giovedì 31 maggio 2018

"Se il telefono non squilla, sono io che non ti chiamo" e un paio di elucubrazioni pre e post-bolognesi [Extra]

Dal momento del mio rientro dalla Francia a fine aprile, la vita è tornata ad assumere pieghe bizzarre e imprevedibili. La cessazione del vecchio lavoro e il mancato rinnovo del contratto come accompagnatore part-time sugli scuolabus mi hanno messo inizialmente di fronte alla fatidica domanda che cinquant'anni fa, grazie all'astuzia di Mario Merz, divenne perfino una famosa e discussa serie di sculture d'arte moderna: "che fare?", per l'appunto. Bene, tanto per cominciare, non bisogna mai smettere di studiare. Mai. Io studio continuamente, il che per una persona che ha abbandonato l'università nel 2009 è un paradosso e una fortuna allo stesso tempo. Per esempio, in questi ultimo giorni apprendo- con ampio godimento -leggendo Le vie dei canti di Bruce Chatwin. Dormo, mi trastullo, perdo tempo, vado a un paio di riunioni e sto dietro alla Festa di Liberazione 2018, che si terrà nel quartiere, come di consuetudine, dal 21 giugno al 9 luglio. Rinuncio ad andare a vedere Gilberto Gill a Perugia, medito sull'acquisto con larghissimo anticipo dei biglietti per l'unica data italiana della Marcus King Band (il loro disco è stato il mio top-album del 2016 e suoneranno a ottobre al Santeria Club di Milano), vado con Sofi a vedere Ultimo tango a Parigi restaurato e in lingua originale e realizzo, rammaricandomene, che a 48 anni sarò molto diverso da come era a quell'età Marlon Brando. Riscopro anche il piacere di ascoltare per un paio di notti piovose la colonna sonora di Gato Barbieri nello stereo di Ginetta, prima di toglierla lasciando il campo libero a Moondance, che, preso in coppia con Blowin'Your Mind (gli anziani continuano a chiamarlo T.B. Sheets, forse confondendolo con una compilation coetanea e pressoché identica per tracklist e genere) davvero mi piace più di Astral Weeks.
Mi soffermo a ricordare quando il suddetto blog si preoccupava prevalentemente di cinema, della quantità di recensioni scritte nei primi tre anni di permanenza su questa gradevole piattaforma web e di alcune altre cose. Poco più di un mese fa, ci siamo salutati con Lorenzo (che del blog curò, inizialmente, il layout) promettendosi di aggiornarci su un libro dedicato a Mad Max, ma per vari motivi non sono riuscito a raccogliere idee in merito: gusti, stili, sensibilità irrimediabilmente lontane. Al contempo, ho rinunciato a partecipare alla pubblicazione di un romanzo di fantascienza scaturito dal racconto lungo Il giglio infranto, e ho momentaneamente perso le tracce del fumetto che io e Pippo- ne sono certo -porteremo quanto prima in tipografia e da lì a Lucca, in Italia e nel resto del mondo. Perché sognare non costa nulla, e quando si sogna è inutile sognare "in piccolo". Anche Paolo Sorrentino dice più o meno lo stesso in una recente intervista dedicata alla sua ultima opera; anzi, fa pure meglio: con una soddisfazione sfacciatamente partenopea, paragona l'operazione cinematografica, il fare film, a uscire per una cena al ristorante. "Quando ero piccolo, se si andava a mangiare al ristorante, lo si faceva per mangiare tanto e bene, altrimenti avremmo potuto restare a casa". Questa frase racchiude uno dei segreti cardine del cinema di Sorrentino e condensa benissimo Loro. Tre ore e passa di alto cinema che  ambisce a fare luce (seguendo le orme di maestri come Elio Petri e Martin Scorsese più che di Fellini) su un modo di vivere e di pensare più che su una figura di potere. Chi arrivava da destra non poteva che partire prevenuto per un film simile (originalità ed elasticità mentale sono due prerogative solitamente vacanti in chi ancora si professa- e qui pesco fra alcuni sinonimi -fascista, democristiano, liberale o conservatore nell'Italia del 2018), mentre a sinistra è piaciuto davvero poco: chi si aspettava un Caimano più cattivo e profondo (e Sorrentino, nel Caimano, compariva come capo della comune maoista dove la storia di Moretti ha inizio) ha rischiato davvero di entrare in coma e non uscirne, chi auspicava un film-denuncia sarà rimasto quantomeno sconcertato, chi ancora confidava in una pellicola "di regime" dove Berlusconi veniva paragonato a Hitler avrà avuto una cocente delusione. In verità, Loro è uno dei migliori film-inchiesta usciti nel e soprattutto sul nostro paese negli ultimi anni: un'inchiesta scevra da certe ombre ideologiche, profonda come una seduta di ipnosi, colta, acuta e feroce come solo Sorrentino ha dimostrato di essere (dal passaggio alla "maturità" de Il Divo alle avventure del Giovane Papa mandate in onda su Sky). Delle molte cose che mi hanno colpito in Loro, vorrei soffermarmi su quanto la bellezza, la sensualità, la perfezione della femmina si frantumino, alla fine, sotto i colpi della volgarità, del cafonal, delle droghe sintetiche e su come anche l'innocenza e la purezza vengano fatte appassire in nome della deformità, della corruzione e dell'orrido. Chi, come me, ha imparato in materia amorosa a disprezzare il cazzeggio e lo slang, la goliardia fine a se stessa e tutta quella lunga serie di codici "da rimorchio" stereotipati che il maschio solitamente utilizza per fare lo "splendido" apprezzerà la patina del macho coglione che riveste il personaggio di Scamarcio, e poi, in generale, l'altissimo livello della recitazione, l'uso pazzesco che viene fatto di Down on the Street degli Stooges e il sontuoso decollo che il film vive in tutta la seconda parte. Insomma, tanto per non dilungarsi(altrimenti potevo tornare a una delle mie classiche recensioni): un film che cresce e migliora nella memoria di chi lo guarda.
E' l'ultimo sabato mattina di maggio, quando carichiamo la Ypsilon di Sofi e partiamo alla volta di Bologna, dove saremo ospiti di Federico. Per strada, interrogo il Brune- storico, giornalista e da poco anche romanziere -sulle origini della città. Parliamo del suo antico e fascinoso nome villanoviano, Felsina, e del successivo Bononia, di origine incerta ma da molti studiosi ormai attribuito ai celti. Per entrambi, Bologna è la città cantata più volte da Guccini, Lolli e Dalla, socialmente e politicamente è stata un grande laboratorio divenuto vetrina, un "esempio" fagocitato dalla standardizzazione, è il luogo a cui Andrea Pazienza doveva tutto e da cui non poté fare a meno di fuggire, una fucina di idee che ormai sono divenute o banali o innocue, un posto che trovate citato in tutti quei quotidiani mainstream quando c'è da tirare in ballo una realtà "scomoda" oppure soltanto differente in cui di realmente alternativo è rimasto assai poco. Bologna è anche la città in cui avrei dovuto vedere Bob Dylan la prima volta che desiderai accorrere a un suo concerto (novembre 2005), quella da cui sono spesso passato coi mezzi di trasporto più disparati senza mai fermarmi e a cui, nell'estate del 2009, io e Nikke girammo attorno angosciati da tutti quei semafori e dal caldo torrido che, quasi dieci anni dopo, sembra non averla mai abbandonata. Bologna fu patria amata e poi rinnegata dal mio fumettista preferito: Roberto Raviola in arte Magnus, che qua nacque, crebbe e divenne famoso. Bologna, che vide dapprima il movimento studentesco piangere Francesco Lorusso (universitario e martire del '77) e poi contestare- incredibile, ma vero -un concerto gratuito dei Clash a Piazza Maggiore. Bologna martoriata dalla bomba di quel maledetto agosto 1980.
