venerdì 20 ottobre 2017

Ottobreggiando [Extra]

Ringrazio tutta una serie di congiunzioni astrali per avermi permesso di trascorrere dieci giorni di ferie a Capo Verde. Scoprire con la tua dolce compagna nuovi luoghi, confrontarsi con un altro mondo, immergersi  per la prima volta nelle acque dell'Atlantico (un tratto di oceano, quello capoverdiano, splendido), esplorare deserti, città di porto, villaggi di pescatori, foreste lussureggianti, alture spazzate da tutti i venti dell'universo è stato utile primariamente a purificarsi l'anima, e poi a immagazzinare le quantità di iodio e ossigeno utili a traghettare la vita verso un altro inverno. Oltre, ovviamente, a permettere di addentrarsi nella cultura musicale locale- fra le più ricche al mondo -e di importare, anche in questo angolo di Macaronesia, "verbi" di lontani paesi occidentali. Su tutti, quello del Morto Riconoscente:
Deadhead in Capo Verde
Dopodichè, tutto finisce. Di colpo, si fa un salto di tre ore avanti e di dieci, quindici gradi centigradi indietro. Sulle prime, si rimane sbattuti e spiazzati, ma la routine torna ad impadronirsi di noi velocemente. E così si passano in rassegna le notizie: 4.000 esuberi all'Ilva e il referendum Catalano sono fra le poche a conquistare il mio interesse, oltre, ovviamente, al vespaio suscitato dal caso Argento-Weinstein. Preferisco dare maggiore spazio a letture e approfondimenti sui cinquant'anni dall'omicidio del Che. Medito anche sull'acquisto del volume a fumetti di Oesthereld e Breccia, edito in una nuova edizione da Rizzoli Lizard. L'edicola riserva sempre qualche sorpresa, specie quando non la si bazzica da una quindicina di giorni. Qualche sostanziosa, immancabile novità mi attende anche al negozio di dischi. Recupero un paio di cosette dal reparto occasioni e prendo l'ultimo album di Sweet Pea Atkinson, uscito per Blue Note. Chi si ostina a sostenere che Don Was è un affarista senza scrupoli e produce da anni sempre il solito disco col manualetto della giovane marmotta a portata di mano è un coglione buono solo ad ascoltare Zucchero, Van Morrison che duetta con Michael Bublè e- ma che cazzo ne so? -i Jonas Brothers (ammesso che esistano ancora). Don Was è in realtà un incredibile music-man, uno che negli ultimi anni si è messo in gioco ed è entrato in casa Blue Note con un'umiltà e una devozione rare: My True Story (2013) di Aaron Neville è roba da primi della classe, per non parlare della ottima retrospettiva sulla scena jazz contemporanea di Detroit (Detroit Jazz City), dell'ultimo Charles Lloyd (I Long to See You) e del recentissimo Our Point of View, progetto firmato dai Blue Note All Stars. Tutto questo senza perdere di vista i numerosi impegni come "archivista" e produttore esclusivo (ma quello lo è ormai da quasi tre decenni) dei Rolling Stones e il suo primo amore, ossia il rock. Southern Blood di Gregg Allman e Revolution Come... Revolution Go... dei Gov't Mule sono due fra i migliori album usciti quest'anno: entrambi vantano la sua "bolla papale" e a questi andrà ora affiancato Get What You Deserve, seconda prova solista per Atkinson in trentacinque anni. Nulla a che vedere col dimenticato Don't Walk Away (Island Records, 1982), bizzarra escursione in territori disco-music per uno che arrivava da tutt'altro retroterra. Ascoltando un disco come Get What You Deserve non ci si sente necessariamente superiori, ma inevitabilmente fortunati sì: anzi, molto più che fortunati. Dieci canzoni di R&B sospeso fra tradizione e modernità, un paio di momenti più vicini al blues (c'è Keb Mo' in console e in studio, e pezzi come Last Two Dollars stanno là a ribadirne la presenza) e qualche bella iniezione di soul tutto da ballare non sono propriamente il pane quotidiano. Oggi, quando tutti si accontentano di accennare qualche sfasato passo di danza su una base latino-americana commerciale, poter godere di musica vera come questa, saperla apprezzare per ciò che è in grado di scatenare in noi è sempre un privilegio.
