merda. I Rolling Stones come pura e semplice blues band dimostrano di valere tantissimo: non gli occorre molto, bastano otto minuti. Poi si passa finalmente a un pezzo da stadio, quello scelto dai fans su internet: Let's Spend the Night Together, roba che arriva dal profondo passato del gruppo ma che tutti riconoscono e cantano a squarciagola. Finalmente i volumi trovano una forma definitiva: Mick e Ronnie sono due fuoriclasse, Charlie e Keith arrancano e fanno una gran fatica a seguire il ritmo dello show. Penso di essere uno dei pochi a provare soddisfazione nel vedere all'opera Chuck Leavell. Prima o poi scriverò di questo meraviglioso tastierista anche sulle pagine del blog, perchè è uno di quegli artisti meritevoli di certi approfondimenti.
Buio. Un minutino di vuoto. Vedo tantissima gente paonazza, soddisfatta come mai in vita propria. Faccio brutti pensieri e mi rendo conto che su sei brani me ne sono piaciuti due. <<Stasera mi sento un po' romantico...>>, dice Mick ridacchiando. Keith si è seduto, una Gibson acustica sulle ginocchia. Con le mie lacrime, ovvero l'oscena versione italiana di As Tears go By irrompe lungo le mura suscitando risate di scherno e battute. Sui giornali diranno che si è trattato di "un fuori programma incredibile", "una sorpresa assoluta", "un regalo per tutti i fans italiani" e di "una clamorsa prima volta". Nulla di più falso: sono sicuro che un precedente esista e Wikipedia me ne dà prontamente conferma: Con le mie lacrime era già stata suonata a San Siro l'11 luglio 2006.
Segue un racconto di Mick: <<Ieri ho passato una bellissima giornata a Firenze. Ho incontrato Theresa May e abbiamo mangiato un gelato su Ponte Vecchio. Delizioso...>>. Sono perplesso, ma non importa: tutta la baracca si regge sulle spalle di questo distinto gentleman ultrasettantenne a cui, professionalmente parlando, è impossibile finora imputare difetti o cadute. Parte una spettacolare You Can't Always Get What You Want. Qualcuno ha detto che la canzone in questione è talmente epica che nulla potrebbe mai rovinarla, e sono d'accordo: ma qui tutti si comportano al meglio, confezionandone e portando a casa una versione di quasi dieci minuti di cui ci ricorderemo a lungo. Ron Wood, in particolare, nel suo assolo conclusivo dimostra una personalità e una bravura che nello stesso periodo di Shine a Light (ovvero dieci anni fa) ancora si sognava, appiattito com'era dietro un Keef già ampiamente prigioniero del personaggio e di certi modi di fare.
Paint it Black è oscena, Honky Tonk Women si regge più sul dialogo fra Mick e i turnisti che non sugli Stones stessi. Segue la presentazione del gruppo e il piccolo teatrino ambulante di Keith Richards. Al di là che finora l'ho abbastanza maltrattato, devo dire che Keith è Keith anche quando, come stasera, non suona e quel poco che suona lo suona male. Rimaniamo noi e lui, lasciato da solo, con quel faccione reso gigante dai maxi-schermi. Rock and roll, droga, siringhe, galera, orge di sesso, un nugolo di figli e nipoti: ogni solco sul suo viso è un tassello di quel crudo mosaico che è stata la vita di una delle massime figure della musica rock. Una vita impavida, spericolata, la vita di uno che, pur suonando la chitarra in maniera non perfetta e tutt'altro che virtuosa, è diventato un'icona dello strumento stesso. La vita di uno che ha scritto e suonato gli album  Beggars Banquet, Let It Bleed,  Sticky Fingers ed Exile on main Street. La vita di uno che non è in grado di riconoscere il proprio operato, il proprio suono, in nessuna delle otto canzoni che compongono Black And Blue (terribilmente affascinante, un disco con cui ho un rapporto adulterino fatto di alti e bassi ma che finisco sempre con accodare al poker del 1968-1973). Uno che ha suonato il concerto di Brussels Affair '73 può permettersi di esibirsi in una Happy brutta come quella di stasera? Direi di sì. Uno che cade da un albero, si rompe il cranio e per due giorni non se ne accorge può anche tediare sessantamila persone con una estenuante Slipping Away? Diciamo di sì, ma solo a patto che di nome faccia Keith Richards.