La città in cui giungiamo attorno alle 11, con un ritardo di mezz'ora sulla tabella di marcia, invece è quella dove si sta consumando lo psicodramma del permesso negato dalla sovrintendenza al concerto gratuito proposto dagli aborigeni membri de Lo Stato Sociale. Non ricordo altre occasioni (almeno nella storia della nostra repubblica) in cui una sovrintendenza avesse avuto più ragione di adesso. E' chiaro che il ridimensionamento di certi spazi culturali sia un problema in molte località italiane, ma lasciarlo in mano alla cricca di Lodo Sguenzi è davvero troppo! Troviamo inspiegabilmente parcheggio a pochi metri da casa di Federico, molto vicina al centro ma a suo modo appartata in una via tranquilla, con le case dai profili più bassi rispetto al circondario. Parchimetro caruccio. Posiamo i borsoni, espletiamo i bisogni fisiologici e siamo pronti a conquistare la città. Vagabondando sotto i portici, noto subito che le innumerevoli falci e martelli, le stelle delle BR e i loghi riconducibili allo squatting si confondono armoniosamente con lo swoosh della Nike, il pentacolo delle Converse Chuck Taylor, l'ondina delle scarpe Vans. Non è vero che viviamo in un'era post-ideologica, ma Bologna contiene la perfetta scenografia per illudere il forestiero con questa bugia. E' mezzogiorno passato da poco, ma ci fermiamo comunque a bere un caffè in una bottega molto particolare, dove lo macinano sul momento e ti garantiscono, per qualche centesimo in più, un'esperienza davvero gustosa. Di lì a poco passiamo a visitare il comune della città in Piazza Maggiore, dove rimaniamo per un quarto d'ora, giusto il tempo di veder celebrati tre matrimoni a fila. Tutta l'architettura è solennemente papale: Bologna, al contrario di numerose "cugine" toscane, non è mai stata città dove le signorie potessero trovare una loro stabilità. Ci provarono i Pepoli, nel Trecento, e poi i Bentivoglio, nel Quattrocento, ma preti e cardinali riuscirono sempre a ordire tranelli e congiure nei loro confronti, fino ad assumere il totale controllo del territorio e a far annettere la città allo Stato della Chiesa, potendo anche contare su un'aristocrazia di commercianti e avvocati i cui legami col clero sarebbero sopravvissuti fino all'Ottocento.
Oltre a essere punto di incontro della vita cittadina e il luogo dove Claudio Lolli aveva visto "degli zingari felici ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra", Piazza Maggiore ospita anche l'affascinante e largamente incompiuta chiesa di San Petronio. Il Brune, zainetto in spalla e American Spirit pendente a un angolo della bocca, sciorina nomi e date e ci racconta che, secondo il progetto definitivo, il duomo avrebbe potuto essere più grande della stessa San Pietro. Da alcuni anni, il Comune ha chiuso al traffico buona parte del centro, quindi riusciamo a goderci con calma e tranquillità anche la splendida fontana del Nettuno e i negozi di via Indipendenza. Federico è un asso nel girare, valutare e conoscere i posti dove mangiare in un determinato luogo. Sa districarsi fra i meandri di Tripadvisor e, soprattutto, ha occhio, gusto e senso della misura. Sei anni a Roma e un altro a Torino hanno fatto il resto. Inoltre, trovare un buon posto di sabato in centro a Bologna senza incappare nel trappolone turistico è un'ardua impresa. <<Vi porto a Buca Manzoni, è qua dietro...>>, dice lui. C'è sicurezza nella sua voce, sappiamo di essere in ottime mani e poi c'è già stato coi genitori. Il ristorante è davvero in una "buca", o meglio in uno scantinato trecentesco. Dietro il banco una signora in carne molto cordiale, il personale di sala cortese e pacato. Niente tv, niente radio. Scavallate le una e mezza, non c'è troppa gente. Ordiniamo spuma di mortadella, tigelle fritte, parmigiano reggiano, tortelli agli asparagi e tortellini scolati e saltati in padella, il tutto accompagnato a  un litro di rosso della casa, un vino leggero e semplice che qua sono soliti servire freddo. Fra antipasto e primo, scattiamo un selfie.
Via Manzoni sfocia in via Galleria, una strada notevolmente più silenziosa rispetto ad altre del centro. Ne percorriamo solo un pezzo prima di riavvicinarsi a Piazza Maggiore per dirigerci verso le Due Torri. Come in molti altri luoghi d'Italia, dopo l'anno Mille le famiglie benestanti iniziarono a fare a gara a chi ce l'aveva "più lungo" (in province come la mia questa usanza è sopravvissuta fino a oggi, seppur con modalità differenti) e si misero a commissionare torri su torri, ma non di certo per abitarle: queste protuberanze verticali posizionate sopra o di fianco alle case dei signori fungevano infatti da attestati di potenza o, nei momenti più bui, da roccaforti militari. A ricordo di questa gara fra ricchi boriosi, sono rimaste soltanto la Torre degli Asinelli e la Torre Garisenda, che pende in maniera a dir poco inquietante. Se sul versante dell'offerta culturale a Bologna sembra davvero difficile scegliere nel mucchio, dall'altra desta stupore scoprire che l'attuale Amministrazione abbia letteralmente rinunciato all'assessorato alla cultura per investire tutto su quello al turismo. Il turismo, specie quello incolore e massificato dei nostri tempi, rende e dunque via: si aprono i rubinetti e ogni quaranta abitanti si apre un ristorante! Francamente faccio fatica a rivedermi in politiche di questo genere, nonostante esse palesino al meglio gusti e tendenze del millennio in cui chi oggi ha quasi trent'anni è cresciuto, ha studiato, è maturato, ha avviato un determinato percorso e vive (o sopravvive). Decadenza e oscurità sono i due grandi pilastri su cui me la sento di poggiare due terzi dell'esistenza sociale mia e dei miei coetanei: la crisi non c'entra niente. Le ultime cose che mi interessano, da sempre, sono il profitto e la posizione sociale. La mia consapevolezza di giovane adulto sarà aumentata solo tiepidamente, ma il mio menefreghismo nei confronti di questi due fattori non è mai venuto meno. Giunti in via Rizzoli, ci separiamo: Sofi e il Brune vanno a visitare la Pinacoteca, mentre io mi inoltro con Fede in via Zamboni, per una visita alla temuta e leggendaria zona del "quartiere universitario", quello raccontato in Pentothal e Cannibale dal Paz, eccessivamente mitizzato dalla letteratura fricchetton-collettivista della città (Wu-Ming, Luther Blissett, ecc.) e definitivamente ridicolizzato grazie a film come Lavorare con lentezza o Jack Frusciante è uscito dal gruppo.
