lunedì 30 ottobre 2017

Quattro chiacchiere su George Young e poco più [Extra]

E' un pigro pomeriggio di domenica e fa caldo in maniera preoccupante. Il pianeta è malato: si vede, si sente. Chi non se ne accorge o finge di non accorgersene è semplicemente un cretino. Scorro svogliatamente le news "feisbuccare" e mi soffermo, come mio solito, sulle pagine musicali. Un piccolo post della rivista Metal Hammer (primo magazine musicale che acquistai, con una certa frequenza, nel 2003-2004) dà notizia della scomparsa del maggiore dei fratelli Young, il famoso produttore in pensione ed ex-musicista George. Conoscevo ben poco dei suoi trascorsi in vecchie beat band australiane degli anni Sessanta, nè immaginavo che- per ammissione dello stesso Angus -il suo apporto fosse stato fondamentale ai fini della costituzione del gruppo amato da milioni di abitanti del pianeta terra che risponde al nome di AC/DC. Ma, soprattutto, non immaginavo che addirittura Love is in the Air di John Paul Young (non erano parenti) recasse la sua firma (produttiva, si intende).

Mi ritrovo, così, a leggere qualche riga biografica su un personaggio rimasto volutamente un po' dietro le quinte nel percorso ultraquarantennale di una band di indiscutibile successo. Il rock&roll è davvero ricco di storie e personaggi di questo genere. George Young aveva già co-prodotto con il collega e amico Harry Vanda i primi quattro album degli AC/DC, quando Angus e Bon Scott decisero di allontanare il bassista Mark Evans con la scusa di "divergenze musicali" (oggi come allora, sentendo quei dischi, viene da domandare <<Ma quali?>>). Erano i giorni in cui il gruppo sfornava un disco all'anno e, quando non trovava posto in studio di registrazione, o era in sala prove o era in turnè. Così, mentre venivano fissati i provini per un nuovo bassista, fu George a prendersi la briga di suonare il basso sui pezzi che avrebbero composto Powerage, riuscito seguito di un capolavoro quale Let There Be Rock. Quando venne reclutato Cliff Williams (che sarebbe risultato accreditato come bassista in tutto l'album), il disco era già in fase di missaggio. Il nome di George come musicista degli AC/DC avrebbe trovato spazio esclusivamente in Cold Hearted Man, un brano che, da principio, sarebbe stato incluso solo nell'edizione olandese di Powerage e solo successivamente avrebbe conosciuto notorietà grazie alle ristampe internazionali su cd della Columbia (lo si sente anche in Iron Man 2), ma a lui andò benissimo così.

Alla fine del 1978, Angus e Malcolm si dissero oppressi dall'autorità del fratello maggiore e pregarono la Atlantic di intervenire, ponendo così fine alla partnership "a conduzione familiare" su cui avevano costruito tutte le fortune iniziali. La premiata ditta Vanda&Young, per sua sfortuna, non potè godere degli ingenti guadagni ricavati dalle vendite dei best-sellers per antonomasia del gruppo. Highway To Hell, prima, e Back in Black, dopo, avrebbero posto il sigillo sulla direzione musicale di Robert John "Mutt" Lange, che col gruppo realizzò una trilogia discografica degna di essere riportata sia negli annali del rock che nei manuali universitari di marketing. Intanto, George si addentrava nei territori della new-wave australiana, lanciando gruppi, producendo dischi di ordinaria, rassicurante pop-music e mantenendo ottimi rapporti con le rock-band oceaniche (i celebri Rose Tattoo poterono contare su di lui come manager per diversi anni). Forse dipese dall'assenza di idee decenti, ma se, da una parte, i mediocri dischi registrati per buona parte degli anni Ottanta fra Australia, Europa e tropici e partoriti sotto l'egida della stessa band non scalfirono il successo degli AC/DC, è altresì vero che sicuramente palesarono un netto impedimento di Angus e Malcolm nel vestire il ruolo dei produttori della propria musica. I nomi di Harry Vanda e George Young sarebbero ricomparsi su un album del gruppo esattamente dopo dieci anni da Powerage, rispetto a cui quel Blow Up Your Video da loro registrato e prodotto nel 1988 appariva come una pallida copia, pur vantando dei singoli che ne avrebbero decretato vendite eccellenti, addirittura le migliori dai tempi di For Those About to Rock. Il disco compattò non poco l'immagine del gruppo e riavvicinò i fratelli, che per le sessions avevano scelto di ritirarsi per un mese in Provenza, dove registrarono ben sedici pezzi, lasciandone fuori alcuni dal risultato finale. George avrebbe dato l'addio alla musica un decennio più tardi, mentre gli AC/DC si erano definitivamente tramutati in un fenomeno globale, un gruppo destinato all'immunità che negli anni Novanta si adattava alle nuove esigenze di mercato e gestiva senza problemi un business di un miliardo di dollari fra dischi, concerti, merchandise. La stesura delle canzoni di Stiff Upper Lip iniziò già nel 1997 con Angus e Malcolm intenti a buttare giù idee e registrare demo strumentali di chitarra e batteria. I piani della band erano semplici: dopo i dissapori emersi dalla sgraziata collaborazione con Rick Rubin e la freddezza con cui pubblico e critica avevano accolto il tanto chiacchierato Ballbreaker, gli AC/DC erano ben lieti di tornare a farsi produrre da Bruce Fairbairn, che però morì nel 1999, quando un numero cospicuo di demo era già stato approntato in Canada. George Young ricomparve allora nella vita del gruppo, selezionò dodici delle diciotto canzoni registrate fino a quel momento e Stiff Upper Lip approdò nei negozi di dischi di tutto il mondo il 28 febbraio 2000, all'alba del nuovo Millennio. Era la prima volta che il suo nome compariva da solo su un album degli AC/DC e sarebbe stata anche l'ultima. Trasferitosi in Portogallo con la famiglia, si congedò dalla musica con questo disco, che, in tutta franchezza, non era nè carne nè pesce e commercialmente si rivelò nettamente inferiore alle aspettative. Un vero peccato.
The Young Brothers
