mercoledì 31 gennaio 2018

Boogie senza fine di gennaio [Exra]

Benchè il 2018 sia iniziato in modalità risparmio, mi sono già scritto e ho stampato un memorandum lungo quattro pagine di dischi da comprare nell'arco dei prossimi mesi. Roba che già conosco o che vorrei conoscere, roba che non ho più, roba che mai avrei pensato di desiderare ma che stuzzica la mia curiosità. Cantautori italiani, folksinger degli Appalacchi, chansonnieres francesi, classici brasiliani, e, in maniera massiccia e assoluta, il rock. Perchè se negli ultimi due anni della mia vita gli acquisti sono stati mediamente indirizzati al jazz e alle sue mutevoli, meravigliose diramazioni, sento che nel 2018 avrò tanto bisogno di ricordare che a me piace o'rock. Crescendo, mi accorgo di sopportare sempre meno l'1-2-3-4, il tump tump tump, il tunz tunz tunz. Per carità, anche a me piacciono il sudore e le luci stroboscopiche, ma pure le storie del Delta, i testi poetici, i lunghi assolo strumentali. C'è chi gode e si diverte ascoltando ritmi e melodie fini a se stessi, mentre io mi scopro felice di sfogliare continuamente nuove pagine di un libro lungo, variegato, dal finale ancora incerto, di immergermi nell'ignoto, di notare i controtempi di basso e batteria, di comprare un determinato disco confidando in quella imprevedibilità che rende la vita un po' più simile a una bella avventura; al contrario, c'è chi vuol confrontarsi solo con ciò che inizia e finisce nello stesso modo. L'ironia della sorte sta tutta in un fatto: io a questa gente non rompo i coglioni, loro a me sì e lo fanno nelle forme più fantasiose. Capisco che la televisione e i media in generale abbiano un effetto devastante sulla cultura popolare, imponendo determinati modelli al di fuori dei quali le persone più deboli intellettualmente si sentono come escluse e vi si appiattiscono, ma gli inviti promozionali delle discoteche che intasano la mia home di Facebook meriterebbero di essere oggetto di studio in certi pesanti tomi di antropologia (sempre ammesso che già non lo siano). Il concetto più profondo che traspare a una rapida occhiata è <<Noi semo gente che ride!>>, mentre il resto è tutto un <<Porta il tuo sorriso nel locale x!>>, <<Si sboccia al club y!>>, <<Vieni a fa' banda al k!>> (quest'ultima è proprio una formula tipica delle mie zone). Lo stesso mi capita scorrendo programmi di concerti dove si susseguono formazioni alternativissime, indipendentissime e dai nomi altisonanti. Ci sono giorni in cui mi sembra che l'unica differenza in grado di intercorrere fra chi si è innamorato dell'indie e me è che chi si è innamorato dell'indie sa solo dirmi <<Non sai cosa ti perdi...>>, mentre io so benissimo cosa ho scelto di perdermi. Capisco che questi non siano tempi facili per nessuno, ma certi atteggiamenti e certi discorsi non avrebbero senso neanche come dialoghi di un film con Sasha Grey. Perciò, non vedo perchè il problema dovrei essere io, indeciso se acquistare o no l'omonimo Fleetwood Mac nell'edizione definitiva uscita il 19 gennaio. Del resto, le deluxe edition di certe opere che uno già possiede sono ormai indispensabili per vivere.
Una decina di giorni fa, scambiavo impressioni su una popolare cover-band zeppeliniana locale con uno scorbutico signore che ha 63 anni ma se ne sente addosso (e spesso li dimostra pure) 83. Andavo a ruota libera, sciorinavo nomi, cognomi, date, paragoni e ho vissuto in diretta il suo disagio: lui, del resto, era tutto contento che esistesse un gruppo di quarantenni che avesse scelto di prodigarsi con un repertorio destinato- sempre a suo modo di vedere le cose -a dei sessantenni e composto, in origine, da gente che oggi ha 70 anni, e del resto gli importava anche una sega. Io, di contro, cercavo solo di separare gli aspetti positivi da quelli negativi ragionando su iniziative nostalgiche come queste. Mi si è allora insidiato un interrogativo di discrete dimensioni: un nostalgico è colui che ascolta Jimi Hendrix, i Led Zeppelin, Bob Dylan o i Beatles o è colui che ricerca Jimi Hendrix, i Led Zeppelin, Bob Dylan o i Beatles in ogni cosa nuova che ascolta e spesso, magari, senza sapere granché dell'originale? Posso capire che ci siano persone nostalgiche per mera autodifesa psicologica, ma ne conosco davvero troppe che- assimilato quanto visto, letto, ascoltato fra i 13 e i 18 anni -di lì non si sono più schiodate. Tanto per non farmi rimuginare, alcuni giorni dopo, non le televisioni o le radio, bensì i social network hanno dato la notizia dell'imminente uscita di un "nuovo" album di Jimi Hendrix. Premesso che la deriva poetica e il naufragare verso determinati sentimenti sono d'obbligo quando si leggono certe novità e che Jimi resta sempre un approdo sicuro, di fronte a Both Sides of the Sky perfino io mi ritrovo ad avere delle perplessità del tipo <<Ma questa Mannish Boy dove l'ho già sentita?>>. Ovviamente, nell'immensa raccolta Blues. Certo, qualche ritocco, un missaggio diverso, ma alla fine quella è (e neanche 'sta gran cosa, fra l'altro). Aggiungo che se Valleys of Neputne era da incorniciare e People, Hell and Angels già somigliava a una minestrina riscaldata ma ancora sfiziosa, questa imminente compilation di inedite rischia di essere un salto nel grande buio del risentito. Esce il 9 marzo.
Sto incontrando non poche difficoltà sul sito degli Archives di Neil Young. Lento, pesante, vuoto: tutti difetti che cerco di far emergere in una fanpage gestita- credo -da degli appassionati romani. Uno spazio su cui si leggono cose molto buone, intelligenti e interessanti ma anche delle solenni boiate (tipo che The Visitor è uno dei migliori album del Loner fra i pubblicati negli ultimi 15 anni o che Sky Trails di David Crosby, come scritto dagli amministratori stessi, è "un ottimo album"). Probabile che io abbia un computer obsoleto e una connessione non eccessivamente performante, ma ciò non toglie che- venendo ai contenuti -neilyoungarchives.com si stia rivelando l'ennesima umiliazione perpetrata da Neil Young ai danni del pubblico che lo sostiene, un pubblico in cui mi metto in prima fila. Fra Pono, autobiografie dispersive, dischi di mediocrità palese (non li elenco, che sono davvero troppi), concetti il cui più profondo è <<Non devi bere il caffè da Starbucks sennò mi arrabbio!>>, versioni deluxe rubasoldi che neanche in un universo parallelo varrebbero i salassi richiesti (vedi A Letter Home) oppure cofanetti antologici parimenti prediposti per succhiar via quattrini a una schiera di fans fin troppo fedeli (e anche qua mi rimetto in prima fila). Salta fuori la prevedibile frase fatta <<Nessuno ti obbliga a seguirlo né a comprarne i dischi!>>: bene, ma io adoro Neil Young, e questo non significa necessariamente seguirlo in maniera acritica e dissoluta come farebbe una qualsiasi groupie. Al contrario, preferirei essere trattato con rispetto, comprando prodotti di valore e non concepiti per prendermi per il culo. Comunque, pare che entro marzo usciranno l'attesissimo live al Roxy di Los Angeles datato 1973 e una cernita comprendente il meglio del meglio (audio e video) dell'Alchemy Tour (2012-2013), che a ora resta l'ultima parentesi di lucidità aperta dal Loner negli ultimi anni, ossia prima di imbarcarsi coi brufolosi Promise of the Real. Restiamo in ascolto.
Neil Young in concerto al Roxy di L.A. con i Santa Monica Flyers (1973).
Ultimamente sto facendo una fatica enorme ad alzarmi la mattina. Non so dire se è una questione di sonno arretrato, di clima (l'inverno è preoccupantemente benevolo) o di testa, ma ho bisogno di almeno due sveglie prima di buttarmi giù dal letto, spiare attraverso le tapparelle per vedere se c'è il sole, analizzarmi l'anima, fare il caffè e tutta quella trafila cui la maggior parte di noi è sottoposta ogni giorno. Accompagno mia sorella al liceo e filo via lungo la strada delle Lellere, recentemente deturpata da un nuovo benzinaio-bar sorto lungo l'unico rettilineo che essa ospita. Il più delle volte questa lingua di asfalto sembra quasi godere di un'elegante vacuità: forse sarà il mio lato emo che affiora, ma solo attraversando tanta desolazione ricomincio a sentire i sensi risvegliarsi e il sangue circolare. Niente uova, pancetta, marmellata, biscotti, spremute: mi bastano un caffè, la strada che si srotola sotto il sedile e magari la musica giusta che fuoriesce dalle casse. Il torrido blues di John Lee Hooker mi accompagna affettuosamente da casa all'ufficio già da un paio di giorni. Endless Boogie (1971) si è aggiunto tardi alla mia personale collezione di Hook. Prima conoscevo solo una minima parte della tracklist e non avevo mai dato il giusto peso allo straordinario back-up comprendente, fra gli altri, Jesse Ed Davis e Steve Miller, nè mi ero mai soffermato più di tanto sulla perfetta produzione di Bill Szymczyk, personaggio che di lì a qualche anno sarebbe stato seduto dietro la console di un gruppo denominato Eagles. Dicono che la prossima settimana potrebbe nevicare, ma ci credo poco.
"Ferruccio, ecco la lista dei vinili di Paolo. Mi sa che qualcuno ti possa interessare...": così si apre una mail datata 24 gennaio 2018 indirizzatami da babbo. Di solito risponderei con un "Grazie, dad, ma lo sai, sono in un periodo tirato e non voglio spendere, il contratto a lavoro è agli sgoccioli, devo tenere i soldi da parte ecc.". Inoltre, ogni volta che capito nei due, tre negozi da me bazzicati e mi ritrovo di fronte alla sezione vinilitica, vengo colto da lievi attacchi di riso: per quanto il vinile (inteso come materiale, in questo caso) sia di qualità superiore a trenta o quarant'anni fa, per quanto il packaging venga effettuato a regola d'arte, per quanto il cartoncino appaia semi-indistruttibile e i colori di certe pregiate edizioni siano ammalianti e appetitosi, cifre che oscillano fra i 29 e i 46 euro per un supporto oggettivamente scomodo come quello degli LP sono fuori da qualsiasi logica. Se contiamo poi che già dal gennaio 2016 il mercato del vinile è tornato a essere in perdita dopo un decennio di cauti successi e discreti incrementi commerciali (fattori che hanno portato l'Occidente a organizzare, fra le altre cose, i discussi Record Sotre Day e a far tornare nei negozi di elettronica generica giradischi, testine e puntine di varie marche e qualità), spendere certe somme per delle semplici ristampe da 180 grammi somiglia sempre di più a un hobby elitario: sport che meritano- nel migliore dei casi -di essere praticati da un'enclave di vecchi collezionisti o- nel peggiore -da hipster benestanti che, di quando in quando, interrompono la connessione a Spotify e mettono un 33 giri sul piatto.  Ma il fatto che gli LP provengano dalla collezione del carissimo amico Paolo stuzzica non poco le mie fantasie musicofile. Il perchè è presto detto: Paolo magari neanche se lo immagina, ma ha avuto un ruolo fondamentale nella mia storia di appassionato di musica. Nell'autunno del 2003- mentre la mia "dieta" era banalmente composta da pane, nutella e Iron Maiden con brevi interludi (già allora) dylaniani -fu Paolo a regalare ai miei genitori un paio di compilation contenenti grandissima musica. Grazie a lui incontrai per la prima volta lungo il mio cammino Neil Young, Jackson Browne, i C.C.R., i Bee Gees, Scott McKenzie, Bonnie Raitt, Harry Nillson, Eva Cassidy, gli unici U2 che avrei mai apprezzato (quelli di Achtung Baby) e molti altri. Se oggi amo Crazy di Patsy Cline più dell'originale di Willie Nelson, se sono arrivato a Bob Seger passando da un romanticissimo duetto fra Kenny Rogers e Sheena Easton in We've Got Tonight e a John Hiatt attraverso la Have a Little Faith in Me di Joe Cocker, in qualche maniera lo devo a quei due cd-r masterizzati da Paolo. Perciò, adesso che sta vendendo la sua collezione di 33 giri, mi sembrerebbe una grossa mancanza di rispetto non dare neanche una spulciata alla suddetta lista di uno che- lo so per certo -di musica se ne intende parecchio. Non ho ambizioni collezionistiche, nè considero il vinile superiore ad altri formati (anzi, ho accumulato abbastanza esperienza per poter serenamente affermare che- a parità di fonti originarie e di una buona masterizzazione di partenza-il cd sia migliore in tutto e che le suggestioni legate ai vecchi LP sono, appunto, solo suggestioni), ma i titoli di Paolo sono troppo splendidi, troppo indissolubilmente legati al mio vissuto per poterli far finire nelle mani di qualcun altro. E poi io e Sofi stiamo assemblando, pian pianino, un nuovo hi-fi e il giradischi rappresenterà un acquisto irrinunciabile, un oggetto da sfruttare al meglio, come sono abituato a fare con tutto ciò per cui spendo soldi. Così, faccio una cernita davvero stretta di dieci vinili (per la cronaca, Desire e Infidels di Dylan, Nebraska di Springsteen, Late for the Sky e Running On Empty di Jackson Browne, Hasten down the Wind di Linda Rostadt, e la triade Warren Zevon, Excitable Boy e Bad Luck Streak in the Dancing School di Zevon) e chiedo un "preventivo" per quella. Il prezzo è basso, l'occasione è di quelle che non ricapitano: do il mio assenso, vado a prenderli (300 metri da casa mia) e il gioco è fatto.

venerdì 26 gennaio 2018

"E ti piace lasciarti ascoltare" (qualche anno dopo) [Extra]

Faber (2008)

Ho iniziato ad amare Fabrizio De Andrè in quarta superiore, ormai diversi anni fa. 
Visto che anche io ne ho scoperto l'opera e la poetica sui banchi di scuola, la notizia dell'inclusione di certi testi deandreiani nei programmi di letteratura italiana delle scuole superiori non ha destato in me alcuna particolare emozione.
Il professor Biotti, che portava avanti già da molti anni il laboratorio teatrale del mio liceo, affisse per i corridoi un paio di volantini in cui pregava chiunque sapesse o volesse tenere in mano uno strumento di partecipare a una prova pomeridiana che avrebbe riguardato un nuovo progetto. Nikke decise di andare, portandosi dietro il suo ampli Laney e quella che da neanche un anno era la sua inseparabile compagna di vita (niente che fosse composto da ossa, sangue e ciccia, solo una Squier Stratocaster) e io, semplicemente, decisi di accompagnarlo. La prova (non uso il termine "audizione" perchè potrebbe suggerire una professionalità che avrebbe snaturato l'intera operazione) era fissata per le 15:00 nella palestra più piccola, quella che odiavo di più, giacchè, di norma, entrare là dentro significava sempre e solo giocare a pallavolo. E io la pallavolo l'ho sempre odiata. 
Eravamo una ventina, quel pomeriggio. Ci sedemmo sul parquet in bamboo, mentre lo sguardo del prof. rimbalzava fra noi e il pavimento. Iniziò lentamente, a voce bassa, un discorso che sembrava portarsi dentro da tempo. <<Ascoltare De Andrè fa bene... fa bene per prima cosa, al cervello, poi al cuore e infine a tutto il resto>>, poi passò a citare riflessioni che <<nessun cantautore aveva mai fatto>> ed estrasse da una grande busta di un negozio di scarpe un paio di grossi cofanetti di dischi e un libro sulla cui copertina svettava il baloon della collana Super Miti della Mondadori. <<Fateli girare, ma non portateveli a casa. A chi volesse approfondire posso masterizzare i dischi e fotocopiare i testi... altrimenti, se potete, comprateveli e studiateveli, meditate, piangete, ridete, crescete...>>. Ecco, grossomodo la faccenda iniziò così.

