domenica 8 ottobre 2017

La fiaba di Tommaso e dei cuori infranti [Extra]

Tom Petty (1950-2017)
Tolstoj diceva che esistono solo due tipi di storie: quella in cui un uomo compie un viaggio e quella in cui uno straniero arriva in città. Tom Petty è senza dubbio uno dei pochi uomini di rock&roll ad aver raccontato splendidamente entrambe.
Quando ho letto della sua morte, sulle prime, sono rimasto impietrito: arresto cardiaco. Ma quando? Tom era uomo di vizi e stravizi, si sa. Non che se ne vantasse, ma ammetteva con disinvolta tranquillità di aver commesso abusi di ogni genere, lasciando spesso sottendere che i margini per eventuali ricadute- nonostante l'età -c'erano eccome. E' un errore frequente ascoltare o andare a vedere degli artisti immaginandoseli come divinità, degli dèi appartenenti a un pantheon del tutto particolare. Venti giorni fa, a Lucca, ne ho preso coscienza in maniera definitiva: mi sono trovato di fronte a delle persone, gente che pur chiamandosi Mick Jagger o Keith Richards si porta dietro bene e male i propri anni, gente che mangia, dorme, tossisce, si ammala, guarisce, muore, soffre, è felice. Gente che porta un sostenitore della buona musica (ma si è mai visto? a quasi trent'anni? invece di starsene su quel cazzo di divano a guardare X-Factor...) a compiere ancora lunghi viaggi con l'anima e il cuore, a far "sogni mostruosamente proibiti" come quello in cui si molla tutto e via, alla volta di Hyde Park, per assistere alla tappa europea del tour di addio degli Heartbreakers. Perchè tanto, alla fine, il Tom Petty a cui sono irrimediabilmente legato è il capoguida dei "cuori infranti". La carriera solista, i Traveling Wilburys, i Mudcrutch sono esperienze professionali imprescindibili per Petty e punti fermi nelle discografie di chi lo continuerà ad ascoltare, ma sono un'altra storia.
Anche quando mi imbattei in questo bastardello biondo dalla voce tagliente era autunno, un ottobre di crescita, incontri, confronti. Il nome di Tom Petty trovava spazio a fianco della nona traccia della splendida raccolta Rarities (Cd 2) dei Guns N'Roses, che Maggie si era affrettata ad approntare e masterizzarmi su un elegante compact blu opaco marcato TDK. Oggi tiro dentro e sfilo dischetti dal masterizzatore a ritmi da catena di montaggio, ma all'epoca vedersi consegnare dalla amica del cuore il secondo cd delle rarità- in studio e dal vivo -del proprio gruppo preferito era semplice gioia assoluta, un raggiungimento del nirvana che non trovava paragoni. Almeno in quel momento. Free Fallin' irruppe nella mia vita sotto forma di duetto fra Axl Rose e questo tizio, che dalla voce mi sembrava un innocuo cantante contry-pop, di quelli amatissimi in America: va bene, molto bravo a cantare, ma non lasciava sospettare alcun carisma da rocker. Il duetto resta uno dei più intensi mai registrati da Axl:
Molti anni dopo, in uno dei rari momenti in cui perfino il Festival di Sanremo sembrava assumere un senso, Free Fallin' fu additata da Charlize Theron (presente in trasmissione) come la propria canzone preferita. Carlo Conti entrò immediatamente nel panico: <<Ma come? Niente Mina? O icchell'è Frifollin?>>, sembrava chiedersi il presentatore sbiancato (e per sbiancare il Conti ce ne vuole). Risi molto a rivedere l'episodio su un quotidiano online, anche perchè Charlize- donna meravigliosa e intelligente -dapprima abbassò l'asticella sulla più nota Who's Gonna Ride Your Wild Horses degli U2, e infine, beffarda come una strega delle fiabe dei Grimm, rassicurò milioni di italiani che nella playlist della sua vita trovava posto anche Eros Ramazzotti. "Tutto è bene quel che finisce bene", e così, il giorno dopo, a gloria i giornali poterono titolare:
Tornando a noi, non passò molto tempo prima che riuscissi a mettere le mani su quel Full Moon Fever che di Petty era stata la prima, strepitosa prova solista e che conteneva, per l'appunto, Free Fallin' nella sua veste originale. E volle poi il caso che proprio nello stesso periodo, uscisse nelle sale un film pericolosissimo (in senso positivo) per un sedicenne appassionato di musica rock: nei titoli di coda di Elizabethtown il nome di Tom Petty appariva due volte e sua e di tali Heartbreakers era la splendida I'll Work Out.
Avevo appena iniziato a fare incetta di tante, piccole perle in formato mp3 degli Heartbreakers quando uscì Highway Companion, terza opera in solitaria del biondino della Florida. La notizia passò addirittura da un programma di Rete Allmusic di cui non rammento il titolo ma che segnalava, settimanalmente, le novità appartenenti a vari generi musicali. Corsi al negozio non troppo prima che chiudesse per le ferie estive e presi i classici "due piccioni con una fava": infatti, oltre al nuovo arrivato, trovai in forte sconto Tom Petty & The Heartbreakers (1976) e lo feci mio. Highway Companion era un piacevole manualetto di musica acustica americana, conteneva Night Driver (una delle canzoni più belle dell'intero repertorio di Petty), ma paragonato a Full Moon Fever faceva una figura cacina. Ma del resto si sa: il tempo aggiusta tutto. Anni dopo, infatti, avrei finito con innamorarmi perdutamente di Wildflowers, che delle tre prove soliste di Tom continua ad essere la mia preferita. In compenso, quel genuino, micidiale assaggio di new-wave di Tom Petty & The Heartbreakers mi avrebbe irretito per il resto della vita. Ogni giorno va vissuto intensamente, ma se lo fai con la musica giusta a tutto volume è meglio: il messaggio di questo gruppo non lasciava spazio a ulteriori riflessioni. Dieci pezzi, quaranta minuti: la perfezione. Oltretutto, una scoperta simile aveva luogo in un periodo dove ascoltavo anche molto punk: dai Ramones ai Green Day, dai Damned ai Clash, dai Fear ai Blink 182. Eppure il Tom Petty del '76- pur con il DNA segnato da Byrds, C.C.R., Dylan e Grateful Dead -mi sembrava così irrimediabilmente adatto a inserirsi in questa combriccola. E quando tutti- ma forse, soprattutto -tutte iniziarono a uscire di testa per gli Strokes io feci una gran fatica a capire il perchè di questa sbornia. <<Ma 'sta gente American Girl l'ha mai sentita?>>.
La seconda fase nel mio approfondimento della figura di Tom Petty va di pari passo con il mio cocente interesse per la vita e l'opera di Bob Dylan. Non è un segreto che il primo viaggio italiano gli Heartbreakers lo fecero nel 1987 in qualità di supporter-band di Dylan nell'appendice europea del Temples in Flames Tour. Nonostante fossero solo tre gli anni che separavano questi concerti da quelli europei del 1984, a livello artistico le differenze erano enormi: il tour dell'84 era servito a trainare un capolavoro del calibro di Infidels; il gruppo era composto da autentici pezzi da novanta, veterani del calibro dell'ex-Faces Ian McLagan o dell'ex-Rolling Stones Mick Taylor, e anche la lista degli ospiti somigliava in realtà a una lungo carnet di nomi illustri (Santana, Joan Baez, Eric Clapton, Bono, Van Morrison, ecc.); e se è pur vero che la cronaca discografica di quei concerti (Real Live) fu un fiasco, la critica si mostrò generalmente benevola e il pubblico incensò oltremodo le incredibili scalette di quelle serate. Ma nel 1986, quando la strada di Dylan incontrò quella della- per sua stessa ammissione -"ultima grande rock&roll band americana", le cose erano già drasticamente peggiorate: Empire Burlesque era stato un disco di ottimi testi messi però a disposizione di arrangiamenti troppo sperimentali (Arthur Baker, produttore molto richiesto in ambito electro-pop, aveva senza dubbio la sua dose di responsabilità) e di una produzione quantomeno discutibile, ma se il suo era stato un destino commercialmente fallimentare e popolarmente controverso, Knocked Out Loaded si annunciava mediocre già a livello di "lavori in corso". Petty e i suoi uomini arrivarono quando le registrazioni del disco erano già in corso, aggiunsero qualcosa qua e là e i loro contributi furono presto inghiottiti dal flusso di decine di altre sovraincisioni (nulla di nuovo, se consideriamo che tutto ciò che Dylan incise fra 1984 e 1988 in studio venne affrontato col medesimo metodo).
Tuttavia, l'autore di Mr. Tambourine sembrava davvero interessato agli Heartbreakers: gli piacevano i testi di Tom, la disinvoltura con cui da dieci anni questi se ne andava a giro miscelando, in parti uguali, Beatles, Who, Byrds e Grateful Dead; si diceva innamorato sia della chitarra di Mike Campbell che delle tastiere di Benmont Trench; senza contare che almeno un paio dei loro dischi erano stati degli autentici best-sellers, totalizzando vendite che Dylan non conteggiava da ben prima della sua discussa parabola evangelica. Insomma, potevano essere la perfetta band di accompagnamento al nuovo, lungo tour che la Columbia stava pianificando in quel periodo. Quando Knocked Out Loaded uscì, frettolosamente, nel luglio del 1986, la premiata ditta "Bob & Tom" stava già portando a termine le date americane del True Confessions Tour. La figura di Dylan, apparentemente ben lieto di un calendario di appuntamenti rock così fitto e variegato (sessanta date fra USA, Giappone e Oceania), tendeva ad appannarsi a vantaggio della band che lo accompagnava, ma la cosa non sembrava infastidirlo più di tanto: una moderata consumazione "combinata" di alcool e cocaina lo accompagnò in mezzo mondo per quasi sette mesi. In Chronicles, Dylan scrive che per lui fu un'ulteriore sconfitta realizzare che Tom Petty e i ragazzi, in quel particolare momento, fossero a dei livelli fisici e artistici che lui poteva solo sognare: "Tom stava dando il meglio di sè e io stavo dando il peggio. [...] Benmont Trench mi chiedeva sempre, quasi implorandomi, di inserire pezzi diversi nello spettacolo [...] e io tiravo sempre fuori qualche povera scusa. Non so nemmeno chi si stesse scusando, a dire il vero, perchè io avevo chiuso la porta su me stesso". Mentre la turnè volgeva al termine, la coppia Petty-Campbell apponeva, senza poca fatica, la propria firma alla produzione del settimo album in studio degli Heartbreakers, Let me Up (I've Had Enough), il cui fortunatissimo singolo di anticipazione era stato scritto proprio assieme a Bob Dylan.
Se è vero che certe grandi opere nascono in risposta a determinate difficoltà, è innegabile che da ciò che accadde nella tarda estate del 1987- ossia in seguito allo sgangherato tour da cui avrebbe preso forma Dylan & The Dead e all'uscita di Let me Up (album che tradì le aspettative di molti, facendo fare al gruppo un bel passo indietro sia in termini di qualità che di vendite) -scaturì una serie di eventi davvero degna di essere ricordata sia dagli appassionati di Petty che da quelli di Dylan. Il Temples in Flames Tour fu così ribattezzato perchè avrebbe preso l'avvio in Israele, più precisamente a Tel Aviv, il 5 settembre di quello stesso anno, si sarebbe poi spostato a Gerusalemme (il 7 settembre) e da lì avrebbe risalito il Mediterraneo, approdando in Europa per ventotto date (con doppi turni in Italia e Svizzera). "In quelle prime quattro serate cantai ottanta canzoni diverse, senza mai ripeterne una, giusto per vedere se ero capace di farlo", continua Dylan nel famoso quarto capitolo della sua autobiografia, per poi confessare che, nonostante i visibili miglioramenti rispetto ai concerti del 1986, il suo obbiettivo era comunque adempiere agli obblighi contrattuali e ritirarsi dalle scene. Non nasconde che ormai "era Petty che attirava la folla". Tuttavia, se l'esito del concerto all'Autodromo di Modena (12 settembre 1987) è tuttora fonte di discordia fra gli appassionati, quello all'Arena Civica di Milano (4 ottobre) passò alla storia per la bellezza delle esecuzioni, la scaletta incredibile e la potenza di fuoco dei musicisti. Tanto per dare un'idea (dal set precedente all'arrivo di Dylan):