Keith Richards, 9 settembre 2017
Su Miss You il pubblico si scatena. Gente che prova, inutilmente, a ballare. Il palco è indubbiamente il più bello di fronte a cui mi sia mai trovato: trovare un difetto, un'assenza, una caduta di gusto nella scenografia degli Stones è impossibile. Anche in questo genere di organizzazioni mastodontiche loro sono arrivati prima di tutti gli altri. Era la fine degli anni Ottanta, la loro musica "nuova" non funzionava più bene come nel decennio precedente e dunque c'era bisogno di altri trucchi per far uscire comunque il coniglio dal cilindro. Eppure anche Miss You stenta a entusiasmarmi, nonostante venga affrontata in maniera molto più diretta e stradaiola rispetto a quell'odioso spettacolino da puttanieri che era diventata negli anni Duemila. Non solo la sezione fiati continua a sembrarmi una roba da doposcuola, ma ho pure un altro problema- che magari contribuisce a far di me un fedele assai poco devoto -, ovvero che non ho mai capito cosa ci faccia Darryl Jones nei Rolling Stones. Uno che ha suonato su Decoy merita di finire a fare il turnista di lusso per colmare il posto lasciato vuoto da un Bill Wyman qualsiasi? Non è solo una questione di bravura, ma di stile, di sensibilità.
Arriva poi il momento che aspettavo maggiormente, un altro di quei cavalli di battaglia che non potranno mai venir meno: Midnight Rambler, uno dei più bei doni che la musica abbia mai fatto all'umanità. Cado su una certa nostalgia: quanti film mentali fatti su questo bluesaccio assassino. Ho perso il conto delle versioni live in cui la posseggo. Ovviamente è il vertice di Brussels, ma anche il cuore di Get Yer Ya-Ya's Out, la maratona chilometrica (oltre quindici minuti) di L.A. Forum: Live in 1975, la cristallina esecuzione di Live at Tokyo Dome 1990. Mick riprende l'armonica in bocca e via, verso nuovi orizzonti. Perfino Keef non combina troiai. Una cavalcata lunga, selvaggia, cruda, "senza filtro", appunto.
Inutile dire che il concerto potrebbe anche concludersi qua. Dodici minuti di Midnight Rambler cedono invece il posto a una stringata Street Fightin' Man. Lancio un'occhiata all'area vip: lo sapranno almeno di cosa parla questa canzone? I nordici impasticcati ricominciano ad agitarsi, sospinti forse dal fatto di conoscere la canzone. Urlano, danno il via a cori assurdi e fuori tempo. Se già è dura essere in 50.000 in un recinto per polli, personaggi di questo tipo non fanno altro che emanare squallore e attirarsi le antipatie di chi gravita nella loro orbita. Purtroppo, tornano a dare di matto non appena Keef intona il riff di Start me Up. Come una canzone del genere sia tuttora una delle più amate dal pubblico degli Stones per me è un grande mistero. Nata da uno spunto chitarristico simpatico (ma non geniale) di Richards, ci mise sei anni per trovare un verso definitivo che la rendesse spendibile come singolo (scritta e incisa per la prima volta nel 1975, non uscì prima del 1981). Start me Up è stata fortunata due volte: la prima è stata quando- come tutto Tattoo You -è finita fra le mani dell'ingegnere del suono Bob Clearmountain; la seconda è stata quando Bill Gates l'ha scelta personalmente per la campagna di lancio di Windows 95. A mio avviso, non ha altri motivi per essere considerata memorabile. Senza contare che i quattro minuti e mezza che occupa da trentacinque anni nei concerti del gruppo potrebbero essere spesi molto meglio.
Difficile non esaltarsi con Brown Sugar, anche se la coda strumentale senza Bobby Keys assume tutto un altro sapore e poteva tranquillamente finire con qualche minuto di anticipo. Ancora una volta, guardo Mick Jagger e mi sembra incredibile: settantaquattro anni, puttana l'eva! Cosa altro può fare nella vita uno del genere se non questo? La Brown Sugar di stasera dunque non è memorabile, nè tantomeno perfetta, ma basta a ritrovare energie insperate per noi sfortunati spettatori del prato settore B.