Rivedo gli amici, faccio ripartire la vita sociale, mi tuffo a capo fitto in una nuova serie televisiva di cui Sofi mi parla da qualche mese. Sulle prime resisto, poi, udendo frasi come <<Pensa che alla fine della terza puntata due personaggi ballano Harvest Moon di Neil Young...>>, cedo inesorabilmente. Roba che piace a me: poche puntate, presumibilmente autoconclusiva, attori e attrici di livello, soundtrack  di pregio, se possibile produzione HBO. Tutte prerogative che Big Little Lies rispetta. Da tempo non vedevo qualcosa che illustra, spiega, penetra ben in profondità un intero sistema sociale come riescono a fare questi sette episodi. Jean-Marc Valleè poi è un regista di cui ho riparlato molto bene in questo blog. Dallas Buyers Club e Wild sono state due grandi prove d'autore e questa serie è il suo nuovo lungo, splendido film.
Pianifico la campagna acquisti autunnale. Prenoto il nuovo EP di Kamasi Washington (negli USA è uscito il 22 settembre, ma a ora, nella distribuzione locale, se ne è persa ogni traccia) e, soprattutto, fisso per il 3 novembre il mio appuntamento col tredicesimo volume della Bootleg Series. Non credo che Dylan sia a conoscenza che compierò gli anni la settimana successiva, così da evitarmi ogni dubbio su quale edizione del suono nuovo box scegliere in questa occasione. In realtà, la situazione è più complessa delle apparenze: tre anni fa, sono stato molto contento di acquistare The Basement Tapes Raw, anche perchè il cofanetto da sei dischi denominato Complete l'ho scaricato in seguito, trovandolo di una noia mortale; posso dire altrettanto di quando, a novembre 2015, ho evitato come la peste sia l'edizione Collector's da feticisti (18 cd a svariate centinaia di euro) che quella Deluxe (6 cd oltre il centinaio di euro) di The Cutting Edge, che tutte le migliori perle le presenta comunque nel doppio dischetto best of. Queste scelte sono dettate, per prima cosa, da una motivazione economica (non sono ricco), e, in secondo luogo, da una presa di coscienza precisa: per quanto ami Dylan e attenda le sue uscite bootleg con un'ansia nettamente superiore a quella che ormai riservo ai suoi album, non necessariamente mi comporto come un coglione "deluxomane". Stavolta, però, gli otto cd sono davvero troppo ricolmi di roba mai emersa (neanche i cacciatori dylaniani più irriducibili sospettavano l'esistenza di certe canzoni, canzoni che in rari casi erano state registrate su cassetta in alcuni concerti, ma che perlopiù erano rimaste nomi scritti nero su bianco) per lasciarli al loro destino. E il DVD- e chi segue Dylan sa quanto questi è restio alla pubblicazione di materiale video -è un oggetto imperdibile. Punto. Già dalle succulente anteprime fornite dal canale YouTube del cantante, si capisce che l'edizione completa del cofanetto sarà un oggetto irrinunciabile per gli appassionati. Al contrario, i casual fans- ovvero quelli che la sera prima di andare a dormire si raccontano la novella in cui Bob Dylan non fa più grande musica da un trentennio e che, sotto sotto, un po' di ragione a quello scribacchino paraculo di Baricco l'hanno anche data -potranno farne a meno, tanto, stando al loro modo di vedere le cose, il Dylan del 1979-1981 è solo un integralista religioso ebreo convertito al cristianesimo che schiavizza le donne e vomita dogmi addosso a un pubblico inerme. E' dura spiegare a questa gente che non va bene definire i tre album usciti fra l'agosto 1979 e quello del 1981 "Trilogia della S", dal momento che anche il bellissimo Street Legal (1978) inizia, giusto appunto, con la medesima lettera, e che, al limite, per i suoi tre sfortunati successori si può utilizzare la dicitura di "Trilogia Cristiana". Detto questo, lasciatemi anche aggiungere che Slow Train Coming così come lo abbiamo sempre conosciuto è un album da quattro stelle superior, ovvero un'opera che includerei senza troppi ripensamenti in una ipotetica top-10 dylaniana. Come Bringing it All Back Home è un disco che apre una nuova fase, un nuovo cerchio, dà il via a un viaggio attraverso un nuovo pianeta (quello del gospel) e lo fa ricorrendo a una sfilza di brani intensi, audaci, spavaldi.