Di come riuscii a passare l'audizione e a essere reclutato col grado di percussionista (carica che avrei fieramente mantenuto, condividendola con due batteristi molto più seri di me, fino al 2009, suonando concerti fra le province di Siena, Grosseto e Firenze) lo racconterò un'altra volta, ma di quanto, da quel pomeriggio in avanti, le riflessioni e le poesie di De Andrè mi abbiano aiutato a maturare convinzioni molto importanti vorrei scrivere due righe adesso. Pochissimo, infatti, non ho condiviso delle sue posizioni politiche e sociali. Per il nostro primo spettacolo, recante il titolo E ti piace lasciarti ascoltare, mi vidi recapitare una discreta quantità di materiale: quattro compilation che ripercorrevano l'intera epopea deandrèiana, un tributo (largamente discutibile ma pure contenente picchi di assoluta bellezza) registrato a Genova poco dopo la morte del cantautore, pacchi di fotocopie dei testi e un DVD-r contenente il concerto al Teatro Brancaccio di Roma.
Ferru plays FdA (Follonica, GR, giugno 2008)
Il poco che conoscevo prima della formazione del gruppo era tutto legato alla fase giovanile di Faber. Le traduzioni di Suzanne e Desolation Row (che odiavo), Le passanti (che costituiva un ottimo ponte con Brassens e, in generale, con un certo cantautorato francese che proprio all'epoca iniziavo ad apprezzare), La canzone dell'amore perduto e Bocca di rosa (la versione prog, però, quella catturata in concerto con la PFM) erano fra le poche cose che avevo avuto modo di ascoltare, ed erano tutte sparpagliate in compilation altrettanto variegate. Non avevo idea che la carriera di quest'uomo vantasse i primi esempi di concept-album italiani. Non conoscevo La buona novella (disco che avremmo approfondito molto nei concerti del 2008, riproponendolo spesso integralmente) o lo stupefacente Non al denaro, non all'amore, nè al cielo, nè avevo mai sentito la Storia di un impiegato, che da principio fu l'album che, nella sua interezza, ascoltai maggiormente, quello con cui scattò, magari prevedibilmente, la fatidica scintilla. Pezzi come Canzone del padre, Verranno a chiederti del nostro amore e Nella mia ora di libertà mi portavano a domandarmi quanto- dall'alto dei miei diciassette anni -mi sentissi libero: una questione che mi ha sempre condizionato la vita e a cui ho sempre dato una risposta lapidaria e negativa (nessuno di noi, a mio parere, lo è veramente). Fortuna vuole che per me "essere liberi" non necessariamente coincidesse (e abbia mai coinciso) col "farsi i cazzi propri": seppur cresciuto in un'Italietta già prepotentemente berlusconiana e post-ideologica, mi è stato insegnato ad avere estremo rispetto per i limiti del mio agire, facendoli terminare laddove iniziavano quelli degli altri.
Quando approdai a quelli che solo in tempi recenti ho cominciato a definire i dischi di cosmic italian music, ero già perdutamente innamorato di Faber, e come tutti gli innamorati cercavo di scandagliare il più possibile gli angoli del mio sogno. Ascoltare ogni sfumatura di Rimini, perdersi e ritrovarsi fra i solchi de L'indiano, vincere un consistente quantitativo di preconcetti lasciandosi sempre, nuovamente conquistare da Creuza de ma, abbandonarsi a Le nuvole, commuoversi con Anime salve divennero, in breve tempo, gesti del mio quotidiano. Contrariamente a quanto potrebbero ipotizzare i lettori di questo blog, arrivato ad un fatidico punto di non ritorno della mia vita, non furono Tunnel of Love, Blood on the Tracks, The Boatman's Call o Watertown i miei personali break-up albums. L'ingrato compito, piuttosto, spettò a L'indiano e ai brani ivi contenuti, roba come Hotel supramonte

Con l'arrivo dell'estate, sempre destinandolo al nostro progetto teatral-musicale, iniziai a disegnare su suggerimento del prof. una serie di illustrazioni destinate ad accompagnare alcune canzoni. <<Cerca qualcosa che le possa collegare, un tratto d'unione, e lavora su quello...>>. Il comun denominatore lo trovai subito: ovviamente, la fica. Nulla di nuovo: con tutta l'umiltà del caso, cercavo di passare laddove erano già stati Guido Crepax o Hugo Pratt. La canzone erotica si faceva immagine di accompagnamento, veniva proiettata nei concerti, quando non direttamente ospitata sulle copertine dei dischi. A me non toccò nulla di tutto questo: le illustrazioni furono presto accantonate per un'idea ben più ambiziosa riguardante La domenica delle salme a fumetti, idea ugualmente naufragata. Avrei suonato nel gruppo fino al 2009.
Una delle illustrazioni che avrebbero dovuto accompagnare Hotel Supramonte fra 2007 e 2008.