Senza troppo dilungarmi, vorrei ora parlare di un cantante a cui voglio bene ma che ultimamente mi riserva grosse delusioni: Robert Plant. Lullaby and... The Ceasless Roar (2014) era un disco posticcio e confusionario, lontano dai polverosi, mistici sentieri che l'ex-Zep aveva più volte affrontato nel corso della lunga carriera solista. Di contro, il nuovissimo Carry Fire, sulla carta, sarebbe dovuto tornare alle atmosfere di quelli eccellenti dischi incisi nei primi anni Duemila con gli Strange Sensation. Dreamland (2002) resta uno dei punti cardine dell'universo post-Zeppelin, mentre Mighty ReArranger (2005), all'epoca, fornì l'occasione a me e Nikke di sognare- sognare, badate bene -di andare fino al Mandela Forum per vedere Plant dal vivo. Certo, è difficile per un settantenne sfornare con discreta cadenza dischi come quelli citati sopra, mezzi capolavori come Raising Sands (i duetti con la Krauss, da avere a tutti i costi) o perfino opere riuscite solo in minima parte (lo stesso Lullaby), ma Carry Fire è proprio lontano da tutte le premesse e le buone intenzioni. Rincuora solo sapere che dal vivo Plant sia ancora una forza della natura, perchè i risultati attuali lasciano molto a desiderare.
Tempo fa, caddi prigioniero dell'esordio su larga scala dell'australiana Courtney Barnett, quel Sometimes I Sit and Think che tanto si prestava a piacere alla marmaglia indie (a cui, in effetti, piacque terribilmente) ma che finì comunque col fare breccia nel mio cuore bluesy. Non necessariamente un must have, ma comunque un disco di cui conservare memoria. Purtroppo (per lei e per noi) Courtney è recentemente finita nelle grinfie di Kurt Vile, classico personaggio su cui è di gran moda spendere voti alti e spandere litri di inchiostro. Vile ricorda un po' il monaco shaolin del duo comico dei Soliti Idioti, ossia il Paraguru. Odio Kurt Vile da quando mi fece buttar via quasi venti euro per B'lieve I'm Goin'Down, parodia musicale di scarso livello, e lo odio ancora di più ora che è riuscito nell'intento di rovinare il discreto materiale di partenza del nuovo Lotta Sea Lice. Courtney non è la stessa del disco di due anni fa, la sua voce è continuamente sacrificata in nome di questo coglione, ma sono convinto che sarà in grado di rifarsi e che i brani di Lotta Sea Lice dal vivo potranno solo migliorare. Ovviamente, se lei sarà sola.
Sabato 28 concerto al Tortuga di un quartetto dal nome curioso: Gozzilla e le Tre Bambine coi Baffi, attivi dalla fine degli anni Novanta, provenienti da Aprilia, tre album all'attivo. Questi riottosi e rissosi punk-rockers hanno pensato bene di fare scalo in quel di Poggibonsi con la loro proposta musicale sgangherata e sopra le righe. Al di là dell'ora sempre più balorda in cui questi gruppi vengono fatti salire sul palco, della partecipazione senz'altro picaresca ma non nutritissima del pubblico e del fatto che avrò colto un decimo di quello che ha esclamato per un'ora buona il cantante Svociato (un omone con una panza da esibire dopo un Oktoberfest a mo' di trofeo di guerra), la serata può senz'altro essersi detta riuscita. Canzoni come Sono il più vecchio bastardo in città, Sporchi, marci e ubriaconi o Fatti una bevuta, il Vaticano brucia dovrebbero essere oggetto di ascolto nelle scuole, ma non si può pretendere troppo dal ministro Fedeli (nè tantomeno dal governo che rappresenta). Liricamente, un gruppo che nella prima mezz'ora è spassoso, nella seconda diverte, nella terza può anche annoiare (a meno che non si sia ubriachi fradici o si tendano a categorizzare alla voce "musica" anche i cori da stadio più biechi), ma che, musicalmente, suona in maniera davvero convincente: in particolare, tale Jack Cortese alla Stratocaster (lo stesso suona e canta pure in un gruppo che si chiama Bone Machine e dunque solo per questo andrebbe invitato a suonare in mezza provincia) fa la sua porca figura. Assoli tirati e distorsore rovente, tutto perfettamente a metà fra "Fast" Eddie Clark e l'hillbilly preso in prestito ai bifolchi degli Appalacchi e trapiantato nella provincia laziale. Roba che, dalle mie parti, ha meno probabilità di attecchire rispetto ad altra (non sempre migliore, purtroppo), ma è un esperimento dell'organizzazione che va premiato a prescindere da ogni esito.
Esternamente, continuo a essere bombardato da notizie su X-Factor che non vorrei apprendere ma di cui, purtroppo, vengo a conoscenza e in seguito alle quali, inevitabilmente, bestemmio. Su tutte, la colossale figura di merda fatta in merito all'attribuzione della paternità de La canzone dei vecchi amanti, spacciata da non so bene quale dei quattro merdoni "brano di Franco Battiato". Con tutto l'affetto per le covers di Fleurs e con la stima mista ad antipatia che nutro per Battiato, cerchiamo di riportare l'universo sulle giuste coordinate, va':
Fra le cose che, invece, fanno bene al cuore si segnalano, in ordine sparso: il concerto di Hugo Race e Michelangelo Russo previsto, a meno di due chilometri da dove abito, per la sera del 1 novembre. E che boogie sia (ovviamente nel nome di John Lee Hooker e del loro recente, ottimo tributo in salsa italo-australiana)...
... e infine l'imminente, nuovo album di Mickey Hart, che dopo oltre quindici anni nel ruolo di leader del gruppo a lui intitolato ha pensato bene di tornare al solismo con un progetto ambizioso e carico (forse troppo) di ospiti, un'opera dal sapore fortemente trasversale- stando almeno a quanto sentito in anteprima sul Tubo -e che forse proprio per questo potrebbe destare alcune perplessità. Tuttavia, di questo Ramu se ne parlerà non poco e per più motivi: intanto, per la copertina (fantastica), poi per il fatto che tutte le liriche portano la firma dell'instancabile Robert Hunter, e per il susseguirsi di nomi come Babatunde Olatunji, Steve Kimock, Oteil Burbridge e Jason Hann. Il disco esce il 10 novembre ed è già ordinabile online.