La personalità tormentata (almeno all'epoca) di Dylan fornì a Petty una gigantesca ispirazione. Si presume che Bob, nel biennio 1985-1987, fosse stato tenuto all'oscuro della crisi che aveva iniziato a serpeggiare dopo la pubblicazione di Southern Accents fra i vari Heartbreakers e che si sarebbe fatta più intensa proprio dopo la conclusione del Temples in Flames Tour. Dal canto suo, Tom mise in pausa il gruppo e continuò a frequentare il proprio "vate" anche dopo la conclusione di quei bei concerti, prendendo appunti sia per il suo bramato esordio solista che per un progetto assai più particolare. Di fatti, durante le festività natalizie, George Harrison convocò Dylan a Santa Monica per buttare giù, rapidamente, un lato B da destinare al suo nuovo singolo, This is Love. Contrariamente al futuro premio Nobel, per l'ex-beatle era un periodo fecondo e fortunato: il suo disco di ritorno, Cloud Nine, andava a gonfie vele, complice l'eccellente lavoro di Jeff Lynne (ex-ELO) in console, e la Warner aveva deciso di prendersi un po' di tempo al fine di "pompare" il 45 giri di turno, avvalendosi della firma di qualche vecchia gloria (in questo caso, Dylan). Bob si presentò in compagnia di Petty, che con sommo stupore si ritrovò al cospetto non solo di Harrison e Lynne, ma pure del veterano Roy Orbison, uno dei grandi men in black della musica americana, un pioniere di quei pezzi r&r che Tom aveva selezionato per tutta la giovinezza nei juke-box di mezza Florida. Quella notte, fu registrata Handle with Care e nacque una delle più famose e straordinarie superband della storia.
I Traveling Wilburys si dotarono sin da subito di alcuni pseudonimi sotto cui, nei successivi dieci giorni, registrarono undici brani dove rock romantico, ruralità, beat e atmosfere west-coast si confondevano creando un curioso amalgama. Nessuno- e tantomeno gli stessi Wilburys -avrebbero potuto sospettare che il loro Vol. 1 avrebbe venduto cinque milioni di copie, così come non potevano aspettarsi il pressante interessamento da parte della Warner Brothers, intenzionata a creare un nuovo trademark musicale di successo, un franchise che da principio prevedeva addirittura una pellicola cinematografica. Tutti sogni, buoni propositi ed esagerazioni  che si interruppero il 6 dicembre 1988, quando Roy Orbison morì per un attacco di cuore, ponendo così fine alla prima (e migliore) formazione dei Traveling Wilburys. Manco a dirlo, uno dei momenti più alti di quel Vol. 1 era proprio firmato dalla coppia Dylan-Petty e, permettetemi di dirlo, canzoni come Tweeter and the Monkey Man suonano ancora oggi come appartenenti a un'altra categoria:
In una fredda mattina di gennaio 2009 ero a Firenze, al baretto di via degli Alfani dove eravamo soliti temporeggiare con caffè e sigarette prima di andare a lezione, ma quel giorno il clima era troppo ostico perfino per il più incallito dei tabagisti. Ce ne stavamo dentro, abbastanza pressati, tutti avvolti nei nostri cappotti pesanti, intenti ad abbracciare il calore rilasciato dalle tazzine. In un angolo, sul fondo del banco, trovava spazio un piccolo televisore a tubo catodico sempre acceso su una delle due, tre maggiori reti musicali del momento. Lo tenevano appoggiato su un mobiletto alto, lo stesso su cui, in un ripiano più basso, stava il micro-onde impiegato per riscaldare i primi veloci dell'ora di pranzo. Quella mattina mi venne da alzare gli occhi, tanto per vedere se passavano la musica di cui "abusavo" in quel periodo (su tutti, Oasis, Who, Stone Roses, Caparezza, Joy Division, e, ovviamente, Bob Dylan). E invece, da principio, riconobbi un giovane Johnny Deep strimpellare una chitarra acustica davanti a una piscina e poi, sul ritornello, il buon, vecchio Tom Petty vestito come un personaggio di Alice nel paese delle meraviglie. Into the Great Wide Open entrò così nella mia vita, sotto forma di un (bel) video musicale. Mica male per essere già nell'era che avrebbe portato MTV al tracollo e, infine, alla morte.