Le scritte sui muri che partono da via Zamboni e arrivano a piazza Verdi meriterebbero un libro a sé, una sorta di saggio fotografico camuffato da guida per un turismo alternativo e irriverente. Fra i migliori che leggo: "Dai tornelli ai tortelli", "Vi piscio nei risvoltini", "Gandhi Fascio" e- capolavoro assoluto -"Se il telefono non squilla, sono io che non ti chiamo". La tradizione della scritta murale bolognese è materia antica, risalente ai primi anni '70 e già notevolmente affrontata dallo stesso Pazienza nelle opere del periodo universitario. Piaccia o no, lo scenario freak che mi si para di fronte è talmente carico e pesante da sembrare artefatto, vuoto, privo del dinamismo che ho percepito fino a poco prima. Una facciata aromatizzata all'hashish con timidi sentori di progressismo. Avevano ragione i Gang (anche loro forestieri non-bolognesi) quando a inizio Millennio cantarono- forse con la consapevolezza di certi grandi poeti intenti a regalare alla letteratura italiana il loro hapax legomenon -"Bologna non c'è più/ se l'hanno presa loro/è un cumulo di noia che spendi e paghi caro". La frattura fra PCI e movimenti extraparlamentari non solo non si è mai chiusa, ma qua sembra essere divenuta una falla vera  e propria, un fossato sicuro e accogliente, una lunga oasi che attraversa la città e in cui molti hanno finito col trovarsi a proprio agio, vivacchiandoci e sonnecchiandoci placidamente, a intervalli regolari nell'arco degli ultimi quarant'anni. Peccato solo che fuori ci sia il Mondo. Risulta infine difficile, oggi, pensare che dall'ennesimo murale dipinto sotto uno di quei loggiati fosse arrivata l'ispirazione per il titolo di uno dei massimi punti di arrivo del cantautorato italiano di tutti i tempi: Disoccupate le strade dai sogni, diario privato destinato a una rivoluzione collettiva nata già morta.
Quando ci ritroviamo, sono da poco passate le 18:00. Io e Federico abbiamo compiuto un giro molto lungo, le calorie dell'abbondante pranzo in perfetto stile bolognese sono state tutte bruciate, siamo usciti dal perimetro delle mura e rientrati, abbiamo fatto scalo in un paio di negozi (per fortuna, non a Disco d'Oro in via Galliera, ché mi sarei rovinato), visto uno scorcio del Reno nella suggestiva via delle Moline e andati verso il luogo dell'appuntamento: Macondo, ossia il miglior cocktail bar della città. Ubicato al numero 22 della celeberrima via del Pratello, Macondo è un locale piccolo, con dentro un po' di sedie di plastica e cuscini e qualche tavolo sotto la loggia all'esterno. La temperatura oscilla fra i 28 e i 30 gradi, l'arsura assale, ma per adesso non siamo in molti. In fatto di gin, whisky e rum questi ragazzi sembrano essere davvero molto ben forniti. Le bevute della casa oscillano fra i 4,50€ e gli 8€, non fanno servizio al tavolo, così prenotiamo al banco. Il Brune, caso limite di scrittore allergico al gin, ordina uno screw-driver rivisitato, mentre per me, Fede e Sofi tre gin tonic fatti con un gin a loro piacere. Ci fa qualche domanda sulle nostre preferenze in fatto di distillati. <<La solita vecchia diatriba fra aromatici e secchi!>>, penso dentro di me. La scelta cade su un gin giapponese dai sentori floreali ma non troppo zuccherini. Mi sta bene: io sono a favore di tutto ciò che è molto, molto dry e, mentre Fede si fa versare un bicchiere di acqua frizzante a parte, chiedo che al mio venga aggiunta una scorza di lime. Sprofondiamo sulle poltroncine. Se la rivoluzione scoppiasse adesso, temo che dovrei chiedere cinque minuti di pazienza.
Rincasiamo distrutti, con qualcosa come 11km sul groppone, le magliette cariche di sudore e la smania di bere un litro d'acqua fresca a testa. Doccia a turni, visione di un programma chiamato Camionisti in trattoria condotto dal famigerato Chef Rubio: puro trash accompagnato dai carboidrati. Sofi passa al vaglio un paio di ristoranti, alcuni dei quali già pieni. Prenotiamo al Rovescio, una osteria biologica di via Pietralta, per le 21:00, che qua è un orario quasi da aperitivo. Buffo che una città così esposta a nord conservi dei ritmi quasi partenopei. Ci pressiamo nella Mini di Federico e partiamo. Facciamo un giro panoramico spingendosi fino al parco dove si svolge la Festa dell'Unità più grande d'Italia. Vediamo l'Estragon, i centri sociali, l'Unipol Arena e, in generale, il quartiere dove Federico lavora e passa buona parte della sua settimana, dopodiché ci riavviciniamo al centro. Trovare parcheggio si rivela difficile, varchiamo la ZTL dopo aver consultato il sito del comune in materia degli orari di attivazione del varco, facciamo due volte il giro dell'isolato, usciamo, rientriamo e alla fine riusciamo a posteggiare a 700 metri dal ristorante. Il locale è piccolo e confortevole, il menù ridotto ma ben congegnato. Sofi ordina della pasta, mentre noi maschietti carnivori propendiamo per le tartare di bufalo. Ci portano una bordolese di vino della casa: un robusto mix di cabernet e barbera senza solfiti. La cena fila via spettacolarmente, dopodiché paghiamo e usciamo. Il tour notturno ci porta su fino alla zona dei colli appenninici. Bologna ha la particolarità di confinare con molti di essi, fra cui quello della Guardia, che si estende fino a 290 metri di altezza e sulla cui cima trova spazio il santuario mariano della Madonna di San Luca. Io e Fede pisciamo in un cespuglio, mentre Sofi scatta, dalla strada, un paio di foto notturne.
Il resto della serata, una volta tornati a valle, prosegue da una piazza all'altra, di loggia in loggia. Tentiamo di ordinare al Senza Nome, un bar interamente gestito da persone sordomute dove primeggia il linguaggio dei segni. Un'esperienza unica che vorrei approfondire, ma la ressa è insopportabile, l'attesa snervante e il caldo regna sovrano anche a quest'ora tarda della sera. Mi giro verso il Brune: sembra Martin Sheen mentre, sulla barca, studia il report riservato riguardante Kurtz tirando avanti a cognac e Winston. Ripariamo, assetati più che mai, in piazza San Francesco. Intercetto un pakistano che vende abusivamente birre Moretti da 3/4 di litro a 2,50€: la spunto con uno sconto di 50 cent. e lo saluto. Sofi e Fede riparano dentro un locale dall'eloquente nome di Alto Tasso. Io e il Brune restiamo fuori a parlare di Solo, che entrambi dobbiamo ancora vedere. Resto allibito dalla quantità di persone che occupano, rigorosamente sedute sul selciato e sull'asfalto, tutta la piazza.
Rincasiamo che sono quasi le 2:00. Prima di crollare, leggo le prime pagine de La vita fino a te di Matteo Bussola, che ho regalato a Sofi un paio di settimane fa. Il mattino seguente, dormo fino a metà mattinata, facciamo il caffè e usciamo a visitare l'Archiginnasio. 3€ per vedere due stanze. Da lì, ci spostiamo nella bellissima piazza Santo Stefano, che i bolognesi chiamano affettuosamente "delle Sette Chiese". Ci domandiamo perchè, visto che di chiese ne vediamo solo tre. La storia di questa basilica "minore" si perde nel tempo e assume un alone leggendario: addirittura, fino a tutto il III Secolo, nel punto dove oggi si trova la chiesetta dedicata i martiri Vitale e Agricola, era stato possibile celebrare il culto a Iside in un apposito tempio, logicamente scomparso sotto strati e strati di marmo, mattoni e cristianesimo. <<Bologna, diciotto secoli fa, era una città meravigliosa!>>, direbbe Nanni Moretti. Veniamo fotografati in uno degli splendidi chiostri che portano da una chiesa all'altra.
Pranziamo a casa di Fede, che improvvisa delle ottime penne alle melanzane e un'insalata di cetrioli perfetta per fronteggiare la calura esterna. Per digerire, tentiamo inutilmente di raggiungere un parco cittadino, ma l'afflusso di automobilisti della domenica da tutta la città ci riporta nuovamente sui Colli. Torniamo a San Luca, stavolta con la luce del giorno e la possibilità di visitare il monastero. Francamente, sembra un caotico luna-park tenuto pure maluccio. In generale, è una zona collinare imparagonabile a quelle che sovrastano Firenze o Torino. Poco male, comunque. Scattiamo un selfie e ci prepariamo a salutare Fede e la città. So long, Bologna.

giovedì 24 maggio 2018

His Bobness' 77 BDay (ossia come "non continuare a confondere il Paradiso con quella casa al di là della strada") [Extra]

Bob Dylan non l'ho mai conosciuto. Me lo immagino come un uomo buono ma incazzoso, affidabile ma lunatico, magnanimo con chi merita magnanimità e cinico con chi merita cinismo. Un santo indiavolato o un diavolo beatificato, a seconda dell'occasione. Insomma, una carogna molto simpatica. Una carogna che oggi compie 77 anni, traguardo che ho pensato di onorare, nel mio piccolo, con uno dei molti aneddoti che potrei snocciolare su di lui. Ma prima un breve e doveroso appunto riguardante un fatto recente: andando a ritroso, credo di aver capito cosa possa stare alla base della mia sconfinata ammirazione per l'artista e la sua opera. Come spesso accade, il merito è di una frase, una frase che gli sentii pronunciare, quando avevo una quindicina di anni, in un film di Martin Scorsese chiamato No Direction Home e che stamani, su Facebook, mi si è ripresentata davanti agli occhi sotto forma di frame:
Certe frazioni di comuni, nella mia mente, rappresentano solo un condensato di umidità e zanzare. Castellina Scalo, lambita marginalmente a est dal torrente Staggia, non fa eccezione. Anche qua, dentro una dépendance posta all'estremità di un colle sovrastante il paese con la sua Coop, il suo circolo ARCI e la sua chiesa fascista, ho perso una grande occasione (ne ho perdute tante nella mia vita, ma questa me la sono persa proprio come un coglione). Margherita, fra una fuga da casa e una tirata di erba, fu fra le prime persone che frequentavo all'epoca ad aver compreso il sapore della musica suonata, vissuta e bevuta come la si dovrebbe sempre suonare, vivere e bere, allo scopo di consumarla sana e conservarla in quel grande hard disk che è il nostro cervello decomponibile. Quel poco che sapeva su Bob Dylan lo aveva imparato dai volumi 4 e 5 della Bootleg Series, retrospettive live che non mancava mai di far risuonare della sua tana improvvisata. La Rolling Thunder Revue mi piaceva fisiologicamente di più, ma ogni tanto dovevo cedere al concerto alla Royal Albert Hall (che in realtà era la Manchester Trade Hall, ma non importa), in particolare al secondo cd, quello dove His Bobness veniva raggiunto dagli Hawks. 
Il risultato fu che mi persi, per più di un decennio, il primo cd, quello con Dylan da solo: altri suoni, altre parole, altri pensieri partono direttamente dalle casse per raggiungere i vasi sanguigni. Fourth Time Around e Visions of Johanna, rispettivamente cibo per lo stomaco e cibo per la mente. She Belongs to Me, con la lingua tagliente di Bob che sferraglia da sotto i Ray-Ban elargendo pillole di filosofia per la sopravvivenza urbana. Riflessioni che combinano i massimi sistemi con le massime e minime intemperie quotidiane, come accade nella Just Like a Woman finita qua dentro. Una It's All Over Now, Baby Blue in cui lui e lei si rimescolano i ruoli e per quasi sei minuti sembrano condividere il piacere perverso della separazione. Una chilometrica Mr. Tambourine Man in cui Bob offre il meglio e il peggio di sé, mantenendo un atteggiamento tipico di quei giorni in cui l'etilismo scioglilingua e le metamfetamine neanche lo rendevano consapevole di dove finisse il proprio io e iniziasse l’altro. E se è difficile stabilire se la Desolation Row del 1966 sia davvero la migliore mai incisa (quindi, meglio che su Highway 61, meglio delle outtakes col pianoforte e la band, meglio che all'Unplugged di MTV), è chiaro come il sorgere del sole che il modo in cui qua Dylan suona l'armonica non ha eguali, sia su questo pianeta che in pianeti ancora da scoprire.