venerdì 20 ottobre 2017

Ottobreggiando [Extra]

Ringrazio tutta una serie di congiunzioni astrali per avermi permesso di trascorrere dieci giorni di ferie a Capo Verde. Scoprire con la tua dolce compagna nuovi luoghi, confrontarsi con un altro mondo, immergersi  per la prima volta nelle acque dell'Atlantico (un tratto di oceano, quello capoverdiano, splendido), esplorare deserti, città di porto, villaggi di pescatori, foreste lussureggianti, alture spazzate da tutti i venti dell'universo è stato utile primariamente a purificarsi l'anima, e poi a immagazzinare le quantità di iodio e ossigeno utili a traghettare la vita verso un altro inverno. Oltre, ovviamente, a permettere di addentrarsi nella cultura musicale locale- fra le più ricche al mondo -e di importare, anche in questo angolo di Macaronesia, "verbi" di lontani paesi occidentali. Su tutti, quello del Morto Riconoscente:
Deadhead in Capo Verde
Dopodichè, tutto finisce. Di colpo, si fa un salto di tre ore avanti e di dieci, quindici gradi centigradi indietro. Sulle prime, si rimane sbattuti e spiazzati, ma la routine torna ad impadronirsi di noi velocemente. E così si passano in rassegna le notizie: 4.000 esuberi all'Ilva e il referendum Catalano sono fra le poche a conquistare il mio interesse, oltre, ovviamente, al vespaio suscitato dal caso Argento-Weinstein. Preferisco dare maggiore spazio a letture e approfondimenti sui cinquant'anni dall'omicidio del Che. Medito anche sull'acquisto del volume a fumetti di Oesthereld e Breccia, edito in una nuova edizione da Rizzoli Lizard. L'edicola riserva sempre qualche sorpresa, specie quando non la si bazzica da una quindicina di giorni. Qualche sostanziosa, immancabile novità mi attende anche al negozio di dischi. Recupero un paio di cosette dal reparto occasioni e prendo l'ultimo album di Sweet Pea Atkinson, uscito per Blue Note. Chi si ostina a sostenere che Don Was è un affarista senza scrupoli e produce da anni sempre il solito disco col manualetto della giovane marmotta a portata di mano è un coglione buono solo ad ascoltare Zucchero, Van Morrison che duetta con Michael Bublè e- ma che cazzo ne so? -i Jonas Brothers (ammesso che esistano ancora). Don Was è in realtà un incredibile music-man, uno che negli ultimi anni si è messo in gioco ed è entrato in casa Blue Note con un'umiltà e una devozione rare: My True Story (2013) di Aaron Neville è roba da primi della classe, per non parlare della ottima retrospettiva sulla scena jazz contemporanea di Detroit (Detroit Jazz City), dell'ultimo Charles Lloyd (I Long to See You) e del recentissimo Our Point of View, progetto firmato dai Blue Note All Stars. Tutto questo senza perdere di vista i numerosi impegni come "archivista" e produttore esclusivo (ma quello lo è ormai da quasi tre decenni) dei Rolling Stones e il suo primo amore, ossia il rock. Southern Blood di Gregg Allman e Revolution Come... Revolution Go... dei Gov't Mule sono due fra i migliori album usciti quest'anno: entrambi vantano la sua "bolla papale" e a questi andrà ora affiancato Get What You Deserve, seconda prova solista per Atkinson in trentacinque anni. Nulla a che vedere col dimenticato Don't Walk Away (Island Records, 1982), bizzarra escursione in territori disco-music per uno che arrivava da tutt'altro retroterra. Ascoltando un disco come Get What You Deserve non ci si sente necessariamente superiori, ma inevitabilmente fortunati sì: anzi, molto più che fortunati. Dieci canzoni di R&B sospeso fra tradizione e modernità, un paio di momenti più vicini al blues (c'è Keb Mo' in console e in studio, e pezzi come Last Two Dollars stanno là a ribadirne la presenza) e qualche bella iniezione di soul tutto da ballare non sono propriamente il pane quotidiano. Oggi, quando tutti si accontentano di accennare qualche sfasato passo di danza su una base latino-americana commerciale, poter godere di musica vera come questa, saperla apprezzare per ciò che è in grado di scatenare in noi è sempre un privilegio.
Rivedo gli amici, faccio ripartire la vita sociale, mi tuffo a capo fitto in una nuova serie televisiva di cui Sofi mi parla da qualche mese. Sulle prime resisto, poi, udendo frasi come <<Pensa che alla fine della terza puntata due personaggi ballano Harvest Moon di Neil Young...>>, cedo inesorabilmente. Roba che piace a me: poche puntate, presumibilmente autoconclusiva, attori e attrici di livello, soundtrack  di pregio, se possibile produzione HBO. Tutte prerogative che Big Little Lies rispetta. Da tempo non vedevo qualcosa che illustra, spiega, penetra ben in profondità un intero sistema sociale come riescono a fare questi sette episodi. Jean-Marc Valleè poi è un regista di cui ho riparlato molto bene in questo blog. Dallas Buyers Club e Wild sono state due grandi prove d'autore e questa serie è il suo nuovo lungo, splendido film.
Pianifico la campagna acquisti autunnale. Prenoto il nuovo EP di Kamasi Washington (negli USA è uscito il 22 settembre, ma a ora, nella distribuzione locale, se ne è persa ogni traccia) e, soprattutto, fisso per il 3 novembre il mio appuntamento col tredicesimo volume della Bootleg Series. Non credo che Dylan sia a conoscenza che compierò gli anni la settimana successiva, così da evitarmi ogni dubbio su quale edizione del suono nuovo box scegliere in questa occasione. In realtà, la situazione è più complessa delle apparenze: tre anni fa, sono stato molto contento di acquistare The Basement Tapes Raw, anche perchè il cofanetto da sei dischi denominato Complete l'ho scaricato in seguito, trovandolo di una noia mortale; posso dire altrettanto di quando, a novembre 2015, ho evitato come la peste sia l'edizione Collector's da feticisti (18 cd a svariate centinaia di euro) che quella Deluxe (6 cd oltre il centinaio di euro) di The Cutting Edge, che tutte le migliori perle le presenta comunque nel doppio dischetto best of. Queste scelte sono dettate, per prima cosa, da una motivazione economica (non sono ricco), e, in secondo luogo, da una presa di coscienza precisa: per quanto ami Dylan e attenda le sue uscite bootleg con un'ansia nettamente superiore a quella che ormai riservo ai suoi album, non necessariamente mi comporto come un coglione "deluxomane". Stavolta, però, gli otto cd sono davvero troppo ricolmi di roba mai emersa (neanche i cacciatori dylaniani più irriducibili sospettavano l'esistenza di certe canzoni, canzoni che in rari casi erano state registrate su cassetta in alcuni concerti, ma che perlopiù erano rimaste nomi scritti nero su bianco) per lasciarli al loro destino. E il DVD- e chi segue Dylan sa quanto questi è restio alla pubblicazione di materiale video -è un oggetto imperdibile. Punto. Già dalle succulente anteprime fornite dal canale YouTube del cantante, si capisce che l'edizione completa del cofanetto sarà un oggetto irrinunciabile per gli appassionati. Al contrario, i casual fans- ovvero quelli che la sera prima di andare a dormire si raccontano la novella in cui Bob Dylan non fa più grande musica da un trentennio e che, sotto sotto, un po' di ragione a quello scribacchino paraculo di Baricco l'hanno anche data -potranno farne a meno, tanto, stando al loro modo di vedere le cose, il Dylan del 1979-1981 è solo un integralista religioso ebreo convertito al cristianesimo che schiavizza le donne e vomita dogmi addosso a un pubblico inerme. E' dura spiegare a questa gente che non va bene definire i tre album usciti fra l'agosto 1979 e quello del 1981 "Trilogia della S", dal momento che anche il bellissimo Street Legal (1978) inizia, giusto appunto, con la medesima lettera, e che, al limite, per i suoi tre sfortunati successori si può utilizzare la dicitura di "Trilogia Cristiana". Detto questo, lasciatemi anche aggiungere che Slow Train Coming così come lo abbiamo sempre conosciuto è un album da quattro stelle superior, ovvero un'opera che includerei senza troppi ripensamenti in una ipotetica top-10 dylaniana. Come Bringing it All Back Home è un disco che apre una nuova fase, un nuovo cerchio, dà il via a un viaggio attraverso un nuovo pianeta (quello del gospel) e lo fa ricorrendo a una sfilza di brani intensi, audaci, spavaldi.

Nel dopocena di sabato, per digerire, approfittiamo dell'inaugurazione della stagione 2017/2018 del Tortuga di Poggibonsi. Questo locale- un circolo ACSI gestito da volontari -è diventato nell'arco di un paio di anni una colonna portante della vita notturna delle mie zone. La chiusura (momentanea?) del Sonar ha non azzerato ma senz'altro ridotto la possibilità di ascoltare, qui nella Valley, musica che esuli dalla volgarità del pop in stile RTL 102.5 e dalla commercialità sfacciata delle discoteche, e di conseguenza il Tortuga- che strutturalmente e strategicamente poteva rappresentarne l'unica alternativa nel raggio di una decina di chilometri -ha solo rinforzato la sua posizione. Rispetto al 2015, la stagione passata non ha brillato per qualità e varietà della proposta e l'eccesso di cover-bands ha influenzato gravemente la mia scarsa frequenza di partecipazione, ma di contro non sono mancate ottime serate. Inoltre, non va dimenticato l'impegno di chi vi presta servizio, da ottobre a maggio, ogni fine settimana. Locali del genere, frequentati spesso da amici con cui si condividono passioni musicali e politiche, diventano inevitabilmente porti di mare felici e lo fanno in maniera naturale, semplice, logica. La nuova stagione inizia con l'esibizione di una tribute-band di alto livello: quella Combriccola del Blasco in cui mi imbattei, per caso, a Montefiascone una sera del 2009 e che l'estate successiva ritrovai, altrettanto casualmente, nei pressi di Ventimiglia, mentre ero sulle tracce degli Stones in Exile. La formazione attuale è diversa da quella delle precedenti occasioni: me ne rendo subito conto, non appena butto gli occhi sul palco ancora vuoto, ma soprattutto noto, e non senza una punta di preoccupazione, l'assenza delle tastiere. Difficile immaginare la musica di Vasco priva delle tessiture sonore di Alberto Rocchetti, per non parlare dell'inconfondibile apporto dato per tanti anni (i migliori, per chi scrive) da Gaetano Curreri sia in studio che dal vivo. Sul grande schermo del Tortuga viene proiettata una puntata di un programma-spazzatura targato Canale (o "Canile", se preferite) 5 a cui la Combriccola ha partecipato, uno di questi talent che, per citare proprio il cantante della band stessa, "ci stanno un po' sfuggendo di mano". Difficile dargli torto. Un mio amico, rockista militante presente nel locale, agita la sua birra media ponendo un interrogativo che in questo preciso momento mi suona un po' fuori luogo: <<Ma il vero Vasco Rossi ci sarebbe andato a Canale 5?>>. Questioni che lasciano il tempo che trovano, anche perchè la serata, con una Combriccola "a scartamento ridotto" eppure equilibrata come mai l'avevo sentita (una fortissima voce femminile di accompagnamento e una sola, splendida chitarra che riesce a mediare perfettamente fra lo stile di Massimino Riva e quello di Steve Burns vogliono dire molto) fila via che è una bellezza. Il locale si riempie, la gente canta a squarciagola un'intera scaletta composta da scelte intelligenti, oculate e mai banali. Unico appunto: quattro, brutti pezzi risalenti alla recentissima produzione (2015-2017) sono troppi. Due ore e qualcosina di spettacolo scaldano il cuore. Si sente la passione di chi suona, la capacità di avvicinarsi ai gusti degli spettatori senza però cadere nella trappola di uno sterile karaoke e, al contrario, proponendo qualcosa in più, non fermandosi al "colpo facile".
Domenica di giri e giravolte per Firenze. E' caldissimo, ma non lo stesso clima capoverdiano che una parte di me rimpiange. Faccio scalo all'IBS, catena di cui finisco sempre col depredare il reparto Libraccio (merce usata, edizioni rare, fondi di magazzino, libelli stampati una volta e via, tutto al 50% del prezzo di copertina). Mi porto a casa una biografia dei Weather Report pubblicata dalla Stampa Alternativa e un grosso, bellissimo volume fotografico su Serge Gainsbourg, uno dei miei due, tre artisti di riferimento in fatto di musica francese. Mi imbatto nelle novità musicali. Ho deciso da tempo di non acquistare il nuovo Sticky Fingers Live at the Fonda Theater 2015 dei Rolling Stones, ma non per questo non mi rigiro fra le mani, nell'ordine, digipak con cd e DVD, solo DVD, Blu-Ray, cofanetto con DVD e triplo LP. Non cambio idea: nell'ultimo anno ho devoluto a questi gentiluomini non poche delle mie risorse finanziarie e, come se non bastasse, ho già messo gli occhi sulle registrazioni radiofoniche della BBC (finalmente ufficiali) il cui arrivo nei negozi è previsto per dicembre. Perciò, il nuovo volume degli archivi lo scaricherò senza troppi rimorsi o ripensamenti. Possibilmente in .flac, come piace a me.
Cerco Hudson, che quest'estate ho bypassato come un perfetto idiota, ma non lo trovo.<<Meglio...>>, penso, <<... che se c'era lo compravo subito!>>. Non sono riuscito, finora, a penetrare troppo il mondo del Jack DeJohnette bandleader e non ho mai stravisto neanche per John Scofield, "il più rock dei chitarristi jazz", molto più dei vari Al di Meola, McLaughlin, Abercrombie, Coryell. Insomma, tutta gente di cui non mi manca nulla (specie se si parla di discografia minimo-indispensabile) e che mi ha accompagnato lungo una fase di passaggio in cui il jazz iniziava e finiva con la musica fusion. Quel poco che ho sentito, tardivamente, di Hudson mi ha rimandato col pensiero a quelli ascolti: c'è qualche capolavoro che emerge timidamente, un paio di covers molto legate ai recenti sviluppi della carriera di Scofield, accenni di blues che- e questo mi dispiace -sono spesso costretti a restare tali. Il disco ha però una compattezza e una fluidità uniche: un vero concept-album che della gran parte dei concept, tuttavia, non possiede nè la pesantezza, nè certe forzature. Sicuramente alcuni jazzofili ne avranno boicottato l'ascolto, altri ancora neanche lo avranno considerato un disco jazz (sbagliando clamorosamente, per quanto mi riguarda), ma io di Hudson ne avrei avuto un gran bisogno intorno ai vent'anni. Inutile fingere: ultimamente, poca musica "nuova" (da intendersi come sinonimo di "contemporanea") desta in me emozioni analoghe.
A casa, leggo un paio di note stampa riguardanti l'imminente uscita del ventiquattresimo episodio delle Dave's Picks. Non manco mai l'appuntamento col download di questi cofanetti che, per banali motivi, non conoscono distribuzione in Europa. Sul sito TheCurtainWith.blogspot.com arrivano puntualissimi e quasi sempre in .flac: quelli che mi entusiasmano li masterizzo, quelli che mi lasciano così-così li relego all'iPod, quelli che non mi piacciono li lascio parcheggiati qualche giorno su iTunes, poi li cancello. I volumi usciti in tutto il 2017 mi hanno lasciato freddino, salvo, in parte, il Vol. 23, registrato a Eugene, Oregon, il 22 gennaio 1978. Lo stesso cofanetto Cornell 5/8/77, altrove recensito con voti che non scendevano sotto le quattro stelle su cinque, mi ha fatto provare un senso di noia impensabile, dettato, immagino, dall'inutilità e dal vuoto di sentimento che questo ascolto mi ha trasmesso in più punti. Scorro la scaletta: solita solfa del tour del 1972. Il punto resta quello di sempre: ha ancora senso, dopo Sunshine Daydream (2013), continuare la pubblicazione di concerti dei Dead risalenti a quell'anno?
Ho già accennato al fatto che, da giugno, non è più fra noi Biancaneve, la macchina che dal febbraio 2015 anni aveva sostituito la vecchia, immortale Wolksvagen "Dio" Lupo. Di conseguenza, non ho più modo di ascoltare la musica che voglio in macchina. L'anonima Punto rimasta nelle scuderie, oltre a bere benzina come una spugna, vanta un discutibile impianto Blaupunkt a cassette. Inizialmente, ho ritirato fuori la cassettina dotata di un cavo aux da collegare ad altre sorgenti (cellulare, iPod, tablet, ecc.), ma il meccanismo interno perde colpi e le casse (solo anteriori) sono di una qualità talmente scadente da rendere l'esperienza di ascolto mp3 un vero tunnel dell'orrore. Così, ho dato una spolverata all'archivio domestico, ho ritrovato compilation dimenticate, roba che credevo perduta in un passato che solo da poco ha iniziato a oscuro. Mi imbatto in un piccolo capolavoro produttivo del marzo 2005: una TDK C-90 in cui Appetite for Destruction incrocia Harvest. Provate a immaginare Welcome to the Jungle a cui segue Out in the Weekend, e così via. E poi un'altra ancora, fatta per le vacanze di Pasqua di quello stesso anno, che si apre con Shelter from the Storm (Live) (ovviamente quella di Hard Rain), prosegue con Bella di Carlos Santana, Love of my Life dei Queen e Compagno di scuola di Venditti, una canzone che già all'epoca mi faceva, paradossalmente, provare nostalgia per qualcosa che non avevo ancora vissuto ma che, inconsciamente, sentivo essere il mio inevitabile destino. Si può provare nostalgia del futuro? Forse sì, ma si deve anche preservare memoria del passato per affrontare meglio il presente. Così metto mano alle scorte auree, ovvero cinque cassette vergini (tre TDK e due Sony) di lunghezza variabile fra i 60 e i 90 minuti rimaste sepolte per anni. Per un paio d'ore riscopro il piacere di creare una C-90, zeppandola con di tutto un po' e titolandola Solstizio d'autunno. Per un paio di giorni fa la sua bella figura in auto, poi inizio a percepire come un'assenza di spontaneità, la tolgo e la regalo a chi saprà farne un uso migliore. Il nastro- che ho registrato con tutti i rismi su una deck Pionner molto buona -enfatizza il calore della musica; lo stesso calore che la Punto stempera in pochi minuti, tanto è mediocre l'impianto. Una sincera e onesta tristezza si impossessa di me. Fino a pochi giorni fa accarezzavo l'acquisto di uno stock di cassette vergini (e non di comuni audiocassette, ma delle TDK SA-X 90 trovate su eBay in Germania e ancora sigillate), sognavo- perchè sognare non costa niente -una pioggia di soldi scendere sulla mia figura e il conseguente arrivo, nella mia esistenza, di una piastra Nakamichi da un migliaio di euro. E invece tutto finisce prima ancora di cominciare, in questo mese di ottobre.