Nel dopocena di sabato, per digerire, approfittiamo dell'inaugurazione della stagione 2017/2018 del Tortuga di Poggibonsi. Questo locale- un circolo ACSI gestito da volontari -è diventato nell'arco di un paio di anni una colonna portante della vita notturna delle mie zone. La chiusura (momentanea?) del Sonar ha non azzerato ma senz'altro ridotto la possibilità di ascoltare, qui nella Valley, musica che esuli dalla volgarità del pop in stile RTL 102.5 e dalla commercialità sfacciata delle discoteche, e di conseguenza il Tortuga- che strutturalmente e strategicamente poteva rappresentarne l'unica alternativa nel raggio di una decina di chilometri -ha solo rinforzato la sua posizione. Rispetto al 2015, la stagione passata non ha brillato per qualità e varietà della proposta e l'eccesso di cover-bands ha influenzato gravemente la mia scarsa frequenza di partecipazione, ma di contro non sono mancate ottime serate. Inoltre, non va dimenticato l'impegno di chi vi presta servizio, da ottobre a maggio, ogni fine settimana. Locali del genere, frequentati spesso da amici con cui si condividono passioni musicali e politiche, diventano inevitabilmente porti di mare felici e lo fanno in maniera naturale, semplice, logica. La nuova stagione inizia con l'esibizione di una tribute-band di alto livello: quella Combriccola del Blasco in cui mi imbattei, per caso, a Montefiascone una sera del 2009 e che l'estate successiva ritrovai, altrettanto casualmente, nei pressi di Ventimiglia, mentre ero sulle tracce degli Stones in Exile. La formazione attuale è diversa da quella delle precedenti occasioni: me ne rendo subito conto, non appena butto gli occhi sul palco ancora vuoto, ma soprattutto noto, e non senza una punta di preoccupazione, l'assenza delle tastiere. Difficile immaginare la musica di Vasco priva delle tessiture sonore di Alberto Rocchetti, per non parlare dell'inconfondibile apporto dato per tanti anni (i migliori, per chi scrive) da Gaetano Curreri sia in studio che dal vivo. Sul grande schermo del Tortuga viene proiettata una puntata di un programma-spazzatura targato Canale (o "Canile", se preferite) 5 a cui la Combriccola ha partecipato, uno di questi talent che, per citare proprio il cantante della band stessa, "ci stanno un po' sfuggendo di mano". Difficile dargli torto. Un mio amico, rockista militante presente nel locale, agita la sua birra media ponendo un interrogativo che in questo preciso momento mi suona un po' fuori luogo: <<Ma il vero Vasco Rossi ci sarebbe andato a Canale 5?>>. Questioni che lasciano il tempo che trovano, anche perchè la serata, con una Combriccola "a scartamento ridotto" eppure equilibrata come mai l'avevo sentita (una fortissima voce femminile di accompagnamento e una sola, splendida chitarra che riesce a mediare perfettamente fra lo stile di Massimino Riva e quello di Steve Burns vogliono dire molto) fila via che è una bellezza. Il locale si riempie, la gente canta a squarciagola un'intera scaletta composta da scelte intelligenti, oculate e mai banali. Unico appunto: quattro, brutti pezzi risalenti alla recentissima produzione (2015-2017) sono troppi. Due ore e qualcosina di spettacolo scaldano il cuore. Si sente la passione di chi suona, la capacità di avvicinarsi ai gusti degli spettatori senza però cadere nella trappola di uno sterile karaoke e, al contrario, proponendo qualcosa in più, non fermandosi al "colpo facile".