giovedì 17 maggio 2018

L'edizione da edicola di "Anima Latina" e altri racconti [Extra]

Mi fermo dove sono solito riempire la pancia della Ginetta, al benzinaio Ala. Mentre la pompa inietta il prezioso liquido nel serbatoio, lancio un'occhiata oltre l'area self service, verso la cassa dietro cui un distinto signore, sulla quarantina, siede con disinvoltura e mi sorride. Penso con quante tipologie di persone dovrà vedersela durante il giorno e quasi lo compatisco. Sarà che mi rivedo in una situazione analoga (fino a febbraio ho lavorato all'ufficio relazioni col pubblico del mio comune), ma la voglia di confrontarsi, di fare due parole ci sarebbe tutta. Rimando alla prossima occasione e mi butto sulla prima strada di campagna che trovo: il ritorno verso casa deve essere dolce e accompagnato dal giusto paesaggio, oltre che da un'adeguata colonna sonora. Non è un caso se in momenti come questi mi accanisco e bestemmio, skippando di continuo i brani dell'iPod (a proposito, ho finito i 160 giga disponibili) senza trovare pace. Sfinito, naufrago su Ram di Paul (e Linda) McCartney. Manciate di secondi per scegliere cosa ascoltare, e alla fine cado su un ex-Beatles! Too Many People discioglie qualunque accenno di negatività, mi annebbia i sensi, mi lascia ormeggiare in un porto sicuro. Reo di essere uscito fra la fine dei baronetti e la partenogenesi degli Wings, Ram fu accolto malamente dalla critica musicale dell'anno di grazia 1971, che dal canto suo espresse giudizi che fanno rabbrividire. Rolling Stone- da sempre sul pezzo quando si tratta di far cacare i maiali-non mancò di sfoggiare quel "campione" di Jon Landau: "incredibilmente incoerente e completamente inadeguato", ebbe a scrivere. Sarà che mi rispecchio narcisisticamente in questa definizione, ma avercene di musica così incoerente e inadeguata, specie in questi tempi di dibattiti pipparoli post-Concertone:
Alla sera, raggiungo il mio paese natale per raccattare un paio di biglietti per un concerto. Al Politeama si esibisce il Giulia Galliani Mag Collective: praticamente, una eccezionale cantante con dietro di sé il meglio del meglio della scena musicale della zona, e quindi d'Italia. Scopro che comprare in anticipo i biglietti mi costerebbe ben sei euro in più rispetto all'acquisto diretto la sera stessa del concerto. Mi assicurano che le prenotazioni non sono molte e che non si rischia nessun tipo di esaurimento, e accetto queste condizioni. Porto Francesca con me: ha quindici anni, si interessa di musica, la suona, la respira, la percepisce in un modo che io a fatica ricordo (beata lei!) e che, alla fine, è l'unico modo che conta e con cui val la pena viverla. Questo sestetto jazz presenta uno spettacolo che ho già visto due anni fa: dieci brani di Joni Mitchell riarrangiati al meglio e appartenenti alla prima decade di carriera della canadese, ossia alla sua fase migliore. Song to a SeagullLadies from the Canyon, Blue, Court and Spark, Heijira, The Hissing of Summer Lawns, Don Juan's Reckless Daughter e, seppur in maniera ridotta, Mingus sono quei dischi che, a fasi alterne, hanno percosso prepotentemente le mie corde, mi hanno avvolto e sedotto, mi hanno fatto prigioniero e liberato allo stesso tempo, mi hanno svuotato e arricchito, hanno ridato un senso alla mia condizione terrena. Insomma, Joni Mitchell mi piace da matti. Nei momenti in cui mi abbandono a euforici sbilanciamenti culturali, arrivo perfino a definirla la mia cantante preferita. L'idea di gruppo di questo Mag Collective è molto particolare, nel senso in cui potrebbe somigliare moltissimo alla band della Mitchell a cavallo fra il 1978 e il 1979: il sax tenore di Giovanni Benvenuti che è secondo, per rilevanza, solo alla voce della Giulia, un funambolico basso elettrico che Marco Benedetti sporadicamente alterna al contrabbasso, l'incredibile sezione di batteria/percussioni nelle preziose mani di Andrea Beninati, il ricco comparto tastiere di Matteo Addabbo in cui spicca, inevitabilmente, l'Hammond. Unica sostanziale differenza rispetto alla formazione che incise Mingus: la presenza della chitarra solista di Andrea Mucciarelli, che a momenti sembra seguire le orme di Gary Lucas pur mantenendo il suo magniloquente tocco di lead guitarist dall'ispirazione bluesy. Ciò che scaturisce dal vivo è una musica libera ma mai sopra le righe, difficilmente etichettabile (e questo la accomuna ad almeno due, tre album della stessa Mitchell), pulita, coinvolgente, vera. Fra un pezzo e l'altro, nella sala minore del Politeama, serpeggiano i nomi di vari generi musicali per descrivere ciò a cui il pubblico si trova di fronte: sorrido solo quando, dalla fila davanti, una ragazza sussurra qualcosa a un'altra- catturata più dal proprio smartphone che non dalla magia della musica -e l'aggettivo progressive mi giunge alle orecchie. D'obbligo, una volta usciti, l'acquisto dell'album Song to Joni (Dodicilune Dischi, 2018).
Lunedì mattina mi sveglio alle 6. Piove, fa freddo e ho un appuntamento tre ore dopo. Spero di riprendere sonno, ma è tutto inutile. Leggo qualche pagina da un volumetto monografico edito da Castelvecchi nel 1995 stampato in ricordo di Jerry Garcia. Mi piace il sottotitolo: Riflessioni e illuminazioni della chitarra magica dei Grateful Dead. In fin dei conti, è un'antologia economica col meglio del meglio tratto dalle interviste al Papà-Orso migliore del mondo, un libello fuori catalogo da almeno vent'anni e trovato per caso su eBay. Sono circa quindici giorni che questo cielo grigio e pesante preme sugli abitanti di questo spicchio di mondo. Nemmeno a novembre l'umidità penetra così a fondo. Alle 8 trascino stancamente Ginetta sulla rampa del garage, sfilo dal lettore Them Again (ho un debole per i "secondi dischi" e sono spesso riluttante verso gli esordi, seppur con le dovute eccezioni) e inserisco Bone Machine di Tom Waits. Il mio universo stamani ha i colori della copertina di Bone Machine, i contorni fuori fuoco di quella orrorifica fotografia di Jesse Dylan. Scendendo per via XXV aprile incontro tutti i personaggi di Earth Died Screaming: incrocio Rudy a metà strada, intravedo Giacobbe dentro la sua tana, osservo la scimmia sulla scala e il Diavolo che spala il carbone, butto gli occhi al cielo proprio mentre passano quelle tre cornacchie grandi come aereoplani e infine, alla rotatoria, quello spelacchiato del leone tricefalo. Piovono sgombri, piovono trote, e il mio atteggiamento nei confronti di questa giornata muta nel solo volgere del ritornello.
Certi pensieri mi sfibrano, cado su alcune insicurezze e contemporaneamente ne spazzo via molte altre. Una su tutte: l'ipotetico acquisto di una di queste docking station con cui molti coetanei stanno riempiendosi gli appartamenti. Una ventina di giorni fa, nella sua casa nel cuore di Poggibonsi, Stefania mi ha fatto ascoltare Tracy Chapman su uno di questi affari. Funziona così: lo smartphone collegato a Spotify o YouTube o- se si è maggiormente fissati -a una libreria multimediale viene connesso, tramite tecnologia bluetooth 4.2, a queste scatolette poco più che tascabili. Nella fattispecie, il modello marca Fresh N'Rebel (nome strambo e, a mio gusto, dallo scarso appeal) richiama, nel design, la tela dei vecchi amplificatori (a me vengono in mente certi Vox), sprigiona una potenza di 20 watt ed è perfino dotato di un laccio in pelle sintetica che lo rende trasportabile anche addosso alla propria persona. Il volume è regolabile direttamente dalla periferica tramite dei suggestivi tasti in rilievo luminosi, e lo stesso vale per la sequenza dei brani, la pausa, il rewind. Caricato tramite USB, ha un'autonomia di 15 ore e costa 99 euro, prezzo che rende Fresh N'Rebel fortemente competitiva nei confronti di storici leader del settore dei diffusori acustici come Bose, JBL e Trevi. Perfino Google si è lanciata sul mercato con prodotti di bassa lega venduti a cifre stracciatissime, mentre B&O ha perseguito il pensiero opposto: docking station all'avanguardia disponibili ai consueti prezzi da gioielleria. <<Funziona bene questo aggeggio, vero?>>. Questo aggeggio funziona abbastanza bene, è innegabile, ma è  poco più di una radiolina. Un orpello da esterni, ottimo se si vuole partecipare a un picnic senza rinunciare ad un equo accompagnamento musicale: termini come "pile", "ricarica", "autonomia" saranno un lontano ricordo e questa diavoleria assolverà egregiamente ai suoi compiti. Per una casa ci vuole ben altro. Tanto per mettere i punti sulle "i": qualsiasi "compattone" prodotto da Panasonic, Sony o Philips fra anni '90 e 2000 diventa uno strumento hi-fi in confronto a queste docking station. Il problema, ovviamente, è alla fonte, ma questo discutibile comfort multimediale delle iperconessioni è una frottola che ha attecchito agilmente e certa fuffa audiotecnica viene fatta passare per rivoluzionaria, quando le rivoluzioni, in questo campo, sono ben altro.
