mercoledì 28 febbraio 2018

Eric Clapton: Life in 12 Bars [Recensione]

La fatidica questione che sento di dover porre in introduzione a questo post è: c'è vita oltre la noiosa normalità cui Eric Clapton ci ha abituati? Una normalità che negli ultimi anni non solo ha permeato ogni suo album di canzoni edite o inedite, disco live e raccolta, ma che è riuscita ad appiattire perfino quel poco di costruttivo dibattito critico che attorno a Clapton era andato faticosamente costruendosi. Anche io, fino al giro di boa dei vent'anni, sono stato convinto che Clapton fosse un bolso chitarrista partorito dall'industria musicale per compiacere quelli che siedono in qualche macchinone e che in tutta la vita hanno comprato quattro, cinque cd (fra cui, appunto, l'Unplugged di Clapton) e su di essi hanno basato la loro (breve) lista di opinioni musicali precostruite. <<Hai comprato anche tu Unplugged? Perfetto, ora anche tu sai cos'è il blues!>>, ma non è così che funziona. Per quanto, paradossalmente, Unplugged sia il disco di Clapton ad avere venduto di più, nonchè l'album live di maggior successo di sempre (26 milioni di copie), ai miei occhi non rappresenta alcuna rinascita artistica, nè lo consiglierei ad anima viva come principale strumento di introduzione ai diabolici segreti del blues (a meno che l'anima viva in questione non mi stia sui coglioni, ovviamente).
Poi, il 21 aprile 2009 (lo so perchè è un evento registrato nel mio diario di allora) ho comprato Blind Faith dei Blind Faith e ho iniziato a vederci più chiaro: tuttavia, più che di un formidabile bluesman bianco, mi sono ritrovato al cospetto di un rocker col cuore diviso fra Inghilterra e America, un musicista specializzato in ballate davvero emozionanti (Can't Find My Way Home, Presence of the Lord) e ferratissimo nella creazione di riff e assoli superbi (Had to Cry Today, Do What You Like). Più mi sono addentrato nella moltitudine di opere che vedono la firma o anche solo il coinvolgimento di Clapton, e più che la critica ufficiale- specie quella straniera -ha preso le distanze dalla sua figura. Specie negli ultimi anni siamo approdati a un revisionismo quasi totalizzante: Clapton è sempre più spesso descritto come un idiota, un mestierante quasi incapace di suonare ma circondato dai migliori turnisti al mondo  e molto abile a muoversi nella giungla del music business. In un articolo del 2016 che si riferiva al recente raggiungimento dei suoi 70 anni, la rivista Noisey ha simpaticamente condensato così il chitarrista: "Uomo bianco scopre chitarra. Uomo bianco piace chitarra. Chitarra divertente. Chitarra suona bene. Cocaina". Insomma, il profilo storico-musicale ormai divenuto moda è il seguente: un ubriacone inglese che aveva ascoltato due dischi di blues da bambino dimostra di essere in grado di tenere una chitarra in mano e, capitato al posto giusto al momento giusto, ha successo, scopa chiunque gli capiti a tiro, ruba la moglie a George Harrison, sniffa, si buca, va alle sfilate di Armani, si compra la Ferrari, rimane turbato dalla morte del figlio piccolo, entra in clinica, si ripulisce, mette la testa a posto, va a caccia, va a pesca, fa tre figlie da vecchio, si ammala, fa un tour di addio e non potrà più suonare. Sicuramente potremmo trovare del vero in queste sbrigative affermazioni, ma la parata anti-Manolenta che ha preso piede recentemente mi sembra infondata, stupida e molto poco costruttiva. A tal proposito, l'uscita nelle nostre sale (per soli tre, deprimenti giorni) di un film come Life in 12 Bars cade a fagiolo e potrebbe riportare l'intero dibattito ad una dimensione più sensata, oltre a tentar di fornire esaustive risposte a numerose domande.
La prima e la più importante: "Clapton is God" per davvero? E se mai lo è stato, quando e perchè è successo? Nei 137 minuti del film, Lili Zanuck non nasconde una particolare predilezione per il Clapton giovane e, guarda caso, il periodo meglio trattato (e con ogni probabilità il più importante sotto ogni punto di vista) e maggiormente approfondito del film è quello relativo ai Cream. Siamo nel 1966, Clapton ha ventidue anni, ha lasciato gli Yardbirds nel febbraio '65 passando per i Bluesbreakers, coi quali ha pure registrato un disco: non ci sono dubbi che, fra i tanti allievi di John Mayall, sia lui quello col curriculum più ricco. A Londra, in Armon Road, è da poco comparsa la scritta "Clapton is God", ed effettivamente l'operazione che i Cream compiranno all'interno della musica rock (e, forse vale la pena ricordarlo, in appena trentasei mesi) finirà con l'assumere tratti demiurgici. Intanto, codificano definitivamente le regole del perfetto power-trio, rivisitano e stravolgono il blues classico condendolo con elementi orchestrali e variopinti, si scambiano posto sia alla voce che in sede di composizione. Come dimostra Fresh Cream (uscito a fine '66), sono una band psichedelica già prima che la Summer of Love esploda, mentre Disraeli Gears, prodotto da Felix Pappalardi e registrato da Tom Dowd, è il loro capolavoro, nonchè il disco in cui il genio di Jack Bruce rimbalza dal basso al pianoforte, dalla voce all'armonica a bocca. Clapton continua a portare sulle spalle l'onere di essere il dio (almeno in Gran Bretagna, dal momento che negli USA si sta muovendo, parallelamente, Mike Bloomfield, che per chi scrive è- assieme a Duane Allman -il miglior bluesman viso pallido della storia) della chitarra fino al 1968, anno in cui i Cream fanno uscire il doppio Wheels of Fire e lui "abdica", cambiando di nuovo pelle, genere e band.
Dovrebbe seguire una fase abbastanza importante della carriera di Clapton. Anche dando per buono che già dalla fine del 1968 egli non sia più il "God" di cui sopra e cancellando dalla memoria Goodbye (disco di addio dei Cream posticipato al 1969 e fortemente voluto dal solo Jack Bruce), gli anni '60 vengono chiusi da un capolavoro anomalo come Blind Faith, sospeso fra le influenze della Band e alcune massicce iniezioni di progressive rock. Questo suo crescente interesse per la musica americana trova uno sfogo "pratico" con la partecipazione a un grosso tour promozionale organizzato dalla Atlantic per Delaney&Bonnie, un duo che l'etichetta ha da poco messo sotto contratto strappandolo alla concorrente Elektra. Clapton si aggiunge "in corsa" ad una backing band leggendaria dove già militano Jim Gordon, Rita Coolidge, Bobby Keys, Jim Price, Bobby Whitlock, Carl Radle, Dave Mason e- opportunamente celato dietro lo pseudonimo di Angelo Misterioso -George Harrison. Oltre a legare profondamente con Delaney Bramlett, Clapton entra in contatto con l'humus culturale del sud degli Stati Uniti, impara a conoscerne odori, sapori, suoni. Fa incetta di 45 giri a marchio Stax, assiste alla nascita del southern rock, ascolta musica alla radio che non avrebbe mai avuto modo di sentire se fosse rimasto in Inghilterra, ma soprattutto conosce JJ Cale e il Tulsa sound. Forse, se c'è stato un mentore oltre a John Mayall nella vita di Manolenta, quello è stato Cale. JJ Cale è la persona che ha preso il Clapton chitarrista blues rock e lo ha spronato a scrivere ballate delicate e romantiche, trasformandolo nel raffinato singer solista degli anni '70. Oltre a questo, gli ha regalato successi radiofonici (After Midnight) e soddisfazioni, arrivando a concedere brevi respiri di alta qualità ad alcuni dei numerosi dischi mediocri che Clapton ha dato alle stampe nell'arco degli anni. Qualche esempio? Angel in Old Sock, Traveling Light in Reptile dovrebbero bastare. Non è un caso che il suo personalissimo, omonimo esordio datato 1970 risulterà essere il diretto risultato di questi mesi di crescita e apprendimento. Ecco, adesso mettete in conto che Delaney&Bonnie, JJ Cale e gli inizi solisti di Clapton in Life in 12 Bars non vengono menzionati. Il regista- che purtroppo non è Martin Scorsese o Cameron Crowe -opta per il gossip e ci angoscia con la risaputissima storia di Pattie Boyd: insomma, favolette che ormai sanno anche i bambini.
A questo punto, il film si sputtana. Intanto, liquida in meno di dieci minuti l'esperienza di Derek & The Dominoes (il che, tradotto, significa trattare con leggerezza uno dei punti cardinali dell'esperienza umana e artistica del protagonista), poi prende una brutta piega e si concentra su un argomento soltanto: le dipendenze. Tramite uno sciapo montaggio computerizzato si susseguono infatti le copertine di 461 Ocean Boulevard, There's One in Every Crowd, No Reason to Cry, Slowhand, Backless, Money and Cigarettes, Behind the Sun, August e Journeyman, tutti bollati dalla voce off di Clapton come <<dischi fatti quando ero ubriaco e che mi dà fastidio risentire>>. Liberissimo di farseli stare "antipatici", ma in questo elenco trovano spazio due capolavori della musica rock, un paio di ottimi album e un'affascinante occasione mancata che da sola meriterebbe un documentario di 45 minuti di approfondimento (mi riferisco a No Reason to Cry). Come se non bastasse, gli arrosti post-1985 non hanno nulla a che spartire con le opere precedenti e agli occhi di un neofita che si reca a vedere il film potrebbe quasi sembrare che tutto ciò che Clapton ha inciso dopo Layla e prima di Tears in Heaven sia un unico blocco di merda, roba da buttare, quando, verosimilmente, le famose "ultime cartucce" le ha sparate proprio fra la disintossicazione da eroina e prima di conoscere Lory del Santo.
Ogni speranza di ascoltare Clapton intento a descrivere il tour da cui fu tratto E.C. Was Here, o a raccontare dei giorni in cui ai Criteria Studios si prodigava in lunghe jam con Freddie King, o ancora di quanto avanguardistica si rivelò la registrazione di Just One Night sfuma nel giro di pochi secondi. Viene preferito un argomento assai più doloroso: e non mi riferisco alla collaborazione con Phil Collins (tragica oltre ogni aspettativa), bensì alla morte del piccolo Connor. Si susseguono molti filmati inediti e tutto assume un atteggiamento un po' morboso. La genesi di Tears in Heaven parebbe riportare il film su un piano convincente: commuove senza mai andare sopra le righe, il che non guasta, ma di fondo un problema gigantesco persiste. Tears in Heaven  (canzone bella, ruffiana e di vitale importanza, per carità) è uscita come singolo nel 1992 ed è di fatto la canzone più recente inclusa in Life in 12 Bars. Avete capito bene: un documentario di due ore e un quarto non è in grado di presentare musica che abbia meno di ventisei anni di vita! Dallo scialbo lavoro di Zanuck sembra venir fuori che dai fasti dell'Unplugged in poi nulla di importante sia accaduto nella carriera di Clapton all'infuori della creazione del Crossroads Festival. Eppure ci sono undici dischi in studio (una buona parte è monnezza, ma- lo abbiamo visto -la carriera di Clapton è un susseguirsi di alti e bassi) e quattro live che sono pronti a provare il contrario. Fa piacere vedere i filmini domestici della nuova famiglia di Manolenta, lui che si dimostra un padre affettuoso e giocherellone, le figlie che sorridono e giocano, ma insomma: due parole sul discusso tributo a Robert Johnson (2004) le vogliamo dire o no? Un assaggio del meraviglioso concerto in duo con Steve Winwood al Madison Square Garden (2008) vogliamo darlo? Menzionare il concerto al Lincoln Center in cui Clapton si esibisce con Wynton Marsalis (2011) è di troppo disturbo? E che ne è stato dei 70 anni festeggiati alla Royal Albert Hall? Non è dato saperlo. Un sornione B.B. King ringrazia Clapton per l'amicizia e le attenzioni riservate a un certo tipo di musica e tutto finisce bene. L'approccio e, francamente, anche la forma ricordano Super Quark, il che aiuta a condurre lo spettatore verso l'agognato mondo dei sogni.

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