domenica 8 ottobre 2017

La fiaba di Tommaso e dei cuori infranti [Extra]

Tom Petty (1950-2017)
Tolstoj diceva che esistono solo due tipi di storie: quella in cui un uomo compie un viaggio e quella in cui uno straniero arriva in città. Tom Petty è senza dubbio uno dei pochi uomini di rock&roll ad aver raccontato splendidamente entrambe.
Quando ho letto della sua morte, sulle prime, sono rimasto impietrito: arresto cardiaco. Ma quando? Tom era uomo di vizi e stravizi, si sa. Non che se ne vantasse, ma ammetteva con disinvolta tranquillità di aver commesso abusi di ogni genere, lasciando spesso sottendere che i margini per eventuali ricadute- nonostante l'età -c'erano eccome. E' un errore frequente ascoltare o andare a vedere degli artisti immaginandoseli come divinità, degli dèi appartenenti a un pantheon del tutto particolare. Venti giorni fa, a Lucca, ne ho preso coscienza in maniera definitiva: mi sono trovato di fronte a delle persone, gente che pur chiamandosi Mick Jagger o Keith Richards si porta dietro bene e male i propri anni, gente che mangia, dorme, tossisce, si ammala, guarisce, muore, soffre, è felice. Gente che porta un sostenitore della buona musica (ma si è mai visto? a quasi trent'anni? invece di starsene su quel cazzo di divano a guardare X-Factor...) a compiere ancora lunghi viaggi con l'anima e il cuore, a far "sogni mostruosamente proibiti" come quello in cui si molla tutto e via, alla volta di Hyde Park, per assistere alla tappa europea del tour di addio degli Heartbreakers. Perchè tanto, alla fine, il Tom Petty a cui sono irrimediabilmente legato è il capoguida dei "cuori infranti". La carriera solista, i Traveling Wilburys, i Mudcrutch sono esperienze professionali imprescindibili per Petty e punti fermi nelle discografie di chi lo continuerà ad ascoltare, ma sono un'altra storia.
Anche quando mi imbattei in questo bastardello biondo dalla voce tagliente era autunno, un ottobre di crescita, incontri, confronti. Il nome di Tom Petty trovava spazio a fianco della nona traccia della splendida raccolta Rarities (Cd 2) dei Guns N'Roses, che Maggie si era affrettata ad approntare e masterizzarmi su un elegante compact blu opaco marcato TDK. Oggi tiro dentro e sfilo dischetti dal masterizzatore a ritmi da catena di montaggio, ma all'epoca vedersi consegnare dalla amica del cuore il secondo cd delle rarità- in studio e dal vivo -del proprio gruppo preferito era semplice gioia assoluta, un raggiungimento del nirvana che non trovava paragoni. Almeno in quel momento. Free Fallin' irruppe nella mia vita sotto forma di duetto fra Axl Rose e questo tizio, che dalla voce mi sembrava un innocuo cantante contry-pop, di quelli amatissimi in America: va bene, molto bravo a cantare, ma non lasciava sospettare alcun carisma da rocker. Il duetto resta uno dei più intensi mai registrati da Axl:
Molti anni dopo, in uno dei rari momenti in cui perfino il Festival di Sanremo sembrava assumere un senso, Free Fallin' fu additata da Charlize Theron (presente in trasmissione) come la propria canzone preferita. Carlo Conti entrò immediatamente nel panico: <<Ma come? Niente Mina? O icchell'è Frifollin?>>, sembrava chiedersi il presentatore sbiancato (e per sbiancare il Conti ce ne vuole). Risi molto a rivedere l'episodio su un quotidiano online, anche perchè Charlize- donna meravigliosa e intelligente -dapprima abbassò l'asticella sulla più nota Who's Gonna Ride Your Wild Horses degli U2, e infine, beffarda come una strega delle fiabe dei Grimm, rassicurò milioni di italiani che nella playlist della sua vita trovava posto anche Eros Ramazzotti. "Tutto è bene quel che finisce bene", e così, il giorno dopo, a gloria i giornali poterono titolare:
Tornando a noi, non passò molto tempo prima che riuscissi a mettere le mani su quel Full Moon Fever che di Petty era stata la prima, strepitosa prova solista e che conteneva, per l'appunto, Free Fallin' nella sua veste originale. E volle poi il caso che proprio nello stesso periodo, uscisse nelle sale un film pericolosissimo (in senso positivo) per un sedicenne appassionato di musica rock: nei titoli di coda di Elizabethtown il nome di Tom Petty appariva due volte e sua e di tali Heartbreakers era la splendida I'll Work Out.
Avevo appena iniziato a fare incetta di tante, piccole perle in formato mp3 degli Heartbreakers quando uscì Highway Companion, terza opera in solitaria del biondino della Florida. La notizia passò addirittura da un programma di Rete Allmusic di cui non rammento il titolo ma che segnalava, settimanalmente, le novità appartenenti a vari generi musicali. Corsi al negozio non troppo prima che chiudesse per le ferie estive e presi i classici "due piccioni con una fava": infatti, oltre al nuovo arrivato, trovai in forte sconto Tom Petty & The Heartbreakers (1976) e lo feci mio. Highway Companion era un piacevole manualetto di musica acustica americana, conteneva Night Driver (una delle canzoni più belle dell'intero repertorio di Petty), ma paragonato a Full Moon Fever faceva una figura cacina. Ma del resto si sa: il tempo aggiusta tutto. Anni dopo, infatti, avrei finito con innamorarmi perdutamente di Wildflowers, che delle tre prove soliste di Tom continua ad essere la mia preferita. In compenso, quel genuino, micidiale assaggio di new-wave di Tom Petty & The Heartbreakers mi avrebbe irretito per il resto della vita. Ogni giorno va vissuto intensamente, ma se lo fai con la musica giusta a tutto volume è meglio: il messaggio di questo gruppo non lasciava spazio a ulteriori riflessioni. Dieci pezzi, quaranta minuti: la perfezione. Oltretutto, una scoperta simile aveva luogo in un periodo dove ascoltavo anche molto punk: dai Ramones ai Green Day, dai Damned ai Clash, dai Fear ai Blink 182. Eppure il Tom Petty del '76- pur con il DNA segnato da Byrds, C.C.R., Dylan e Grateful Dead -mi sembrava così irrimediabilmente adatto a inserirsi in questa combriccola. E quando tutti- ma forse, soprattutto -tutte iniziarono a uscire di testa per gli Strokes io feci una gran fatica a capire il perchè di questa sbornia. <<Ma 'sta gente American Girl l'ha mai sentita?>>.
La seconda fase nel mio approfondimento della figura di Tom Petty va di pari passo con il mio cocente interesse per la vita e l'opera di Bob Dylan. Non è un segreto che il primo viaggio italiano gli Heartbreakers lo fecero nel 1987 in qualità di supporter-band di Dylan nell'appendice europea del Temples in Flames Tour. Nonostante fossero solo tre gli anni che separavano questi concerti da quelli europei del 1984, a livello artistico le differenze erano enormi: il tour dell'84 era servito a trainare un capolavoro del calibro di Infidels; il gruppo era composto da autentici pezzi da novanta, veterani del calibro dell'ex-Faces Ian McLagan o dell'ex-Rolling Stones Mick Taylor, e anche la lista degli ospiti somigliava in realtà a una lungo carnet di nomi illustri (Santana, Joan Baez, Eric Clapton, Bono, Van Morrison, ecc.); e se è pur vero che la cronaca discografica di quei concerti (Real Live) fu un fiasco, la critica si mostrò generalmente benevola e il pubblico incensò oltremodo le incredibili scalette di quelle serate. Ma nel 1986, quando la strada di Dylan incontrò quella della- per sua stessa ammissione -"ultima grande rock&roll band americana", le cose erano già drasticamente peggiorate: Empire Burlesque era stato un disco di ottimi testi messi però a disposizione di arrangiamenti troppo sperimentali (Arthur Baker, produttore molto richiesto in ambito electro-pop, aveva senza dubbio la sua dose di responsabilità) e di una produzione quantomeno discutibile, ma se il suo era stato un destino commercialmente fallimentare e popolarmente controverso, Knocked Out Loaded si annunciava mediocre già a livello di "lavori in corso". Petty e i suoi uomini arrivarono quando le registrazioni del disco erano già in corso, aggiunsero qualcosa qua e là e i loro contributi furono presto inghiottiti dal flusso di decine di altre sovraincisioni (nulla di nuovo, se consideriamo che tutto ciò che Dylan incise fra 1984 e 1988 in studio venne affrontato col medesimo metodo).
Tuttavia, l'autore di Mr. Tambourine sembrava davvero interessato agli Heartbreakers: gli piacevano i testi di Tom, la disinvoltura con cui da dieci anni questi se ne andava a giro miscelando, in parti uguali, Beatles, Who, Byrds e Grateful Dead; si diceva innamorato sia della chitarra di Mike Campbell che delle tastiere di Benmont Trench; senza contare che almeno un paio dei loro dischi erano stati degli autentici best-sellers, totalizzando vendite che Dylan non conteggiava da ben prima della sua discussa parabola evangelica. Insomma, potevano essere la perfetta band di accompagnamento al nuovo, lungo tour che la Columbia stava pianificando in quel periodo. Quando Knocked Out Loaded uscì, frettolosamente, nel luglio del 1986, la premiata ditta "Bob & Tom" stava già portando a termine le date americane del True Confessions Tour. La figura di Dylan, apparentemente ben lieto di un calendario di appuntamenti rock così fitto e variegato (sessanta date fra USA, Giappone e Oceania), tendeva ad appannarsi a vantaggio della band che lo accompagnava, ma la cosa non sembrava infastidirlo più di tanto: una moderata consumazione "combinata" di alcool e cocaina lo accompagnò in mezzo mondo per quasi sette mesi. In Chronicles, Dylan scrive che per lui fu un'ulteriore sconfitta realizzare che Tom Petty e i ragazzi, in quel particolare momento, fossero a dei livelli fisici e artistici che lui poteva solo sognare: "Tom stava dando il meglio di sè e io stavo dando il peggio. [...] Benmont Trench mi chiedeva sempre, quasi implorandomi, di inserire pezzi diversi nello spettacolo [...] e io tiravo sempre fuori qualche povera scusa. Non so nemmeno chi si stesse scusando, a dire il vero, perchè io avevo chiuso la porta su me stesso". Mentre la turnè volgeva al termine, la coppia Petty-Campbell apponeva, senza poca fatica, la propria firma alla produzione del settimo album in studio degli Heartbreakers, Let me Up (I've Had Enough), il cui fortunatissimo singolo di anticipazione era stato scritto proprio assieme a Bob Dylan.
Se è vero che certe grandi opere nascono in risposta a determinate difficoltà, è innegabile che da ciò che accadde nella tarda estate del 1987- ossia in seguito allo sgangherato tour da cui avrebbe preso forma Dylan & The Dead e all'uscita di Let me Up (album che tradì le aspettative di molti, facendo fare al gruppo un bel passo indietro sia in termini di qualità che di vendite) -scaturì una serie di eventi davvero degna di essere ricordata sia dagli appassionati di Petty che da quelli di Dylan. Il Temples in Flames Tour fu così ribattezzato perchè avrebbe preso l'avvio in Israele, più precisamente a Tel Aviv, il 5 settembre di quello stesso anno, si sarebbe poi spostato a Gerusalemme (il 7 settembre) e da lì avrebbe risalito il Mediterraneo, approdando in Europa per ventotto date (con doppi turni in Italia e Svizzera). "In quelle prime quattro serate cantai ottanta canzoni diverse, senza mai ripeterne una, giusto per vedere se ero capace di farlo", continua Dylan nel famoso quarto capitolo della sua autobiografia, per poi confessare che, nonostante i visibili miglioramenti rispetto ai concerti del 1986, il suo obbiettivo era comunque adempiere agli obblighi contrattuali e ritirarsi dalle scene. Non nasconde che ormai "era Petty che attirava la folla". Tuttavia, se l'esito del concerto all'Autodromo di Modena (12 settembre 1987) è tuttora fonte di discordia fra gli appassionati, quello all'Arena Civica di Milano (4 ottobre) passò alla storia per la bellezza delle esecuzioni, la scaletta incredibile e la potenza di fuoco dei musicisti. Tanto per dare un'idea (dal set precedente all'arrivo di Dylan):
La personalità tormentata (almeno all'epoca) di Dylan fornì a Petty una gigantesca ispirazione. Si presume che Bob, nel biennio 1985-1987, fosse stato tenuto all'oscuro della crisi che aveva iniziato a serpeggiare dopo la pubblicazione di Southern Accents fra i vari Heartbreakers e che si sarebbe fatta più intensa proprio dopo la conclusione del Temples in Flames Tour. Dal canto suo, Tom mise in pausa il gruppo e continuò a frequentare il proprio "vate" anche dopo la conclusione di quei bei concerti, prendendo appunti sia per il suo bramato esordio solista che per un progetto assai più particolare. Di fatti, durante le festività natalizie, George Harrison convocò Dylan a Santa Monica per buttare giù, rapidamente, un lato B da destinare al suo nuovo singolo, This is Love. Contrariamente al futuro premio Nobel, per l'ex-beatle era un periodo fecondo e fortunato: il suo disco di ritorno, Cloud Nine, andava a gonfie vele, complice l'eccellente lavoro di Jeff Lynne (ex-ELO) in console, e la Warner aveva deciso di prendersi un po' di tempo al fine di "pompare" il 45 giri di turno, avvalendosi della firma di qualche vecchia gloria (in questo caso, Dylan). Bob si presentò in compagnia di Petty, che con sommo stupore si ritrovò al cospetto non solo di Harrison e Lynne, ma pure del veterano Roy Orbison, uno dei grandi men in black della musica americana, un pioniere di quei pezzi r&r che Tom aveva selezionato per tutta la giovinezza nei juke-box di mezza Florida. Quella notte, fu registrata Handle with Care e nacque una delle più famose e straordinarie superband della storia.
I Traveling Wilburys si dotarono sin da subito di alcuni pseudonimi sotto cui, nei successivi dieci giorni, registrarono undici brani dove rock romantico, ruralità, beat e atmosfere west-coast si confondevano creando un curioso amalgama. Nessuno- e tantomeno gli stessi Wilburys -avrebbero potuto sospettare che il loro Vol. 1 avrebbe venduto cinque milioni di copie, così come non potevano aspettarsi il pressante interessamento da parte della Warner Brothers, intenzionata a creare un nuovo trademark musicale di successo, un franchise che da principio prevedeva addirittura una pellicola cinematografica. Tutti sogni, buoni propositi ed esagerazioni  che si interruppero il 6 dicembre 1988, quando Roy Orbison morì per un attacco di cuore, ponendo così fine alla prima (e migliore) formazione dei Traveling Wilburys. Manco a dirlo, uno dei momenti più alti di quel Vol. 1 era proprio firmato dalla coppia Dylan-Petty e, permettetemi di dirlo, canzoni come Tweeter and the Monkey Man suonano ancora oggi come appartenenti a un'altra categoria:
In una fredda mattina di gennaio 2009 ero a Firenze, al baretto di via degli Alfani dove eravamo soliti temporeggiare con caffè e sigarette prima di andare a lezione, ma quel giorno il clima era troppo ostico perfino per il più incallito dei tabagisti. Ce ne stavamo dentro, abbastanza pressati, tutti avvolti nei nostri cappotti pesanti, intenti ad abbracciare il calore rilasciato dalle tazzine. In un angolo, sul fondo del banco, trovava spazio un piccolo televisore a tubo catodico sempre acceso su una delle due, tre maggiori reti musicali del momento. Lo tenevano appoggiato su un mobiletto alto, lo stesso su cui, in un ripiano più basso, stava il micro-onde impiegato per riscaldare i primi veloci dell'ora di pranzo. Quella mattina mi venne da alzare gli occhi, tanto per vedere se passavano la musica di cui "abusavo" in quel periodo (su tutti, Oasis, Who, Stone Roses, Caparezza, Joy Division, e, ovviamente, Bob Dylan). E invece, da principio, riconobbi un giovane Johnny Deep strimpellare una chitarra acustica davanti a una piscina e poi, sul ritornello, il buon, vecchio Tom Petty vestito come un personaggio di Alice nel paese delle meraviglie. Into the Great Wide Open entrò così nella mia vita, sotto forma di un (bel) video musicale. Mica male per essere già nell'era che avrebbe portato MTV al tracollo e, infine, alla morte.
Seppure fossero passati almeno un paio di anni da quando avevo ascoltato quella manciata di canzoni in formato mp3 e neanche tre dall'acquisto di Highway Companion e Tom Petty & The Heartbreakers, la musica del gruppo tornò con una certa, inattesa veemenza nelle mie giornate. In un momento in cui ascoltavo quasi esclusivamente musica inglese, bazzicavo ambienti in cui si sconfinava spesso nell'inconsistenza della musica indie, cercavo di adattarmi come potevo al declino- già clamorosamente manifesto -di quelli che nel quinquennio appena trascorso sembravano dover essere il futuro della musica rock, o almeno di quel poco che ne era rimasto. Mancava poco allo scadere della prima decade del nuovo millennio, i critici (quelli validi e competenti, ovviamente) facevano fatica a mettere insieme dieci grandi dischi per gli anni Duemila, c'era la crisi, ma ancora doveva iniziare a mordere come dio voleva, l'università era piena di questi hipster (che ancora non avevano preso in prestito quel termine) in fissa con Obama e oscuri gruppi "alternativi" capitolini i cui nomi, negli anni a venire, sarebbero purtroppo divenuti noti ai più, e io cosa facevo? Spendevo la modica cifra di 9,90€ da Alberti Dischi per la mia copia di un disco americano datato 1991. In quell'inizio 2009, Into the Great Wide Open fu uno dei rari, sparuti raggi di sole intenti a perforare la mia quotidianità. Fu per lungo tempo, inevitabilmente, il mio album preferito di Tom Petty & The Heartbreakers.
Scavalcati i vent'anni, ebbi i miei bei alti e bassi privati, e Tom Petty lo lasciai di nuovo andare. Senza dubbio avevo piacere nell'ascoltare canzoni sparse qua e là: Mary Jane's Last DanceAngel DreamThe Best of EverythingDon't Come Around Here No More (questa sì che nel video doveva diverse cosette alla Alice del libro), AssholeHurt sono pezzi che non dovrebbero mancare nella discoteca degli appassionati, ma mi sembrava che la musica degli Heartbreakers nel XXI Secolo avesse perso mordente, urgenza, potenza, istinto e poesia. Mojo mi fu passato in chiavetta usb e fui ben lieto di non averne manco lontanamente considerato l'acquisto: sorbirsi per oltre un'ora Petty e Campbell che fanno (male) il verso ai Black Crowes non faceva parte dei miei programmi. Senza contare poi che la chitarra di Mike aveva dato un'ottima figura di sè nello splendido Together Through Life di Bob Dylan, disco che, al contrario di Mojo, figurava nella mia heavy-rotation da mesi e ci sarebbe rimasto per almeno un altro anno inoltrato. Di lì a poco il gruppo sarebbe tornato, per il giubilio di ormai due generazioni di appassionati, nel Belpaese: il 29 giugno del 2012 gli Heartbreakers suonarono a Lucca in piazza Napoleone il loro primo, vero concerto italiano (nelle cinque date del 1987, per quanto parzialmente leggendarie, figuravano come band di supporto). Il Comune temeva poca gente, ma la piazza finì col riempirsi. Le cronache musicali "del Bene" parlarono di un gran concerto. Posso crederci, così come sono sicuro che, se Babbo Natale fosse passato con un paio di anni di anticipo a recapitarmi il recuperato cofanetto The Live Anthology, avrei rotto ogni indugio e mi sarei organizzato.
Locandina del concerto di Lucca 2012 (organizzazione D&G)

Rimasi soddisfatto maggiormente da Hypnotic Eye, pubblicato in un momento in cui io ero sicuramente meno ripiegato su me stesso e la musica rock sembrava godere, stranamente, di una rinnovata salute: si trattava di quel 2014 pieno di belle sorprese e per Tom Petty e gli Heartbreakers fu anche l'anno che li vide vincitori di un Grammy come migliore album (scelta ampiamente discutibile, ma tant'è). Ci sono vari tipi di dischi: alcuni additano come loro preferiti quelli che, al primo ascolto, convincono poco, magari suonano acerbi e per nulla piacevoli ma poi, col passare del tempo, finiscono col conquistare. Ovviamente, sono i dischi che si aprono maggiormente- anche a distanza di molti anni -a rivalutazioni critiche di ogni genere, quelli per cui anche le migliori penne si sperticano con imbarazzante ritardo, tirando fuori posticci confronti col mondo dell'enologia e, più in generale, con tutto ciò che invecchiando migliora. Poi ci sono i dischi belli sempre, i capolavori, quelli che ti fanno dire "punto e basta": sono pochi, se paragonati all'offerta, pochissimi. E poi ci sono quei gran bei dischi da quattro, quattro stelle e mezzo, quelli che si beccano un voto compreso fra otto e nove (su dieci) ma che, col passare dei mesi, talvolta degli anni, svelano la loro vera natura: dischi da sei e mezzo, sette, al limite sette e mezzo. Ecco, a furia di ascolti, Hypnotic Eye finì col legarsi a quest'ultima tipologia: lì per lì lo presi per il giusto verso, ovvero per il più bel disco di Petty e soci dai tempi di Into the Great Wide Open, ma non ci mise molto ad assestarsi su livelli leggermente inferiori e ad andare a tener compagnia a roba notevole eperfino meno considerata come la colonna sonora di She's the One o Long after Dark.
Per tornare a convincermi che Tom Petty- ormai plurisessantenne -era ancora in grado di proporre una musica per quelli come me, gente che viaggia generalmente lungo le blues highway del proprio animo ed è alla ricerca del proprio nido di stelle, ci volle un disco in particolare: Mudcrutch 2, finito recentemente anche in qualche classifica di fine anno qui sul blog. Per chi si fosse perso la storiellina, i Mudcrutch erano un gruppo da pub, quello assieme a cui Petty- che ne era il leader -lasciò la Florida nei primi anni Settanta e andò in California in cerca di fortuna. Con questo nome, mentre si trovavano ancora di stanza a Gainesville, pubblicarono il primo 45 giri. Up in Mississippi Tonight fu prodotto e pubblicato, in tiratura minima, da un grossista di peperoncini appassionato di musica e fondatore di una piccola etichetta, la Pepper Records. Era il 1971, Petty aveva ventuno anni, Campbell e Trench erano già i suoi musicisti, e un ulteriore chitarra solista era quella di Tom Leadon (fratello di Bernie degli Eagles). Il successo sarebbe dovuto arrivare dopo il trasferimento sulla costa Ovest, grazie al contratto con l'indipendente Shelter (nella cui scuderia avevano parcheggiato i propri bolidi leggende del calibro di JJ Cale e Freddie King) e, soprattutto, al singolo Depot Gas, datato 1975 ma ineluttabilmente rimasto invenduto e, di conseguenza, fuori dalla classifica Billboard 200. Tale fallimento decretò la fine dei Mudcrutch, che rimasero un semplice gruppo da due singoli e quattro canzoni fino al 2008, quando Tom ebbe la brillante idea di riformarli e di tornare a offrire al proprio pubblico- in particolare alla vecchia guardia -una musica molto diversa da quella che ormai era solito suonare con gli Heartbreakers senza però dover sciogliere o mettere in pausa la sua creatura più famosa. Mudcrutch 2 mi colpì da subito per essere un gran punto di arrivo, superiore perfino all'ottimo predecessore che avrei recuperato in seguito. Un disco così da Petty, ormai, chi se lo aspettava più? Che chitarre, che suoni, che voce, che incredibili aperture melodiche. E poi quell'incredibile clip diretta da Sean Penn e con Anthony Hopkins per I Forgive It All, che, oltre a commuovermi, mi ricordava di come in fatto di gusto e cura dei propri video Petty fosse sempre stato uno dei numeri uno nel suo ambiente.
Recentemente leggevo che uno studio compiuto in USA su individui che hanno da poco superato la cinquantina ha dimostrato che le canzoni, i libri e i film "rei" di aver segnato le loro esistenze sono stati tutti scoperti fra gli 0 e i 27 anni. Quando è uscito Mudcrutch 2 avevo esattamente questa età: dunque, se questo studio dice il vero, quello che si è purtroppo rivelato l'album di addio di Tom Petty potrebbe anche passare alla storia come uno degli ultimi dischi in grado di aver inciso, anche solo vagamente, sulla mia vita? Non lo so e non lo voglio sapere. Quello che so, in compenso, è che Tom Petty non potrà più tirar fuori cartucce da quel cinturone che tanto ammiravo, da adolescente, sulla copertina del suo primo album. E che la mia condivisione su Facebook di American Girl risalente alla sera della sua morte ha avuto due likes. E che la nostra (dis)informazione è fra le peggiori al mondo anche quando si tratta di scrivere un coccodrillo di due righe sulla scomparsa di un artista dal richiamo internazionale. In quanto a esempi, potrei partire dal quotidiano della famiglia Agnelli (carta straccia filopadronale come ne è rimasta poca in circolazione)...
... alle falsità gratuite perpetrate da la Repubblica, che dal titolo suggerirebbe un intervento di tale Castaldo, ma che, stando ai fatti, lascia che il commento appartenga al morto che cammina Ernesto Assante, il quale, a sua volta, non manca di inforcare una puttanata dietro l'altra: dapprima occhieggia ad una nota canzone dei Corvi, poi allude ad una non ben specificata "generazione degli anni Ottanta" (la prima band di Petty, vorrei ricordarlo, si forma attorno al 1969):
Nel giro di alcune ore, il quotidiano marchiato Scalfari rincara la dose, definendo Petty un "rocker autodidatta". Epiteti macabramente sbellicanti che nemmeno il Mago Silvan sarebbe in grado di tirar fuori dal suo cilindro:
Infine, se l'incompetenza dei giornalisti italiani finora aveva fatto capolino solo dalle colonne più consuete, dalle pagine in odor di Confindustria di quello che si autoproclama ostinatamente "il giornale più venduto d'Italia" (ebbene sì, mi riferisco al Corriere della Sera) arriva per commentare la scomparsa di Petty- a firma di tale Cruccu -un'ulteriore carico di boiate.
Qualcuno, puntando il dito sul fatto che si parla di una materia che conosco bene e di un artista che stimavo enormemente, potrebbe accusarmi di eccessiva pignoleria, ma non è così. Non è un problema di "ciò che mi piace" o dei "nostri poveri artistiiiiii!!11111!!!!1" o della "nostra bellah musikaaa", no. Qua è proprio un problema di saper informare, di essere in grado di mettere in fila le parole e di saper controllare le fonti. Non è stato così, stavolta, con Tom Petty: è così tutte le volte, perfino con quei nomi noti alle cronache e riguardo ai quali, per lo stesso motivo, la raccolta di semplici informazioni basilari dovrebbe risultare perfino più agevole. Una vergogna che finisce con l'accompagnarsi al dispiacere di una perdita tanto grande, per la quale- al contrario di certe categorie professionali -non ho in serbo alcun epico discorso. Mi risparmio la retorica dell'ennesimo, inutile coccodrillo blogghettaro. Ho bellissimi ricordi con la musica di quest'uomo, e tanto mi basta. Oggi, nella sua città natale, Gainesville, in Florida, un intero stadio di football si è fermato per rendergli omaggio. Non è stato difficile, in questi giorni, leggere belle frasi e commenti profondi da parte dei tanti colleghi illustri che ne hanno voluto commentare la morte. In queste occasioni poi si aprono i rubinetti: escono fuori video inediti, foto mai viste, e altre cose, quasi tutte paradossalmente piacevoli. Debbo riconoscere, però, che il più bel pensiero mi è capitato a tiro sulla pagina Facebook del cantautore cecinese Cesare Carugi, uno parecchio attivo nella mia regione, la Toscana, senza mai passare per provinciale (tant'è che i suoi tour sono molto seguiti anche nel resto d'Italia). Un cantante completo, un professionista in studio e sul palco (per quanto abbia assistito a un suo solo concerto), un autore che sfida diktat e cliché e canta, orgogliosamente, in inglese. L'ho visto in azione al tempo in cui promuoveva il suo Here's to the Road, ed è un vero talento di casa nostra, uno che negli USA farebbe i numeri senza rischiare di finire a Nashville a suonare country di plastica per casalinghe annoiate. Ecco, Carugi, la mattina del 3 ottobre scorso ha scritto, fra le altre cose, che "non solo i dischi dovrebbero suonare così, è la vita che dovrebbe sempre suonare come Tom Petty". Non credo ci sia da aggiungere altro.

*CONSIGLI PER GLI ACQUISTI*

*"Er'pokerino", ovvero i 5 dischi di Tom Petty con gli Heartbreakers da avere*
1.
Tom Petty & The Heartbreakers (Shelter Records, 1976) 

2.
Damn the Torpedoes (Backstreet Records, 1979) 

3.
Hard Promises (Backstreet Records, 1981) 

4.
Southern Accents (MCA, 1985) 

5.
Into the Great Wide Open (MCA, 1991) 

*L'uomo solo al comando*

Full Moon Fever (MCA, 1989) 

Wildflowers (Warner Music, 1994) 

*Dal vivo*

The Live Anthology (Reprise, 2009, 4 Cd) 

*Collaborazioni, miscellanea, fuoriserie*

Traveling Wilburys, Vol. 1 (Warner Music, 1988) ½

Johnny Cash, Unchained (American Recordings, 1996) 

Mudcrutch, 2 (Reprise Records, 2016)