Domenica di giri e giravolte per Firenze. E' caldissimo, ma non lo stesso clima capoverdiano che una parte di me rimpiange. Faccio scalo all'IBS, catena di cui finisco sempre col depredare il reparto Libraccio (merce usata, edizioni rare, fondi di magazzino, libelli stampati una volta e via, tutto al 50% del prezzo di copertina). Mi porto a casa una biografia dei Weather Report pubblicata dalla Stampa Alternativa e un grosso, bellissimo volume fotografico su Serge Gainsbourg, uno dei miei due, tre artisti di riferimento in fatto di musica francese. Mi imbatto nelle novità musicali. Ho deciso da tempo di non acquistare il nuovo Sticky Fingers Live at the Fonda Theater 2015 dei Rolling Stones, ma non per questo non mi rigiro fra le mani, nell'ordine, digipak con cd e DVD, solo DVD, Blu-Ray, cofanetto con DVD e triplo LP. Non cambio idea: nell'ultimo anno ho devoluto a questi gentiluomini non poche delle mie risorse finanziarie e, come se non bastasse, ho già messo gli occhi sulle registrazioni radiofoniche della BBC (finalmente ufficiali) il cui arrivo nei negozi è previsto per dicembre. Perciò, il nuovo volume degli archivi lo scaricherò senza troppi rimorsi o ripensamenti. Possibilmente in .flac, come piace a me.
Cerco Hudson, che quest'estate ho bypassato come un perfetto idiota, ma non lo trovo.<<Meglio...>>, penso, <<... che se c'era lo compravo subito!>>. Non sono riuscito, finora, a penetrare troppo il mondo del Jack DeJohnette bandleader e non ho mai stravisto neanche per John Scofield, "il più rock dei chitarristi jazz", molto più dei vari Al di Meola, McLaughlin, Abercrombie, Coryell. Insomma, tutta gente di cui non mi manca nulla (specie se si parla di discografia minimo-indispensabile) e che mi ha accompagnato lungo una fase di passaggio in cui il jazz iniziava e finiva con la musica fusion. Quel poco che ho sentito, tardivamente, di Hudson mi ha rimandato col pensiero a quelli ascolti: c'è qualche capolavoro che emerge timidamente, un paio di covers molto legate ai recenti sviluppi della carriera di Scofield, accenni di blues che- e questo mi dispiace -sono spesso costretti a restare tali. Il disco ha però una compattezza e una fluidità uniche: un vero concept-album che della gran parte dei concept, tuttavia, non possiede nè la pesantezza, nè certe forzature. Sicuramente alcuni jazzofili ne avranno boicottato l'ascolto, altri ancora neanche lo avranno considerato un disco jazz (sbagliando clamorosamente, per quanto mi riguarda), ma io di Hudson ne avrei avuto un gran bisogno intorno ai vent'anni. Inutile fingere: ultimamente, poca musica "nuova" (da intendersi come sinonimo di "contemporanea") desta in me emozioni analoghe.
A casa, leggo un paio di note stampa riguardanti l'imminente uscita del ventiquattresimo episodio delle Dave's Picks. Non manco mai l'appuntamento col download di questi cofanetti che, per banali motivi, non conoscono distribuzione in Europa. Sul sito TheCurtainWith.blogspot.com arrivano puntualissimi e quasi sempre in .flac: quelli che mi entusiasmano li masterizzo, quelli che mi lasciano così-così li relego all'iPod, quelli che non mi piacciono li lascio parcheggiati qualche giorno su iTunes, poi li cancello. I volumi usciti in tutto il 2017 mi hanno lasciato freddino, salvo, in parte, il Vol. 23, registrato a Eugene, Oregon, il 22 gennaio 1978. Lo stesso cofanetto Cornell 5/8/77, altrove recensito con voti che non scendevano sotto le quattro stelle su cinque, mi ha fatto provare un senso di noia impensabile, dettato, immagino, dall'inutilità e dal vuoto di sentimento che questo ascolto mi ha trasmesso in più punti. Scorro la scaletta: solita solfa del tour del 1972. Il punto resta quello di sempre: ha ancora senso, dopo Sunshine Daydream (2013), continuare la pubblicazione di concerti dei Dead risalenti a quell'anno?
Ho già accennato al fatto che, da giugno, non è più fra noi Biancaneve, la macchina che dal febbraio 2015 anni aveva sostituito la vecchia, immortale Wolksvagen "Dio" Lupo. Di conseguenza, non ho più modo di ascoltare la musica che voglio in macchina. L'anonima Punto rimasta nelle scuderie, oltre a bere benzina come una spugna, vanta un discutibile impianto Blaupunkt a cassette. Inizialmente, ho ritirato fuori la cassettina dotata di un cavo aux da collegare ad altre sorgenti (cellulare, iPod, tablet, ecc.), ma il meccanismo interno perde colpi e le casse (solo anteriori) sono di una qualità talmente scadente da rendere l'esperienza di ascolto mp3 un vero tunnel dell'orrore. Così, ho dato una spolverata all'archivio domestico, ho ritrovato compilation dimenticate, roba che credevo perduta in un passato che solo da poco ha iniziato a oscuro. Mi imbatto in un piccolo capolavoro produttivo del marzo 2005: una TDK C-90 in cui Appetite for Destruction incrocia Harvest. Provate a immaginare Welcome to the Jungle a cui segue Out in the Weekend, e così via. E poi un'altra ancora, fatta per le vacanze di Pasqua di quello stesso anno, che si apre con Shelter from the Storm (Live) (ovviamente quella di Hard Rain), prosegue con Bella di Carlos Santana, Love of my Life dei Queen e Compagno di scuola di Venditti, una canzone che già all'epoca mi faceva, paradossalmente, provare nostalgia per qualcosa che non avevo ancora vissuto ma che, inconsciamente, sentivo essere il mio inevitabile destino. Si può provare nostalgia del futuro? Forse sì, ma si deve anche preservare memoria del passato per affrontare meglio il presente. Così metto mano alle scorte auree, ovvero cinque cassette vergini (tre TDK e due Sony) di lunghezza variabile fra i 60 e i 90 minuti rimaste sepolte per anni. Per un paio d'ore riscopro il piacere di creare una C-90, zeppandola con di tutto un po' e titolandola Solstizio d'autunno. Per un paio di giorni fa la sua bella figura in auto, poi inizio a percepire come un'assenza di spontaneità, la tolgo e la regalo a chi saprà farne un uso migliore. Il nastro- che ho registrato con tutti i rismi su una deck Pionner molto buona -enfatizza il calore della musica; lo stesso calore che la Punto stempera in pochi minuti, tanto è mediocre l'impianto. Una sincera e onesta tristezza si impossessa di me. Fino a pochi giorni fa accarezzavo l'acquisto di uno stock di cassette vergini (e non di comuni audiocassette, ma delle TDK SA-X 90 trovate su eBay in Germania e ancora sigillate), sognavo- perchè sognare non costa niente -una pioggia di soldi scendere sulla mia figura e il conseguente arrivo, nella mia esistenza, di una piastra Nakamichi da un migliaio di euro. E invece tutto finisce prima ancora di cominciare, in questo mese di ottobre.

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