Il rispetto per il poeta e l'artista non si è mai scalfito. Certo, ho passato anni interi senza ascoltarne mezza canzone, ma quei pensieri, quel senso della poesia non mi hanno mai abbandonato. Mi sono sforzato- e credo di esserci riuscito -nel non diventare mai uno di questi presunti "proprietari della cultura", ovvero personaggi che sospirano <<Ah, il Faber...>> prima di svenire. Oggi, parimenti a molti altri colleghi suoi, il feretro di De Andrè è tirato per la giacchetta da chiunque (eloquente l'esempio di Matteo Salvini, secondo il quale "la musica italiana inizia e finisce con Fabrizio De Andrè"), nessuno lo lascia in pace, nè sembra volerne rispettare lascito ed eredità. I familiari sono il primo esempio: le ambigue dichiarazioni di Dori Ghezzi e l'atteggiamento in cui si mescolano, odio, invidia e sudditanza del figlio Cristiano (a proposito, il suo Scaramante è un ottimo disco) non conoscono tregua. Gli odiosi tributi organizzati annualmente in Sardegna da qualche facoltoso milanese proprietario di mezza Costa Smeralda (il tutto, ovviamente, con la complicità di amministratori esibizionisti e di tutta la boria jazzofila italica) non hanno migliorato le cose. La massacrante, narcisistica celebrazione messa in atto a più riprese da Fabio Fazio nei suoi osceni programmi televisivi ha infine dirottato il canzoniere deandreiano verso lidi più nazional-popolari e lì il cadavere sembra essersi irreversibilmente arenato. Non ho visto (per motivi di tempo) Il principe libero, la fiction amabilmente camuffata da biopic uscita pochi giorni fa, ma l'idea di buttare giù queste righe mi è stata fornita proprio da quella. Conto comunque di recuperarla nella futura messa in onda di RAI1. Inutile dire che ho molto poca fiducia nell'operazione e che del De Andrè che parla romanesco mentre va a puttane nei vicoletti di Genova col suo amico Paolo Villaggio mi interessa fino a un certo punto.

Circa tre anni fa, ero a Siena per delle commissioni e mi capitò di entrare in una libreria in via di Camollia perchè in vetrina tenevano un libro che mi interessava. Il negozio si chiamava Cartazucchero e, come scoprii non appena misi piede al suo interno, comprendeva anche una caffetteria e una sala lettura. Un locale non originalissimo (in Olanda avevo visto attività analoghe anche nelle più estreme periferie portuali), ma che comunque era stato in grado di attirare la mia attenzione. La libreria si rivelò subito ben fornita, tant'è che, oltre a quello della vetrina, presi altri due volumi. L'ambiente odorava di nuovo, i mobili erano di quelli belli e costosi, sedie e tavoli abilmente invecchiati, libri e bignet mescolati senza darsi fastidio. Nonostante pagassi in denaro contante e non avessi ficcato le dita negli occhi a nessuno dei due commessi/baristi, in cambio ricevetti solo maleducazione e arroganza. Rimasi colpito da quanta supponenza potessero emanare due bottegai che, fondamentalmente, vendevano libri usati e rimpiansi subito di aver contribuito al loro benessere piuttosto che a quello di qualche modesto gestore di mercatino dell'usato (un franchising cui sono legato da molto tempo). Mentre maledivo loro e il loro modo spudorato di tirarsela, mi cadde l'occhio su ciò che tenevano esposto di fianco alla cassa: un tomo fotografico costosissimo incentrato su paesi poverissimi e il cui ricavato veniva devoluto a Save the Children, l'ultimo (magari lo fosse stato davvero) disco di Jovanotti (per giunta doppio e in edizione limitata) e infine, tenuto in bilico più di tutto il resto, un libricino di "ricette di viaggio" recante l'inedito titolo Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria. Uscii rassegnato all'idea che la condizione post-mortem di Faber dovesse per forza di cose somigliare ad un'ininterrotta serie di rotture di palle e mancanze di rispetto. Da quel giorno non sono più entrato in quella libreria, chiaramente. Ma devo anche ammettere che non ho mai più smesso di ascoltare la musica e le poesie di Fabrizio De Andrè.

domenica 21 gennaio 2018

Il più delle volte [Extra]

Oggi, 21 gennaio, ho deciso che certi legami vitali non puoi spezzarli. Continuano, seppur in maniere misteriose.
Pensavo che nulla potesse essere più vuoto e triste delle 16:30 di una domenica di gennaio per chi vive in provincia e non è appassionato di calcio, non va a messa e ha già visto tutti i film validi usciti nei cinema di tre diversi comuni durante le ultime settimane: e mi sbagliavo. 
Ma del resto, a che è servito picchiare i pugni contro i vetri della tua prima macchina, tanti anni fa? 
E chi ti restituirà il tempo sprecato a giocare a carte con dei completi dementi che pretendevano di possedere il libretto di istruzioni del tuo futuro? 
O quello ancor più irrimediabilmente perduto in cui hai cercato di riprenderti qualcosa che sapevi già per certo non ti sarebbe mai stata resa (perchè, del resto, "il tempo è un aereo a reazione e si muove troppo velocemente")?
So che dovrei finire quel libro che nessuno leggerà mai, quello che parla di cene, baci rubati, rock&roll, peccati originali, gelosie e di ragazzi perduti che non cresceranno mai abbastanza per iniziare a prendersi sul serio. 
So che delle centinaia di domande che ti frullano in testa in un ipotetico momento catartico tiri fuori solo le più banali, forse perfino le peggiori, ma non cambia nulla: la cicatrice resta, ed è giusto così. 
Anzi, penso che dovremmo sempre essere grati a chi è ancora in grado di essere il sogno di una notte e l'incontro di un pomeriggio. 
Insomma, ostiniamoci a voler bene- ognuno di noi -ai propri colossi emotivi, che la vita ce ne ha regalati pochi (ad alcuni, probabilmente, nessuno).

Il più delle volte lei non è neanche nella mia mente, 
non la riconoscerei se la vedessi, è così lontana. 
Il più delle volte non sono neanche sicuro 
se sia mai stata con me o se sono mai stato con lei.

Il più delle volte sono contento a metà, 
il più delle volte so esattamente dove tutto è finito. 
Non cerco di ingannare me stesso, non corro a nascondermi, 
a nascondermi dai sentimenti che sono sepolti dentro. 
Non faccio compromessi e non fingo,
e nemmeno mi importa di sapere se mai la vedrò di nuovo.
Il più delle volte.

lunedì 15 gennaio 2018

Dr. Lonnie Smith, "All In My Mind" [Suggestioni uditive]

Dr. Lonnie Smith,
All in my Mind
(Blue Note Records, 2018)





















Organista 75enne newyorchese, Lonnie Smith (autodeclamatosi "doctor" agli albori del nuovo millennio) regna da oltre mezzo secolo come un maestro di innovazione e sperimentazione. Poco importa se è stato lontano dalla fida Blue Note Records per quarantasei anni. Quando vi è tornato per incidere Evolution, a fine 2015, ha subito abbracciato la causa dell'attuale presidente dell'etichetta, Don Was: presentare i futuri movimenti del jazz e allo stesso tempo onorare coloro che ne hanno forgiato la tradizione.
Mastro creatore di groove e consumato showman, Smith ha pensato bene di registrare All in My Mind in una dimensione live perché...continua a leggere su Free Fall Jazz.

venerdì 12 gennaio 2018

Live Fast, Die "Fast"! (Un pensiero per Eddie Clarke) [Extra]

"I soprannomi vanno bene, alla gente piacciono. Così Eddie divenne "Fast" Eddie Clarke, che era logico, in effetti. Voglio dire, era un chitarrista velocissimo. I nostri fans giudicavano sempre Eddie come quello tranquillo, ma in realtà era molto più bastardo di Phil. Era davvero una carogna, quando cominciavano a volare i pugni. Mi ricordo di una volta in cui lui e Phil mi tolsero da una rissa. Questo tizio mi saltò addosso da dietro in un locale di Portobello Road; Eddie e Phil afferrarono lui e i suoi due amici, li scaraventarono fuori dalla porta e li presero a calci per la strada. 
Il ricordo più vivido che ho di (We Are) The Road Crew è quello di Eddie steso sulla schiena nello studio in preda a una crisi di riso, con la chitarra che distorce a tutto volume, a metà di quello che doveva essere il suo assolo. Lo lasciammo nel pezzo perché era dannatamente divertente.
In verità, Eddie lasciava la band più o meno ogni due mesi, ma quella volta la differenza fu che non gli chiedemmo di tornare indietro. Non cercammo di persuaderlo, e fu per questo che non ritornò, la cosa lo sorprese un po', credo. Ma eravamo stanchi di lui perché dava sempre i numeri e beveva parecchio allora. È molto cambiato, e in meglio, da quando si è ritirato." 
Lemmy Kilmister, qualche anno fa. 

Da ieri, 11 gennaio 2018, "Fast" Eddie Clarke brucia all'inferno assieme ai suoi ex-compagni di viaggio, Phil e Lemmy. La formazione originale dei Motörhead può finalmente dirsi riunita per l'eternità. L'incendiario trio che fra 1976 e 1982 consegnò al mondo, fra gli altri, dischi come Overkill, Bomber, Ace of Spades e No Sleep 'Till Hammersmith potrà finalmente depredare l'infinito bar di Malebolge, il tutto a ritmo di rock&roll.
Pochi si stanno prendendo la briga di ricordare, in queste ore, le avventure post-Motörhead di Eddie con i Fastway, formazione che la Columbia tentò di far decollare senza grandi risultati. Del resto anche io ho sempre trovato francamente inutili dischi come Waiting for the Roar o la colonna sonora di Trick or Treat, ma capisco che, per un chitarrista anglosassone che nei primi anni '80 usciva da esperienze "di culto" come quella con Lemmy e Phil e dunque da un successo di vendite massiccio, la strada più veloce per restare in pista fosse quella di inspessire ancora di più il sound, approdando a un heavy metal manierista e fracassone. Anche il suo primo album solista, It Ain't Over till It's Over (uscito nel 1993), pur appartenendo a un altro pianeta rispetto agli album dei Fastway, oggi affascina più per la sua scarsa reperibilità e per il suo valore collezionistico che non per i brani presentati.
Non c'è di che meravigliarsi se quello che si è poi rivelato l'addio musicale e discografico di Clarke, quel Make my Day- Back to the Blues uscito per Secret Records nel 2014, non abbia conosciuto apprezzamenti o recensioni nè in patria nè all'estero. Ma non solo: io per primo- e sono uno di quelli che a casa ha tutti gli album degli Headcat, eh! -non sospettavo neanche l'esistenza di un disco a firma di un ex-Motörhead così solidamente trapiantato nel bluesTroppo bluesy per i metallari, troppo heavy per i bluesmen? Può darsi, ma in un universo dove Joe Bonamassa viene salutato continuamente come uno dei più grandi artisti del suo genere c'è bisogno davvero di canzoni dalle nervature romantiche, copertine con foto di un bel tramonto sulla strada e dischi-fantasma come Make my Day per andare avanti. Perciò, appassionati che siete a "onorare" la memoria di "Fast" Eddie Clarke, fate un doppio servizio e andate a scoprire questo suo ultimo, timido gioiello. Una voce, un organo ("tastierizzato", ma poco importa) e una chitarra che sembrano penetrare alla perfezione questo gennaio umido e insolitamente caldo.

Discografia minima

Fastway, Fastway (Columbia Records, 1983)

Fast Eddie Clarke, It Ain't Over till It's Over (Griffin Music, 1983)


Fast Eddie Clarke, Make my Day- Back to the Blues (Secret Records, 2014)