Seppure fossero passati almeno un paio di anni da quando avevo ascoltato quella manciata di canzoni in formato mp3 e neanche tre dall'acquisto di Highway Companion e Tom Petty & The Heartbreakers, la musica del gruppo tornò con una certa, inattesa veemenza nelle mie giornate. In un momento in cui ascoltavo quasi esclusivamente musica inglese, bazzicavo ambienti in cui si sconfinava spesso nell'inconsistenza della musica indie, cercavo di adattarmi come potevo al declino- già clamorosamente manifesto -di quelli che nel quinquennio appena trascorso sembravano dover essere il futuro della musica rock, o almeno di quel poco che ne era rimasto. Mancava poco allo scadere della prima decade del nuovo millennio, i critici (quelli validi e competenti, ovviamente) facevano fatica a mettere insieme dieci grandi dischi per gli anni Duemila, c'era la crisi, ma ancora doveva iniziare a mordere come dio voleva, l'università era piena di questi hipster (che ancora non avevano preso in prestito quel termine) in fissa con Obama e oscuri gruppi "alternativi" capitolini i cui nomi, negli anni a venire, sarebbero purtroppo divenuti noti ai più, e io cosa facevo? Spendevo la modica cifra di 9,90€ da Alberti Dischi per la mia copia di un disco americano datato 1991. In quell'inizio 2009, Into the Great Wide Open fu uno dei rari, sparuti raggi di sole intenti a perforare la mia quotidianità. Fu per lungo tempo, inevitabilmente, il mio album preferito di Tom Petty & The Heartbreakers.
Scavalcati i vent'anni, ebbi i miei bei alti e bassi privati, e Tom Petty lo lasciai di nuovo andare. Senza dubbio avevo piacere nell'ascoltare canzoni sparse qua e là: Mary Jane's Last DanceAngel DreamThe Best of EverythingDon't Come Around Here No More (questa sì che nel video doveva diverse cosette alla Alice del libro), AssholeHurt sono pezzi che non dovrebbero mancare nella discoteca degli appassionati, ma mi sembrava che la musica degli Heartbreakers nel XXI Secolo avesse perso mordente, urgenza, potenza, istinto e poesia. Mojo mi fu passato in chiavetta usb e fui ben lieto di non averne manco lontanamente considerato l'acquisto: sorbirsi per oltre un'ora Petty e Campbell che fanno (male) il verso ai Black Crowes non faceva parte dei miei programmi. Senza contare poi che la chitarra di Mike aveva dato un'ottima figura di sè nello splendido Together Through Life di Bob Dylan, disco che, al contrario di Mojo, figurava nella mia heavy-rotation da mesi e ci sarebbe rimasto per almeno un altro anno inoltrato. Di lì a poco il gruppo sarebbe tornato, per il giubilio di ormai due generazioni di appassionati, nel Belpaese: il 29 giugno del 2012 gli Heartbreakers suonarono a Lucca in piazza Napoleone il loro primo, vero concerto italiano (nelle cinque date del 1987, per quanto parzialmente leggendarie, figuravano come band di supporto). Il Comune temeva poca gente, ma la piazza finì col riempirsi. Le cronache musicali "del Bene" parlarono di un gran concerto. Posso crederci, così come sono sicuro che, se Babbo Natale fosse passato con un paio di anni di anticipo a recapitarmi il recuperato cofanetto The Live Anthology, avrei rotto ogni indugio e mi sarei organizzato.
Locandina del concerto di Lucca 2012 (organizzazione D&G)

Rimasi soddisfatto maggiormente da Hypnotic Eye, pubblicato in un momento in cui io ero sicuramente meno ripiegato su me stesso e la musica rock sembrava godere, stranamente, di una rinnovata salute: si trattava di quel 2014 pieno di belle sorprese e per Tom Petty e gli Heartbreakers fu anche l'anno che li vide vincitori di un Grammy come migliore album (scelta ampiamente discutibile, ma tant'è). Ci sono vari tipi di dischi: alcuni additano come loro preferiti quelli che, al primo ascolto, convincono poco, magari suonano acerbi e per nulla piacevoli ma poi, col passare del tempo, finiscono col conquistare. Ovviamente, sono i dischi che si aprono maggiormente- anche a distanza di molti anni -a rivalutazioni critiche di ogni genere, quelli per cui anche le migliori penne si sperticano con imbarazzante ritardo, tirando fuori posticci confronti col mondo dell'enologia e, più in generale, con tutto ciò che invecchiando migliora. Poi ci sono i dischi belli sempre, i capolavori, quelli che ti fanno dire "punto e basta": sono pochi, se paragonati all'offerta, pochissimi. E poi ci sono quei gran bei dischi da quattro, quattro stelle e mezzo, quelli che si beccano un voto compreso fra otto e nove (su dieci) ma che, col passare dei mesi, talvolta degli anni, svelano la loro vera natura: dischi da sei e mezzo, sette, al limite sette e mezzo. Ecco, a furia di ascolti, Hypnotic Eye finì col legarsi a quest'ultima tipologia: lì per lì lo presi per il giusto verso, ovvero per il più bel disco di Petty e soci dai tempi di Into the Great Wide Open, ma non ci mise molto ad assestarsi su livelli leggermente inferiori e ad andare a tener compagnia a roba notevole eperfino meno considerata come la colonna sonora di She's the One o Long after Dark.
Per tornare a convincermi che Tom Petty- ormai plurisessantenne -era ancora in grado di proporre una musica per quelli come me, gente che viaggia generalmente lungo le blues highway del proprio animo ed è alla ricerca del proprio nido di stelle, ci volle un disco in particolare: Mudcrutch 2, finito recentemente anche in qualche classifica di fine anno qui sul blog. Per chi si fosse perso la storiellina, i Mudcrutch erano un gruppo da pub, quello assieme a cui Petty- che ne era il leader -lasciò la Florida nei primi anni Settanta e andò in California in cerca di fortuna. Con questo nome, mentre si trovavano ancora di stanza a Gainesville, pubblicarono il primo 45 giri. Up in Mississippi Tonight fu prodotto e pubblicato, in tiratura minima, da un grossista di peperoncini appassionato di musica e fondatore di una piccola etichetta, la Pepper Records. Era il 1971, Petty aveva ventuno anni, Campbell e Trench erano già i suoi musicisti, e un ulteriore chitarra solista era quella di Tom Leadon (fratello di Bernie degli Eagles). Il successo sarebbe dovuto arrivare dopo il trasferimento sulla costa Ovest, grazie al contratto con l'indipendente Shelter (nella cui scuderia avevano parcheggiato i propri bolidi leggende del calibro di JJ Cale e Freddie King) e, soprattutto, al singolo Depot Gas, datato 1975 ma ineluttabilmente rimasto invenduto e, di conseguenza, fuori dalla classifica Billboard 200. Tale fallimento decretò la fine dei Mudcrutch, che rimasero un semplice gruppo da due singoli e quattro canzoni fino al 2008, quando Tom ebbe la brillante idea di riformarli e di tornare a offrire al proprio pubblico- in particolare alla vecchia guardia -una musica molto diversa da quella che ormai era solito suonare con gli Heartbreakers senza però dover sciogliere o mettere in pausa la sua creatura più famosa. Mudcrutch 2 mi colpì da subito per essere un gran punto di arrivo, superiore perfino all'ottimo predecessore che avrei recuperato in seguito. Un disco così da Petty, ormai, chi se lo aspettava più? Che chitarre, che suoni, che voce, che incredibili aperture melodiche. E poi quell'incredibile clip diretta da Sean Penn e con Anthony Hopkins per I Forgive It All, che, oltre a commuovermi, mi ricordava di come in fatto di gusto e cura dei propri video Petty fosse sempre stato uno dei numeri uno nel suo ambiente.
Recentemente leggevo che uno studio compiuto in USA su individui che hanno da poco superato la cinquantina ha dimostrato che le canzoni, i libri e i film "rei" di aver segnato le loro esistenze sono stati tutti scoperti fra gli 0 e i 27 anni. Quando è uscito Mudcrutch 2 avevo esattamente questa età: dunque, se questo studio dice il vero, quello che si è purtroppo rivelato l'album di addio di Tom Petty potrebbe anche passare alla storia come uno degli ultimi dischi in grado di aver inciso, anche solo vagamente, sulla mia vita? Non lo so e non lo voglio sapere. Quello che so, in compenso, è che Tom Petty non potrà più tirar fuori cartucce da quel cinturone che tanto ammiravo, da adolescente, sulla copertina del suo primo album. E che la mia condivisione su Facebook di American Girl risalente alla sera della sua morte ha avuto due likes. E che la nostra (dis)informazione è fra le peggiori al mondo anche quando si tratta di scrivere un coccodrillo di due righe sulla scomparsa di un artista dal richiamo internazionale. In quanto a esempi, potrei partire dal quotidiano della famiglia Agnelli (carta straccia filopadronale come ne è rimasta poca in circolazione)...
... alle falsità gratuite perpetrate da la Repubblica, che dal titolo suggerirebbe un intervento di tale Castaldo, ma che, stando ai fatti, lascia che il commento appartenga al morto che cammina Ernesto Assante, il quale, a sua volta, non manca di inforcare una puttanata dietro l'altra: dapprima occhieggia ad una nota canzone dei Corvi, poi allude ad una non ben specificata "generazione degli anni Ottanta" (la prima band di Petty, vorrei ricordarlo, si forma attorno al 1969):
Nel giro di alcune ore, il quotidiano marchiato Scalfari rincara la dose, definendo Petty un "rocker autodidatta". Epiteti macabramente sbellicanti che nemmeno il Mago Silvan sarebbe in grado di tirar fuori dal suo cilindro:
Infine, se l'incompetenza dei giornalisti italiani finora aveva fatto capolino solo dalle colonne più consuete, dalle pagine in odor di Confindustria di quello che si autoproclama ostinatamente "il giornale più venduto d'Italia" (ebbene sì, mi riferisco al Corriere della Sera) arriva per commentare la scomparsa di Petty- a firma di tale Cruccu -un'ulteriore carico di boiate.
Qualcuno, puntando il dito sul fatto che si parla di una materia che conosco bene e di un artista che stimavo enormemente, potrebbe accusarmi di eccessiva pignoleria, ma non è così. Non è un problema di "ciò che mi piace" o dei "nostri poveri artistiiiiii!!11111!!!!1" o della "nostra bellah musikaaa", no. Qua è proprio un problema di saper informare, di essere in grado di mettere in fila le parole e di saper controllare le fonti. Non è stato così, stavolta, con Tom Petty: è così tutte le volte, perfino con quei nomi noti alle cronache e riguardo ai quali, per lo stesso motivo, la raccolta di semplici informazioni basilari dovrebbe risultare perfino più agevole. Una vergogna che finisce con l'accompagnarsi al dispiacere di una perdita tanto grande, per la quale- al contrario di certe categorie professionali -non ho in serbo alcun epico discorso. Mi risparmio la retorica dell'ennesimo, inutile coccodrillo blogghettaro. Ho bellissimi ricordi con la musica di quest'uomo, e tanto mi basta. Oggi, nella sua città natale, Gainesville, in Florida, un intero stadio di football si è fermato per rendergli omaggio. Non è stato difficile, in questi giorni, leggere belle frasi e commenti profondi da parte dei tanti colleghi illustri che ne hanno voluto commentare la morte. In queste occasioni poi si aprono i rubinetti: escono fuori video inediti, foto mai viste, e altre cose, quasi tutte paradossalmente piacevoli. Debbo riconoscere, però, che il più bel pensiero mi è capitato a tiro sulla pagina Facebook del cantautore cecinese Cesare Carugi, uno parecchio attivo nella mia regione, la Toscana, senza mai passare per provinciale (tant'è che i suoi tour sono molto seguiti anche nel resto d'Italia). Un cantante completo, un professionista in studio e sul palco (per quanto abbia assistito a un suo solo concerto), un autore che sfida diktat e cliché e canta, orgogliosamente, in inglese. L'ho visto in azione al tempo in cui promuoveva il suo Here's to the Road, ed è un vero talento di casa nostra, uno che negli USA farebbe i numeri senza rischiare di finire a Nashville a suonare country di plastica per casalinghe annoiate. Ecco, Carugi, la mattina del 3 ottobre scorso ha scritto, fra le altre cose, che "non solo i dischi dovrebbero suonare così, è la vita che dovrebbe sempre suonare come Tom Petty". Non credo ci sia da aggiungere altro.

*CONSIGLI PER GLI ACQUISTI*

*"Er'pokerino", ovvero i 5 dischi di Tom Petty con gli Heartbreakers da avere*
1.
Tom Petty & The Heartbreakers (Shelter Records, 1976) 

2.
Damn the Torpedoes (Backstreet Records, 1979) 

3.
Hard Promises (Backstreet Records, 1981) 

4.
Southern Accents (MCA, 1985) 

5.
Into the Great Wide Open (MCA, 1991) 

*L'uomo solo al comando*

Full Moon Fever (MCA, 1989) 

Wildflowers (Warner Music, 1994) 

*Dal vivo*

The Live Anthology (Reprise, 2009, 4 Cd) 

*Collaborazioni, miscellanea, fuoriserie*

Traveling Wilburys, Vol. 1 (Warner Music, 1988) ½

Johnny Cash, Unchained (American Recordings, 1996) 

Mudcrutch, 2 (Reprise Records, 2016) 

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