Satisfaction, una delle tre canzoni più famose di tutti i tempi, un brano su cui è stato costruito un buon ottanta per cento della musica rock a venire: difficile regalare al proprio pubblico una versione più sfilacciata e "scarica" di questa lucchese. Posso comprendere gli evidenti problemi che Keith ormai manifesta nel suonare anche un banale giro di r&r (gli stessi problemi per cui, dal banco del mixer, i suoi volumi fanno su e giù da circa due ore), ma sentirlo tornare all'attacco con i suoi errori da novellino è davvero sconfortante. Sofi nota il mio disappunto e ride, mentre io scuoto la testa. Il pubblico è in uno stato di estasi generale che inizia a farmi sentire a disagio. La scaletta del tour è talmente arcinota che la gente neanche si prende la briga di richiamare il gruppo sul palco. Di solito, il bello dei bis è che devono essere sudati, cercati, voluti. Non stasera, però. Ho applaudito quattro volte, non ho praticamente cantato nessun brano per intero, ho la schiena indolenzita e ho preso coscienza che oramai di una delle luci guida della mia vita è rimasta solo la scia. Vorrei andare via adesso, ma mi sembrerebbe di dargliela vinta. Gimme Shelter è con ogni probabilità la più grande canzone di tutti i tempi. Non scherzo: ogni volta che sento quei cinquantuno secondi iniziali (impossibili da replicare live nel tour del 1972-73, figuriamoci oggi!) mi vengono i brividi. Maledizione, tutta questa bellezza finisce sempre col cogliermi impreparato. Mentalmente cerco di ripercorrere la versione studio del pezzo, ma finisco col fare peggio: e poi cosa vuole questa Sasha Allen da Mick? Bercia, urla: sembra di essere finiti alle sessions in cui Leona Lewis fece a pezzi One, con tanto di placido assenso di Bono Vox e compagni. Uno schifo di fronte a cui varrebbe la pena rivalutare perfino qualche remix in stile chill-out.
Chiude la serata Jumpin'Jack Flash, pallida imitazione di quella che apriva i giochi in Shine a Light. Ascolto il riff, nemmeno malaccio, più convincente di quello suonato a Roma tre anni fa, ma non basta. So che fra meno di dieci minuti ci saranno i fuochi di artificio, gli applausi e gli inchini, ma l'unico pensiero che ho è uscire da questo carnaio. Si rivelerà un'idea vincente. I fuochi esplodono che noi siamo appena usciti dal perimetro principale. La situazione esterna è fuori controllo: persone accatastate sui tetti dei cessi chimici, appese alle impalcature in metallo dei cartelloni pubblicitari, arrampicate fin sopra gli alberi. Un vero delirio: costringere gente letteralmente di ogni età che ha speso fra i 126 e i 250 euro ad assistere in queste condizioni allo show di un gruppo rock va contro ogni regola morale. E' un fatto gravissimo, che si commenta da solo.
Nell'insieme può apparire esagerato parlare di delusione generale, perciò cerco di guardare il bicchiere mezzo pieno: ho visto uno dei gruppi cardine della mia formazione musicale e personale esibirsi dal vivo e questa è la cosa che mi premeva di più. Ma per questo motivo non posso staccare il cervello, dire che è stato bellissimo e che nulla lo eguaglierà. Va bene, a livello scenografico è stata un'esperienza indimenticabile: rimarranno probabilmente ineguagliati nel saper tirare su lo show, ma i meriti sono largamente condivisi con i quasi duecento tecnici che da venticinque anni la band si porta a spasso per il mondo. Va bene che Charlie Watts veleggia con una certa disinvoltura per gli ottanta, ma rispetto a tutto il resto sparisce: e se è vero che fino a qualche anno fa poteva condividere con Phill Rudd degli AC/DC la nomea di impeccabile uomo-metronomo del rock, qualche colpo lo inizia a perdere. Di Keef ho già scritto troppo, mentre non penso che ci siano abbastanza encomi per Ronnie. Non lo dico perchè da due mesi è senza mezzo polmone, ma perchè è un chitarrista clamoroso, non si adagia sugli allori, non si accontenta, continua a osare, ha iniziato da relativamente poco a sperimentare (specie nei blues) e a battere strade inusuali e apprezzabili per un gruppo in circolazione da cinquantatrè anni. E infine lasciatemi dire che non è una leggenda metropolitana: Mick Jagger è indubbiamente il più grande cantante al mondo. Poche storie. Non avrei mai pensato di arrivare a sostenerlo, io che sono uno stonehead anomalo, bastardo e storicamente innamorato della Telecaster di Richards e della Gibson di Taylor, ma è così. Facciamocene una ragione: se un uomo di 74 anni sa comportarsi così di fronte a sessantamila persone non solo può essere utile a capire lo stato attuale in cui versa la musica leggera, ma anche a suggerire che ci deve essere qualcos'altro sotto. Qualcosa che non ha niente a che vedere col preferire il jogging alla cocaina, l'acqua minerale al cognac, il tantra al viagra. Penso piuttosto che il segreto risieda nel prendere coscienza di ciò che si è costruito e creato attraverso cinquanta anni e oltre di canzoni  e concerti indimenticabili. Quell'universo di cose, quel modo alternativo di vedere il mondo e di esprimere emozioni che si chiama rock&roll.




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