Il 15 maggio partecipo al funerale del nonno di una delle mie più care amiche, nonché di una degli abitanti di questo pianeta che conosco da più tempo. Pomeriggio mesto, umore sotto pressione, insicurezza scaturita dalla parola "futuro" ai massimi livelli, situazione socio-politica disastrosa. Perdo tempo a parcheggiare, arrivo a cerimonia già iniziata, la chiesa è gremita e resto fuori, quando inizia perfino a piovere. Mi sento una comparsa del video di November Rain. Esce il feretro, incontro persone con cui ci vogliamo bene da tutta la vita e che non vedo da molti, troppi anni. Mi emoziono, eppure sono troppo ripiegato per elaborare un pensiero degno di questo nome e quindi di assolvere dignitosamente al macabro rito delle condoglianze. Non ce la faccio a seguire il corteo fino al cimitero, mi scuso e riprendo la strada di casa. Piano piano ritorno in me e ricordo che devo passare dall'edicola per i giornali. Una fila di giocatori di grattaevinci occupa buona parte della mia visuale. Do un'occhiata ai libri a fumetti: roba costosa per cui in questo momento non posso permettermi di spendere. C'è il terzo volume dell'opera omnia di Robert Crumb che mi tenta non poco, ma 25,50€ sono più che sufficienti a farmi rientrare in carreggiata. Lì vicino, sulla destra, trovano spazio sia le riviste musicali (sempre meno e sempre più rivolte al passato, al collezionismo, al voyeurismo e ad altre pieghe poco piacevoli di questa grande passione) che le collezioni di cd che molti periodici continuano a mandare nelle edicole. TV Sorrisi e Canzoni sta curando in questo periodo sia quella dei Doors che quella, rimasterizzata, di Lucio Battisti. La formula è la stessa da almeno quindici anni: prima uscita con cofanetto in regalo e a prezzo ridotto, le seguenti a cifre che difficilmente raggiungono i dieci euro. La grande comodità di queste iniziative editoriali è che, al contrario di altre, non sei obbligato ad acquistare anche il settimanale che le indice. Vuole il caso che questa settimana sia il turno di quello che- nell'immaginario mio e non solo mio -sia uno dei principali contendenti al ruolo del più grande disco italiano di tutti i tempi, ossia Anima Latina. Cosa penso di Battisti e della sua musica l'ho ampiamente spiegato in un post di cinque anni fa, da cui mi limiterò a prendere in prestito le poche righe dedicate al disco in questione: "con Anima Latina Battisti si supera, fonde il progressive rock coi ritmi del Sud, non rilascia alcun singolo, azzera i ritornelli, tiene bassissime le tracce vocali, fa trionfare il proprio genio compositivo". Può bastare questa come presentazione, ma voglio aggiungere che alla cifra con cui, nell'arco di una giornata, si fa colazione al bar e si prende un aperitivo, ci si porta a casa una spettacolare mappa di viaggio verso un pianeta di musica intensa, ricca, audace e spavalda. Prima di cena, il temporale finisce e le nuvole nere svaniscono: anche se il sole sta scomparendo, è comunque fonte di un minimo sollievo. Non vedo la campagna, ma ormai posso percepirla persino attraverso metri e metri di cemento. E me la immagino, mentre dallo stereo, dopo due minuti e ventidue secondi dall'inizio della title-track, Battisti quasi sussurra:
Scende ruzzolando
dai tetti di lamiera,
indugiando sulla scritta
"Bevi Coca-Cola".
Scende dai presepi vivi
appena giunge sera...".

lunedì 7 maggio 2018

"Shadow of Your Love" e altre bugie (un'anatomia di "Locked N'Loaded") [Anteprima]

Cosa ci sia nella musica dei Guns N'Roses che continua ad irretirmi tanto lo sa solo Satana in persona. Fatto è che, in attesa di tornare a vederli a Firenze il prossimo 15 giugno, ho letto la biografia di Mick Wall, mi sono schierato (come mio solito) dalla parte di Axl dopo l'annuncio fatto di un intero, nuovo album di inedite degli AC/DC cantate dal rosso di Lafayette, sono entrato e rapidamente uscito da un fans forum italiano e ho continuato, imperterrito, a tenere le antenne dritte. Ovviamente, nei ritagli di tempo, ho scritto, aggiunto e tolto nuovo materiale alla bozza di quel libro che dal 2015 se ne sta lì, sospeso fra il saggio e il romanzo, è già passato attraverso due titoli di lavorazione (L'ultimo spettacolo del mondo e Gli anni selvaggi) ed è in attesa di riceverne un terzo (a ora Illusioni indesiderate è in cima alla lista, ma si accettano suggerimenti). Tutto questo per dire che la notizia che vede nel prossimo 29 giugno la data scelta dalla band per la pubblicazione di Appetite for Destruction- Locked N'Loaded Edition ha subito conquistato la mia attenzione, in quanto i Guns si avventurano in un territorio discografico mai discusso come al giorno d'oggi (quello dei boxset più o meno "di lusso" che dovrebbero fare il punto su un determinato momento della carriera di un artista o di un gruppo). Malgrado Axl abbia sempre avuto da ridire sia sulla qualità delle outtakes dei primi anni e, in generale, su operazioni retrospettive di qualsiasi tipo (a suo tempo, intentò perfino una causa  legale alla Geffen per impedire l'uscita del Greatest Hits del 2004, ossia di uno dei sette dischi della storia a poter vantare una permanenza sulla classifica Billboard di oltre 400 settimane), questo mastodontico cofanetto già pre-ordinabile sul sito del gruppo alla irrispettosa cifra di 999 $ sembra vederlo impegnato in prima linea. Fasti di questo genere sono stati il sogno nel cassetto di molti appassionati per tutto il 2017 (ossia il vero anno del trentennale di Appetite), ma nessuno si era azzardato a domandare niente. Slash, in una recente intervista perlopiù dedicata ai suoi progetti con Myles Kennedy e i Conspirators, aveva accennato ad un doppio cd celebrativo: nel primo, un remaster coi fiocchi dell'album originale, mentre nel secondo il solito impasto di materiale aggiuntivo assai stuzzicante. Superfluo aggiungere che nè i giornalisti, nè il chitarrista si sono azzardati a domandare che fine avessero fatte quelle canzoni "nuove" di cui si parlò molto a fine 2016, o dove fosse sparito quel doppio disco di inedite che Bumblefoot annunciò come concluso e pronto alla pubblicazione già nel 2015, o ancora a che punto fossero le operazioni di recupero di tutta la musica registrata e mai emersa durante le sessions di Chinese Democracy. Questioni senza risposta destinate a restare tali e che possono farci solo capire quanto il giornalismo musicale mainstream- un tempo un po' più "scomodo" pur nella sua antipatia -sia giunto al capolinea, troppo impegnato a incensare un prodotto che, nonostante non abbia già raggiunto i negozi (ammesso che i negozi di dischi esistano ancora da adesso al 29 giugno), si presenta già come inutile, ridondante e di cattivo gusto.
A tutti piacciono queste cazzate, ci mancherebbe: croci 3D, bandane cafone, plettri tamarri, stampe, foto, repliche di locandine d'epoca, 45 giri in vinile multicolore e tutto il ben di Dio con cui l'industria discografica riempie fino all'orlo questi scrigni del tesoro. La prima cosa che salta agli occhi  (almeno ai miei) guardando il trailer è al minuto 00'24'': un libro di 96 pagine con "foto mai viste tratte dall'archivio di Axl Rose". E' come se un oscuro burocrate mi picchiettasse la spalla per dirmi <<Coglione, cosa li spendesti a fare quei 24€ per Reckless Road anni fa, quando oggi Axl tira fuori le foto dai suoi archivi?>>. Per chi se lo fosse perso, Reckless Road. La genesi di "Appetite for Destruction" (BD Edizioni, 2009) di Marc Canter è il più bel libro fotografico mai pubblicato sui Guns, un'opera in cui foto e testi offrono una completezza di informazioni sul periodo 1985-1987 che il volumone di Mick Wall o le grandiose pagine di Ken Paisli redatte sull'argomento non sono in grado di restituire. Il motivo è presto detto: Marc Canter c'era. Di archivi fotografici penso che il suo possa bastare.
Nel cd 1 non può non trovare spazio Appetite for Destruction, con ogni probabilità uno dei dischi più noti e meravigliosi di tutti i tempi e, di conseguenza, un'opera d'arte su cui si è già detto tutto e il contrario di tutto. Un album che, a trentuno anni dalla sua uscita, continua a coinvolgere ascoltatori di ogni credo, razza e colore grazie anche soltanto a quella passionale semplicità che ne permea ogni istante. Personalmente, penso di poterne citare a memoria perfino le liner notes e l'esatto ordine dei credits, oltre a poter descrivere, con dovizia di particolari, posizioni e atteggiamenti di ognuno dei magnifici cinque nelle foto del libretto. La Universal fa il suo e oltre a sbandierare il fatto che sia la milionaria edizione Locked N'Loaded che la più economica Super Deluxe Edition (179 $) presenteranno la medesima tracklist, tende a sottolineare che la rimasterizzazione dell'album sia stata affrontata, finalmente, partendo dai master originali. Non sono un audiofilo, e per motivi di spesa sono costretto a tenermi alla larga da certi formati, ma la memoria non mi è mai mancata: ragion per cui corro su Google e consulto Discogs (un portale tutt'altro che semplice ma con cui ho preso ormai dimestichezza) e lo trovo. Mi ricordavo bene: nel 1997, complici il decennale dell'album originale e un imbarazzante silenzio discografico e mediatico sorto attorno ai Guns, la Mobile Fidelity Sound Lab pubblicò l'edizione original master recording su UltradiscII. Destinata al mercato americano e giapponese? Sicuro. Cara? Potete scommetterci. Scarsamente reperibile? Diciamo che non la troverete nè in catalogo nè su eBay, ma se si hanno nozioni molto basilari di ecommerce e passione per la musica, non è impossibile trovarla. Quindi, tanto vale asserire che il cd 1 dei 4 pubblicizzati, intanto, è già relativamente inutile.
I misteri si infittiscono scorrendo i titoli del cd 2: troviamo l'equivalente del Live Like @ Suicide opportunamente rimasterizzato e una Shadow of Your Love incisa dal vivo (primo dei 49 brani inediti). Segue You're Crazy (Acoustic), tratta- penso ingenuamente sulle prime -da Lies. Ma allora perchè Patience, Used to Love Her e una You're Crazy vengono subito dopo? Paradossale che, stando così le cose, il box di Appetite for Destruction finisca col comprendere anche il secondo album del gruppo? Forse sì, ma nonostante sia proprio Lies a spegnere 30 candeline in questo 2018, non è pubblicizzato o citato da nessuna parte. E poi One in a Million- ossia uno dei tre migliori pezzi mai incisi dal gruppo -che fine ha fatto? Basteranno It's so Easy (Live), l'embrionale Knockin'on Heaven's Door (Live), che in tempi non sospetti venne mandata in onda perfino da MTV, e la rovente e arcinota Whole Lotta Rosie (Live) che ogni bootleggaro GNR ha nei suoi archivi, in qualità più che buona.
La delusione inizia a farsi sfibrante, e l'animo di un appassionato serio e navigato non potrà fare a meno di impallidire di fronte all'oltraggioso cd 3, sottotitolato 1986 Sound City Session. Unica miglioria rispetto al 2: c'è un'organicità che al cd precedente manca completamente. Per il resto, prendete il miglior bootleg fisico o digitale riguardante le sessions losangeline dell'anno 1986, quelle in cui, per intenderci, mancavano all'appello It's so Easy, Mr. Brownstone e Sweet Child O'Mine e al loro posto c'erano delle belle covers di Elvis (Heartbreak Hotel) e degli Stones (Jumpin' Jack Flash). Bene. Ripulite laddove ce ne sia bisogno queste demo, date loro una lustrata digitale con l'ausilio anche della beta di Garage Band e avrete ottenuto l'intero terzo cd del cofanetto. Anche qui, pescando a caso e ascoltando il primo video HQ di Heartbreak Hotel reperibile su YouTube, viene da domandarsi: che bisogno c'era?
Il quarto (e ultimo) dischetto sembra essere vagamente più ricco, ma a sua volta ricco di brogli. Spetta alla Shadow of Your Love erroneamente scambiata/spacciata per inedita e online dal 4 maggio il compito di aprire le danze. Il remix c'è e si sente (anzi, se posso essere malizioso, la batteria mi sembra completamente ri-registrata): ritmicamente sembra più lenta, il suono limpido, corposissimo, con coretti tutt'altro che originali. 3 minuti e 6 secondi contro i 2 e mezzo della versione storica. Manca completamente quel groove punk tirato e diretto della b-side pubblicata già nel dicembre 1991 sul singolo di Live and Let Die. Insomma, lungi da me passare da conservatore, ma questa versione leccata e tirata a lucido e fatta passare per una canzone mai udita è vuota, sterile e disonesta quasi quanto questa intera operazione. Per il resto, posto qua sotto l'edizione 2018 e quella del 1991, allo scopo di agevolare agli interessati un'anatomia comparata:
Segue Move to the City (Studio Version): finalmente, che bello! Peccato che anche lo spettatore medio di Canale Italia 84 sappia che tutta la facciata live di Lies era composta, in realtà, da brani incisi in studio e a cui Alan Niven si era limitato ad aggiungere un rumore di folla in delirio. Perciò, possiamo immaginare che il risultato sia quello che già trova spazio in numerose edizioni amatoriali pubblicate da semplici appassionati sul Tubo. Non che ci volesse Bob Clearmountain per certa roba! Ascoltare per credere:
Ain't Goin' Down è un altro must have dei bootleggers col pallino dei GNR, nonchè una rarità dall'esistenza tormentata e dalla travagliata attribuzione storica. Quando Maggie mi preparò- con la cura delle belle cose che da sempre la contraddistingue -il primo cd delle Rarities (era il novembre del 2005), questo pezzo, ovviamente, c'era. Lo mise quasi in fondo: al contrario di altre demo, la qualità audio di Ain't Goin' Down era davvero scadente, soprattutto per quel che concerneva voce e sezione ritmica. Le chitarre sembravano esser state registrate con un cellulare molto rudimentale piuttosto che col microfono di una sala, ma, per amore della filologia e dei Guns, anche queste versioni primitive e grezze dovevano essere comprese nei nostri grandiosi progetti di archivio. La domanda che sorgeva spontanea era: a che periodo ricondurre questa canzone? Il file scaricato dal Mulo riportava il 1994, l'anno di Sympathy for the Devil, del licenziamento ingiusto e coatto di Gilby Clarke e del reclutamento di Paul Huge, ma era un dato sfalsato: alcuni biografi e archivisti indicavano il pezzo come uno dei tanti scartati dalle sessions degli Illusion. Se, al contrario del sottoscritto, possedete delle copie fisiche di Unwanted Illusions, Use Your Illusion Outtakes o dei celebri Rumbo Tapes, potrete notare che la Ain't Goin' Down ivi presente appartiene davvero al materiale uscito dai Rumbo Studios, ma le sue origini sono antecedenti. La versione (strumentale) che sarà inclusa nel box risale infatti al 1986. Potrebbe trattarsi, finalmente, di una canzone dei Guns relativamente più inedita di altre e che magari viene riportata a nuova vita dalle moderne tecniche dell'ingegneria del suono, e invece c'è una storia sotterranea e poco nota (nè Ken Paisli, nè Mick Wall ne fanno menzione nei loro libri) che non solo fa luce su un aspetto "conclusivo" di Ain't Goin'Down, ma che, in minima parte, riabilita anche l'hacker che mise in rete quella traccia datandola 1994. Effettivamente- molto in sordina e senza alcuna pubblicità discografica o anche solo mediatica -nel 1994 una Ain't Goin'Down fatte e finita raggiunse il pubblico dei Guns N'Roses, in particolare però quella fascia di gunners che condividevano con Slash la passione per il flipper: non come cd singolo, nè nelle radio, nè su MTV, una Ain't Goin'Down massicciamente elettronizzata (non è di certo un segreto che l'Axl post-1993 si fosse appassionato a synth, informatica e compagnia briscola) avrebbe accompagnato i giocatori di GNR Pinball Machine attraverso le loro partite di flipper. La vicenda viene spiegata e approfondita molto bene sulla pagina YouTube Guns N'Roses Central. Per i feticisti, segue il video della Ain't Goin' Down edita, molto divertente.
Seguiranno gli unici due pezzi realmente inediti (2 rispetto agli annunciati 49, badate bene!) di questa raccolta farlocca: The Plague e New Work Tune (il cui titolo, chissà perchè, mi odora tanto di breve stacchetto strumentale ripescato chissà dove e messo lì a mo' di riempitivo...). Paradossalmente, sono anche gli unici due motivi di curiosità che smuovono il mio interesse per l'operazione Locked N'Loaded. Anche consultando siti e forum che ricostruiscono il passato remoto dei GNR, nessuna scaletta delle serate losangeline a cavallo fra 1985 e 1986 riporta The Plague fra i pezzi suonati allora. E mentre per le studio version di Reckless Life, Nice Boys e Mama Kin vale quanto scritto e udito sopra per Move to the City (poi, per carità, spero di essere smentito), non dovrebbe accadere lo stesso con Back Off Bitch. Retta da un irriverente testo scritto da Axl e Paul Huge quando muovevano i primi passi  come rockers nell'Indiana (le prime bozze risalirebbero addirittura al 1979, rendendola, di fatto, il più vecchio brano dei GNR), musicata da Chris Weber ai tempi degli Hollywood Rose (la prima demo esistente, datata 1984, porta la loro firma) e infine riarrangiata da Slash, è una canzone che- come Shadow of Your Love -non avrebbe sfigurato su Appetite for Destruction. Dal vivo funzionava, anche se la demo finanziata dalla povera Vicky Hamilton e incisa agli economici Mystic Studios nel 1985 ha sempre mostrato dei Guns ancora acerbi e non del tutto a loro agio. Speriamo solo che questa versione di poco successiva renda udibile un gruppo intento a compiere il proverbiale "passo avanti".
Anni prima di diventare il singolo milionario e- per durata, costi, videoclip, esibizioni dal vivo, ecc. -fuori misura che tutti conosciamo, November Rain era una tenera ballad che Axl aveva composto al pianoforte ispirandosi ad uno dei suoi grandi miti: Elton John. Molto timidamente, ne aveva approntato una traballante versione di dieci minuti per piano e voce: sia quella che la meno nota (ma non per questo poco presente nei vari bootleg o difficilmente reperibile in ogni dove) acoustic version furono registrate ai Sound City Studios. La prima è doveroso averla per mero completismo, mentre la seconda (più breve sia della demo che della November Rain definitiva), dove è presente il resto della band e la chitarra sostituisce il pianoforte, avrebbe potuto tranquillamente far parte di Lies. Sono delle demo, al limite delle alternate takes, che conosciamo da anni e che magari saranno piacevoli da riascoltare una volta passate da una doverosa rimasterizzazione (la versione solo piano e voce ne ha un gran bisogno), ma niente di più.
L'ultimo disco di Locked N'Loaded si chiude con quelle che- almeno sulla carta -sono più ombre che luci. O meglio: è risaputo che i Guns avessero abbracciato le chitarre acustiche e semi-acustiche già durante l'anno della loro formazione. Le occasioni venivano fornite loro dai gestori di bar aperti fino all'alba, dagli organizzatori di feste private o dal pubblico "amico" dei locali sparpagliati fra Hollywood Boulevard e Melrose dove venivano talvolta arrangiati degli after-show. Esistono foto e riprese amatoriali di una notte al The Central (1 maggio 1986) dove proposero un breve set acustico comprendente Move to the City, Don't Cry e il loro cavallo di battaglia dell'epoca Jumpin'Jack Flash. La Move to the City acustica più famosa rimane comunque quella suonata al CBGB di New York il 30 ottobre 1987 e presente in un rarissimo e pregevole bootleg approntato dall'italiana Templar nel 1991 (One in a Million), ma mai erano emerse notizie di una versione simile incisa in studio. Il box ne presenta ben due: la prima sempre incisa ai Sound City, la seconda risalente al 1988 e senza nessun'altra dicitura aggiuntiva. Nel mezzo fra il nulla e il niente, un'altra You're Crazy (ho perso il conto, neanche fosse Like a Rolling Stone!) e una Jumpin'Jack Flash sempre acustica. Per capire meglio, basta aspettare il 29 giugno, ma per adesso direi che è legittimo parlare di grande delusione. Misurarsi con i propri archivi non è mai semplice, e Appetite for Destruction- Locked N'Loaded ne è la (tombale?) riprova.