domenica 12 febbraio 2017

Un consiglio e qualche pensiero nel giorno dei 45 anni dall'uscita di "Eat a Peach" [Extra]


Oggi, così per dire, la pagina Facebook della Allman Brothers Band ha pubblicato una breve nota in cui si sottolineava una ricorrenza molto importante: i 45 anni di Eat a Peach.
E' chiaro che tenere il conto di quanti dischi importanti, per non dire essenziali, del 1972 è un'impresa impossibile, ma Eat a Peach per me non è solo un bellissimo documento della musica rock di quell'anno. No.
Eat a Peach contiene One Way Out, e One Way Out è stata la canzone con cui ho scoperto la banda dei fratelli Allman. Ero al cinema a vedere The Departed e c'era questa scena incredibile in cui Leonardo di Caprio siede al banco di un bar irlandese di South Boston e ordina un succo di mirtillo. E' una serata complessa: lui è un poliziotto sotto copertura e deve farsi strada nella malavita della città. Ha deciso di accompagnare suo cugino, uno spacciatore da quattro soldi che però ha conoscenze e agganci che lo potranno inserire nel giro di Frank Costello, il capo dei capi. Uno degli scagnozzi di Costello va a sedersi a fianco del nuovo arrivato e, giudicando troppo "effeminato" l'ordine effettuato da Leo, lo prende in giro dicendogli che il succo di mirtillo è un diuretico naturale e che la sua ragazza lo beve nel periodo del ciclo. <<Anche tu hai le mestruazioni?>>, gli domanda. Leo aspetta che il barman gli porga il bicchiere sul banco, scrolla due volte la sigaretta nel posacenere, la ripone fra le labbra e con un gesto fulmineo fa esplodere, letteralmente, il bicchiere di succo nella tempia del mafioso. Ed è allora che le Gibson di Duane e Dickey Betts iniziano ad intrecciarsi, la doppia sezione ritmica di Jaimoe e Butch Trucks (recentemente scomparso) si intensifica e gli altri mafiosi accorrono in soccorso dell'amico ferito. Il più grande e cattivo fra loro, il signor French, invita il giovane impetuoso a calmarsi, lo blocca un paio di volte e, dopo averlo minacciato di strappargli via i testicoli, gli consiglia di darsi una calmata, di rinunciare alla vita da spacciatore (non fa per lui, troppo impulsivo e permaloso) e di tornare a sedersi composto. Non prima però di avergli chiesto <<Che stavi bevendo?>> e, alla sua risposta, replica con un sarcastico <<Perchè? Hai le mestruazioni?>> e Leo, stavolta, non reagisce. Tutto questo dura una ventina di secondi.
Eat a Peach è il primo disco che ho comprato degli Allman, prima del concerto al Fillmore e  molto prima di Brothers and Sisters. E' un disco spartiacque, ma pure un'opera nata dal dolore, il dolore della perdita di Duane, morto durante le registrazioni di nuove canzoni per quel terzo album in studio che, al momento della sua dipartita, nemmeno aveva un nome. In realtà, Eat a Peach rappresenta al cento percento le molteplici anime della band: in parte dal vivo, in parte in studio, nasce come doppio LP (su cd lo potete comodamente acquistare su disco singolo, anche se dieci anni fa circolò una edizione deluxe espansa), contiene la più lunga canzone mai pubblicata dal gruppo (Mountain Jam) e una delle più brevi (la splendida ninnananna strumentale Little Martha, che lo conclude). Ci sono i capolavori rimasti fuori dal Fillmore, uno dei manifesti poetici di Dickey Betts (Blue Sky), due possenti cavalli di battaglia usciti dal canzoniere di Gregg (Ain't Wastin't Time No More, Stand Back) e la sua lovesong più nota (Melissa). In tanta bellezza, c'è spazio pure per uno strumentale destinato a rimanere "minore" fra i molti incisi dal gruppo (Les Brers in A Minor).
Eat a Peach non è nè "il disco di Duane", nè "il disco di Dickey" (odiose diciture adottate dalla critica dalla metà degli anni Settanta in poi, come se esistessero più Allman Brothers Band), ma se non lo avete mai sentito, non avete idea di cosa vi siete persi.
Un disco a cinque stelle in cui immergersi, senza mai abbandonarlo del tutto.

domenica 5 febbraio 2017

Francesco de Gregori, "Sotto il vulcano" [Suggestioni uditive]

Francesco de Gregori,
Sotto il Vulcano
(Universal Music, 2017, Live, 2 Cd)














Un paio di giorni fa ero al mio negozio di dischi di fiducia per capire quando sarebbe uscito il prossimo dei Tinariwen e per appurare se davvero John Scofield sarà in quel di Empoli (esatto, Empoli) fra un mese e qualcosa. Spulciando qua e là- amo spulciare -trovo un doppio, costoso vinile fresco di stampa di de Gregori con copertina finto Housaki, titolo ispirato ad un romanzo di Malcom Lowry (Under the Volcano, 1947) e icona del Ciccio in tipico stile anni Dieci. Sì perchè, il Principe, a suon di comparsate e presentazioni fra librerie Feltrinelli e salotti faziani (e, soprattutto, faziosi), si è visto costretto a reinventare la propria immagine e dunque vai coi completi total black, occhiale Wayfarer con lenti fumè e Borsalino (ha fatto un'eccezione allo scorso Salone del Libro di Torino indossando uno Stetson nero, per altro molto bello). Ma magari il de Gregori del nuovo Millennio avesse reinventato un po' anche le sue doti da palcoscenico. Perchè se è vero che si trovano cose interessanti anche nei suoi ultimi dischi (compreso Amore e furto, che continuo a non amare ma che rispetto tantissimo), si è perso il conto di quelli dal vivo pubblicati negli ultimi quindici anni ad essere inutili e dimenticabili. Chi ricorda più Fuoco amico (2002), Mix (uno dei due usciti nel solo 2003) o la doppia brutta copia di Banana Repubblic denominata Work in Progress (2010) o, ancora peggio, Pubs and Clubs (2012)? Molto probabilmente, nessuno. E nessuno avrà motivi particolari per ricordarsi di Sotto il Vulcano.
Scaletta banalissima. Come si può ancora proporre Generale, La donna cannone (la odierà anche tanto, ma non c'è disco dal vivo in cui la abbia scartata), Buonanotte Fiorellino, Rimmel, Titanic, La storia, Pezzi di vetro senza apparire tediosi, accomodati e ripetitivi? E come includere- visto che si parla comunque del tour di Amore e furto -così poche covers di Dylan?
Lasciando perdere la discutibile tracklist, vogliamo parlare di musica? Questa esibizione di Taormina sembra una versione perfino peggiore del concertone (più da RAI1 che da RAI3) tenuto all'Arena di Verona, quello per cui, in seguito al duetto con Fedez su Viva l'Italia, i giornali parlarono soddisfatti di "ringiovanimento di de Gregori". E chissà se per loro sarà un sintomo di una ritrovata gioventù ostentare questo chitarrismo pesante, tamarro e pasticciato: più che dalle parti di Dylan qua siamo in zona Springsteen post-11 Settembre. Che dio, ammesso che esista, ci aiuti!

"Triplicate": anteprime assassine [Extra]

Tutto ha inizio con un post sulla pagina Facebook di un famoso premio Nobel per la letteratura. Semplicemente, si annuncia l'uscita del 38esimo album a nome Bob Dylan, sottolineando- comprensibilmente -il fatto che si tratterà del primo triplo della sua ultrancinquantennale carriera. Come i suoi due ultimi dischi (Shadows in the Night e Fallen Angels), sarà un'opera interamente composta di covers, o meglio di riproposizioni di vecchi standard di quello che, oltreoceano, chiamano "The Great American Songbook" e di cui Dylan è esperto conoscitore. Nei due album precedenti si imponeva il confronto con Frank Sinatra (esecutore storico di quei brani), stavolta no. Triplicate uscirà il 31 marzo, sarà suddiviso per tematiche e conterrà trenta pezzi, dieci per disco. Come sempre, Dylan non si vergogna di pubblicare il maggior numero di informazioni possibili concernenti il proprio lavoro: e dunque ecco la copertina, con una grafica del titolo che ricorda i caratteri di arcaiche etichette di dischi in ceralacca (a me, per dirne uno, viene in mente il logo della Vocalion, passata alla storia per aver fatto incidere Robert Johnson) ma di fronte a cui il popolo del web italico parte per la tangente. C'è chi- magari a mo' di battuta -la accosta ad una copertina di un album black metal e chi, ancora peggio, vi legge un omaggio ai Jethro Tull. L'artwork è seguito a ruota da una scaletta molto dettagliata e da un singolo in linea con quelli pubblicati negli ultimi due anni. Niente videoclip, ma solo una camera fissa sul piatto in cui ruota il disco:

Uno dei motivi per cui l'arrivo di Triplicate non è stato propriamente accolto bene è il fatto di essere il terzo (nonchè triplo, stavolta) disco di canzoni non firmate da Dylan nell'arco di un quinquennio. Chi ha comprato Shadows in the Night (un disco che ha goduto di un ottimo riscontro commerciale) non ha fatto lo stesso con Fallen Angels, e chi ha comprato Fallen Angels ha già promesso che non prenderà Triplicate. Tutti si sono stancati di questa musica e certo Triplicate promette di essere diverso, ma non troppo diverso dai suoi due predecessori. Alcuni già preannunciano il "suicidio commerciale", ma così facendo dimostrano solo di non conoscere bene Dylan e di non avere mai ascoltato dischi come Saved, Down in the Groove, Good as I Been To You o Christmas in the Heart. Altri commentano sdegnati: "Basta! Non se ne può più!", "Che 2 palle!", "W Sinatra!", "Non se ne sente il bisogno". C'è chi addirittura si spertica in un assurdo accostamento fra il premio Nobel e Rod Stewart, entrambi intenti a rileggere il canzoniere americano, entrambi con alle spalle un disco di Natale, entrambi protagonisti di MTV Unplugged (per altro quello di Stewart è, a parer mio, il migliore mai pubblicato).
Riporto poi due commenti davvero privi di logica: Il primo è "Trovo sempre comico che si dia come produttore Jack Frost, che è solo uno degli pseudonomi dello stesso Dylan". Ma cosa vuol dire? Per chi non lo sapesse, Dylan si autopubblica come Jack Frost dal 2001. Difficile capire cosa una persona possa trovare di comico in una scelta tanto legittima quanto datata. Sarebbe come puntare l'indice sulla sua intera produzione, rea di essere stata pubblicata da Bob Dylan e non da Robert Allen Zimmerman. Il secondo, invece, è "Ma non sa più scrivere?". Forse qua il problema non è più se Dylan sappia scrivere o meno, ma se il suo pubblico sia in grado o no di seguirlo in questi anni Dieci e in questa sua vecchiaia.
Anche io ho scelto di non comprare Shadows in the Night e Fallen Angels, anche io sono un po' deluso dall'anteprima di un altro disco di canzoni non dylaniane (specie dopo aver letto, a fine 2016, rumors su una papabile nuova co-produzione fra il nostro e Daniel Lanois), così come lo sono stato dal cofanetto del tour del 1966 (sapete, mi aspettavo un The Bootleg Series Vol. 13 con scarti degli anni Ottanta, le prove in studio con Garcia e Tom Petty, ecc.), ma, "signuri", si parla di Dylan: quindi prima si ascolta, poi si ragiona.

mercoledì 1 febbraio 2017

Brunori Sas, "A casa tutto bene" [Suggestioni uditive]

Brunori Sas,
A casa tutto bene
(Picicca Dischi, 2017)















Dario Brunori, trentanove anni, calabrese, sotto le spoglie di Brunori Sas aveva infilato un paio di discreti pezzi con il suo secondo album, Poveri cristi, nel 2011. Lei, lui, Firenze e Una domenica notte mi avevano convinto. Certo, cantate come le canterebbe un emulo scadente di Francesco de Gregori, ma comunque ben confezionate e costruite su di una buona metrica. Il resto del disco non era niente di che, ma meritava un ascolto.
Da allora sono passati sei anni e Brunori ne ha fatta di strada, ma soprattutto ne ha prodotta di musica di merda! Vol. 3: Il cammino di Santiago in taxi viene a noia già dal titolo e Kurt Cobain sarebbe stato un singolo indegno perfino di venir presentato ad X-Factor (nella squadra di Arisa, toh!). In più ho avuto la sventura di vederlo pure promuovere questo disco, nel giugno 2014, a Staggia, occasione in cui- forse ricordo male -vollero pure dei soldi per il biglietto.
La cosa che fa un certo effetto del nuovo A casa tutto bene (Picicca Dischi, ) non è solo che il singolo di lancio, Canzone contro la paura, è un para-plagio orribile di Com'è profondo il mare (aspetto che gli ascoltatori più preparati e colti avranno sicuramente notato), ma il fatto che non dica nulla. Alla fine è un album pop composto di canzonette, ovvero testi e melodie, roba a cui siamo abituati da sessant'anni, eppure niente: è vuoto. E questo vuoto verrà portato a giro non per le sale da concerto, per i teatri, per i club o i bar. No.
A casa tutto bene è un disco cool, non un capolavoro, ma un disco che si cucca voti alti (e sempre, rigorosamente senza motivi apparenti) e per questo motivo il tour dovrà svolgersi negli atenei. Il primo, manco a dirlo, è quello senese, visto che Darione ha svolto qua i suoi studi in economia e commercio prima di scoprirsi cantautore. A lui non sembra vero di tornare nelle aule e di parlare agli studenti. Tutti vogliono parlare agli studenti. Deve sentirsi un po' come quando Leonard Cohen suonò alla Sapienza occupata, solo con meno cocaina nel sangue.
E comunque, vuoi per lui, vuoi per la musica, vuoi per i tizi del pubblico (un gregge del tutto paradigmatico) il video qua sotto è roba degna di Zelig: